Giovanni Paolo II ed il Concilio Ecumenico Vaticano II

Angelicum n.2- 2010

Gli incontri del semestre all’Angelicum:

Conferenza del Vicepresidente della Camera dei Deputati
On. Prof. Rocco Buttiglione

Pontificia Università S. Tommaso d’Aquino Angelicum
22 febbraio 2010

Il nome stesso lo dice: all’atto della sua elezione Karol Wojtyla vuole sottolineare con forza la continuità fra il suo pontificato e quello dei Papi del Concilio. Di essi, ed in modo particolare di Paolo VI, egli si considera un figlio spirituale.

A lui torna il suo pensiero in un momento chiave del Pontificato, nel discorso a Varsavia all’inizio del suo primo pellegrinaggio nella patria. Li egli parlerà del desiderio di Paolo VI di visitare la Polonia, desiderio destinato a rimanere, per tutto il corso della vita di quel grande pontefice, incompiuto.

E tuttavia la Provvidenza divina non ha concesso che quel desiderio si realizzasse solo perché esso maturasse attraverso la prova della sofferenza e si compisse più tardi ma in un modo di molto più grandioso, iscrivendosi in qualche modo all’interno dei Magnalia Dei del tempo nostro. Già l’elezione del Papa polacco è realizzazione di quel desiderio e poi anche la visita del Papa polacco nella terra natale ed il rinnovamento della vita del popolo polacco che ne seguirà, fino alla riconquista della libertà politica e della piena sovranità nazionale. Tutto questo Giovanni Paolo II lega, all’inizio del suo pontificato, con il desiderio ed il dolore del suo grande predecessore.

Credo che qualcosa di analogo possiamo dire per ciò che riguarda la relazione fra Paolo VI, Giovanni Paolo II ed il Concilio Ecumenico Vaticano II. Paolo VI ha desiderato e preparato il rinnovamento conciliare come Cardinale di Milano è stato uno dei suoi protagonisti; poi come Papa ne ha indirizzato e seguito i lavori con totale partecipazione, infine lo ha concluso. Dopo la conclusione del Concilio Paolo VI si è accinto al compito, che sapeva non semplice ed arduo, della sua realizzazione.

La auspicata nuova primavera della Chiesa è stata però sorpresa da una gelata improvvisa. Il mondo intero, ed in particolare i paesi dell’Occidente, sono stati attraversati da una scossa inaspettata di proporzioni inaudite che ha aggredito molti valori consolidati ed anche direttamente la Chiesa. Nuove tendenze culturali si sono insinuate nel dibattito sul post Concilio interno alla Chiesa cattolica ed hanno preteso di presentarsi come interpreti autentici del Concilio.

Paolo VI ha molto sofferto per questa situazione e tuttavia ha retto con fermezza il timone della barca di Pietro. Ha difeso il Concilio contro coloro che volevano rifiutarlo e anche contro quelli che volevano dargli un significato diverso da quello che esso effettivamente intendeva e contrario alla tradizione della Chiesa.

È a causa di questa difesa che Paolo VI è stato spesso criticato, gli si è costruita addosso l’immagine del Papa indeciso, “amletico”. È, nei momenti di crisi, il destino di quelli che rendono testimonianza alla verità difendendola contro gli errori opposti che la minacciano. La verità, infatti, come insegnava Aristotele e come ha ripetuto con geniale umorismo nel secolo XX G. K. Chesterton, è sempre una certa mesotes (μεσότής), una via di mezzo fra due errori opposti.

Quali sono questi due errori? Da un lato vi sono i reazionari che rifiutano il rinnovamento conciliare. Per loro la fedeltà alla verità coincide con la salvaguardia delle forme storiche nelle quali la verità ha vissuto nel tempo storico della loro giovinezza e nella quale essi al principio la hanno oppressa. Ogni cambiamento è visto dunque come tradimento della tradizione. Dall’altro vi sono: i “progressisti”.

Essi vedono nel Concilio una rottura totale con il passato della Chiesa. Tale passato non è semplicemente da superare (nel duplice senso della Aufhebung hegeliana che è un cambiare e insieme un conservare, un inverare la medesima essenza di sempre in una forma nuova adeguata ai tempi) ma da condannare. Per un aspetto essi riprendono la visione storiografica propria della Riforma protestante.

I primi storici protestanti (e segnatamente Matteo Flacio Illirico e dopo di lui la scuola dei Centuriatori di Magdeburgo) distinsero nettamente una Chiesa delle origini da una Chiesa costantiniana corrotta dal peccato (e nasce così il concetto di Medio Evo, tempo intermedio fra il cristianesimo autentico delle origini ed il cristianesimo riformato della modernità) e da una Chiesa riformata che ritorna all’origine saltando e delegittimando il tempo intermedio della storia della Chiesa.

Per alcuni rappresentanti della teologia “progressista” la Chiesa Cattolica con il Concilio dovrebbe ripetere il movimento della Riforma protestante di allora. Tornare dunque alla Chiesa delle origini e problematizzare tutta la storia successiva della Chiesa. Questa ala estrema della teologia progressista si ritrova naturalmente nuovamente di fronte i problemi della teologia protestante del secolo XVI. Da dove inizia la corruzione medievale e romana? Le definizioni trinitarie dei grandi Concili del IV e del V secolo rientrano in tale corruzione oppure no? Dove incontriamo il terreno solido della fede primitiva?

Altre difficoltà derivano dal fatto che il ritorno al cristianesimo delle origini è visto anche (e forse soprattutto) come un mezzo per conciliare la Chiesa con il mondo moderno. La modernità, chiaramente in conflitto con la Chiesa medievale e cattolica, si ritroverebbe invece in una relazione di armonia prestabilita con la modernità.

Liberata dal riferimento ad una tradizione dogmatica privata della sua autorevolezza cattolica, la teologia è adesso in grado di ricercare con assai più grande facilità la conciliazione con la modernità. Si tratta, in realtà, di trascrivere l’intero messaggio cristiano all’interno dell’orizzonte trascendentale (cioè della mentalità) dell’uomo moderno. Questo è il senso che assume, nell’orizzonte “progressista”, l’aggiornamento conciliare. Anche il Concilio, infatti, assume come proprio compito fondamentale l’annuncio all’uomo del nostro tempo, nel linguaggio e nella mentalità dell’uomo del nostro tempo. La questione dirimente è però: qual è questo orizzonte trascendentale? In cosa consiste la modernità?

Alcuni infatti sostengono che la modernità coincide con l’abolizione del soprannaturale. L’uomo moderno è un uomo che vive in un mondo desacralizzato in cui la scienza, in linea di principio, ha annullato lo spazio del mistero e anche della domanda di Dio. Cosa ha da dire il Dio di Gesù Cristo ad un uomo che è convinto di possedere per diritto proprio il senso del reale ed il senso della realtà umana?

Abbiamo cercato di tratteggiare brevemente il contesto del dibattito sul Concilio davanti al quale si trovano Paolo VI prima e Giovanni Paolo II poi (senza dimenticare il pontificato breve ma carico di significato escatologico di Giovanni Paolo I). La continuità fra i due si comprende meglio alla luce di alcune fondamentali scelte di metodo e di contenuto. Davanti alla posizione reazionaria (che non mi sembra corretto chiamare tradizionalista) ambedue i Papi ribadiscono il significato proprio della tradizione. La verità è una sola e non cambia nel tempo. Infinite sono invece le vie che conducono alla verità.

Il cammino verso la verità ha infatti sempre un punto di partenza esistenziale. La verità infatti esiste non per essere proclamata astrattamente ma per diventare forma della vita di ogni uomo. Per ottenere questo risultato la verità deve essere resa prossima ad ogni uomo. Bisogna dunque costruire un cammino che conduca dalla situazione esistenziale dell’uomo moderno fino alla verità di sempre.

La verità trascende tutte le forme storiche e culturali nelle quali di volta in volta si incarna ed attraverso le quali soltanto può essere avvicinata. La fedeltà alla tradizione non consiste dunque in una meccanica ripetizione di ciò che una generazione consegna all’altra ma comporta una assimilazione ed una riproposizione creativa. Il Concilio fa propria questa grande lezione di Rosmini e di Newman.

Il Concilio, infatti, è pastorale e non dogmatico. Non intende proclamare nuovi dogmi. È invece un grande tentativo di rivivere la fede nel tempo della modernità, trovando un cammino che conduca dalla modernità alla fede. Il Concilio afferma in linea di principio la possibilità e la necessità di questo cammino.

In altre parole: per essere cristiani non è necessario estraniarsi dalla vita dell’uomo moderno, non è necessario crearsi una mentalità di uomo medievale. È possibile un cristianesimo nella modernità. È su questo punto in realtà che avviene la rottura con i reazionari.

L’uomo moderno non è così intrinsecamente cattivo da non potersi convertire conservando un nocciolo positivo della modernità.

Il medesimo elemento della modernità è però anche quello del contrasto fra Paolo VI e Giovanni Paolo II da una lato e la teologia “progressista” dall’altro. Il patrimonio dogmatico della Chiesa non cambia con il Concilio. Bisogna partire dalla modernità ma non è possibile rimanere prigionieri della modernità. Due sono le chiavi di questo non rimanere prigionieri della modernità. La prima è una convinzione appassionata nella forza creatrice della Parola di Dio. La Parola di Dio spezza le catene della precomprensione con la quale la modernità le si fa incontro; la Parola di Dio costruisce futuro, il futuro di una nuova modernità. Detto in un altro modo: la Parola di Dio crea il proprio orizzonte di precomprensione all’interno della modernità.

La Parola di Dio spezza l’orizzonte trascendentale dell’uomo moderno e crea, attraverso il suo incontro con la modernità, una nuova forma di autocoscienza, un uomo nuovo. Questo, naturalmente, è possibile per la forza di una Parola che è al tempo stesso sacramento: non parola letta solo ma parola agita, parola che è azione sacramentale.

L’altra chiave che consente di non rimanere prigionieri della modernità è una diversa lettura della modernità. Molta teologia “progressista” accetta una lettura apologetica ed autoreferenziale della modernità. Paolo VI e, con maggiore decisione Giovanni Paolo II, hanno una visione problematica e dialettica della modernità. La modernità non è la risposta al problema dell’uomo, ma solo una sua diversa formulazione.

La risposta al problema dell’uomo è Gesù Cristo, ieri, oggi e sempre. Negli anni immediatamente precedenti il Concilio la filosofia che domina nella cultura occidentale è una filosofia esistenzialista che denuncia la crisi di significato nell’esistenza dell’uomo contemporaneo. Il libro di J. P. Sartre L’essere ed il nulla è forse l’opera più caratteristica di questa fase della cultura occidentale. Dall’altro lato il libro di H. De Lubac Il dramma dell’umanesimo ateo è insieme la risposta e la proposta di parte cattolica a quella filosofia. Subito dopo il Concilio il clima culturale cambiò improvvisamente e completamente.

L’esistenzialismo era una filosofia in equilibrio instabile e precario ed era possibile attendersene uno sviluppo in senso religioso. Si pensi per esempio all’esistenzialismo religioso di Gabriel Marcel. Negli anni immediatamente successivi al Concilio l’esistenzialismo cede in effetti ad un’altra posizione culturale ma questa non è quella religiosa ma quella marxista. Il libro di J.P. Sartre Critica della Ragione Dialettica è l’espressione più emblematica di questa svolta. Il dialogo con l’esistenzialismo si trasforma dunque in dialogo con il marxismo. È proprio questo cambiamento di interlocutore a spiazzare gran parte della teologia negli anni del post Concilio.

Il marxismo di quegli anni è la forma ultima del razionalismo. Ritiene di contenere in sé senza residui la soluzione del problema umano ed attende la dimostrazione pratica della propria verità dal successo del tentativo di costruire una nuova società ed un uomo nuovo che non avrà bisogno di Dio, che non sentirà l’esigenza di porsi il problema di Dio. È dunque una forma di fede alternativa alla fede cristiana. Non è facile oggi riattualizzare quel clima culturale. Il marxismo sembrava essere la forma spirituale destinata a guidare una nuova epoca storica.

Qui c’è in effetti una differenza (che non è una discontinuità) tra Paolo VI e Giovanni Paolo II.

Giovanni Paolo II veniva da una paese in cui l’esperimento della nuova società comunista era pienamente in corso ed egli era convinto che tale esperimento fosse già fallito. L’uomo non è in effetti – come ritiene Marx – semplicemente un insieme di relazioni sociali. L’uomo è un essere intelligente e libero, fatto per vivere la comunione con altri esseri umani e per costruire comunità attraverso il dono della propria libertà.

Il fallimento storico del marxismo va ricondotto prima di tutto a questa insufficienza antropologica. Il frutto maturo di questa convinzione di Giovanni Paolo II sarà l’enciclica Redemptor Hominis: Dio rivelando all’uomo la verità su se stesso rivela al tempo stesso la verità sull’uomo. L’uomo è persona e quindi fatto per la comunione con gli altri uomini e con Dio.

Questo soggetto per sua natura comunionale è tuttavia ferito, incapace di realizzare con le sue sole forze, il proprio destino. Se si riconosce l’altissima vocazione dell’uomo si deve necessariamente al tempo stesso riconoscere la sua inadeguatezza a tale vocazione. L’uomo è un essere bisognoso di salvezza, non basta a se stesso.

Quando la cultura dell’Occidente vive con un certo sgomento il problema del confronto con il marxismo, Wojtyla era già convinto che il marxismo fosse sconfitto. Forse rifletteva qualche volta su di una frase di Mons. Piwowarski, che già agli inizi del governo comunista in Polonia aveva detto: “Non ho paura dell’ateismo comunista. Non durerà. È troppo noioso. Temo il vuoto spirituale che terrà dietro al suo tracollo”. Mai previsione fu più appropriata, anche se negli anni del post Concilio era assai difficile darle credito.

La crisi del marxismo trascina con sé quella dell’intero razionalismo illuministico. Per gran parte della cultura comunista il fallimento del marxismo conduce al suo rovesciamento nichilistico. Si passa senza soluzioni di continuità dall’irrazionalismo al razionalismo e da Marx a Nietzsche. Il risultato è l’impossibilità di fondare in alcun modo gli antichi valori che l’umanesimo ateo si proponeva di salvare pur se in forma radicalmente rinnovata. Giovanni Paolo II farà un’analisi straordinaria di questa situazione spirituale nel suo discorso al Parco dei Principi a Parigi nel corso delle sue prime visite in Francia.

Staccate dal loro radicamento nella convinzione di un ordine oggettivamente vero del mondo e, in ultima istanza, in Dio, la libertà, l’uguaglianza e la fratellanza rimangono prive di ogni fondamento ed esposte ad ogni strumentalizzazione. La Chiesa difende i valori positivi dell’Illuminismo nel momento in cui l’Illuminismo rischia di capovolgersi nel suo contrario. Qui Giovanni Paolo II si connette con l’intenzione più profonda del Concilio ma anche con la riflessione dei fondatori della teoria critica della società T.H. Adorno e M. Horkheimer che avevano parlato di una Dialettica dell’Illuminismo, già pronta a capovolgersi nel suo contrario.

Dietro le due questioni che abbiamo considerato fino ad ora, c’è la questione fondamentale dell’autorità. Per distinguere, nella tradizione ciò che è storico e ciò che è dogmatico, cioè appartiene all’essenza della fede, è necessario ammettere che il depositum fìdei è affidato ad una autorità garantita dallo Spirito Santo. Senza questa presenza dello Spirito Santo nella storia inevitabilmente anche l’avvenimento cristiano potrà essere letto solo di volta in volta sulla base dello Spirito del Tempo.

Proprio per questo la funzione del Magistero e la funzione petrina sono la condizione fondamentale e la garanzia di cui la riflessione teologica ha bisogno per svolgere al servizio della comunità dei fedeli il compito di reincarnare creativamente la fede di sempre nel compianto contesto storico del tempo.

Abbiamo finora affrontato prevalentemente questioni di metodo, cercando di delineare una ermeneutica del Concilio, un modo corretto di leggerlo. Spero che sia emersa una ermeneutica di continuità e insieme di revisione radicale. Continuità: il patrimonio dogmatico non è cambiato, la fede di oggi è la fede di ieri e di sempre. Non esiste su questo nessuna rottura, non c’è una fase della storia della Chiesa che possa essere oggetto di una damnatio memoriae, compresa la proclamazione dell’infallibilità pontificia del Vaticano II.

Tuttavia in un certo senso è cambiato tutto. È cambiato tutto come atteggiamento pastorale nuovo davanti alla modernità. È la scoperta del dialogo come metodo per proporre la verità. La verità non deve essere imposta ma deve essere annunciata e l’annuncio muove sempre da una simpatia originaria verso il destinatario dell’annuncio. Ecco, è questo il proprìum del Concilio: la simpatia verso il mondo moderno. La simpatia, ovviamente, non comporta una sudditanza psicologica. Proprio perché ama il mondo la Chiesa ha il compito di onorare la sua altissima vocazione ma anche quella di convincerla del suo peccato. Continuità dogmatica e rinnovamento metodologico sono dunque le chiavi dell’avvenimento conciliare.

Vogliamo adesso concentrare la nostra attenzione su di un unico elemento di contenuto, che ha però un significato centrale nel Concilio e ben si presta ad esemplificare tutto ciò che abbiamo detto. Si tratta della dichiarazione sulla libertà religiosa. I reazionari protestano contro la libertà concessa all’errore. L’errore, a rigore, non ha nessun diritto alla libertà. In realtà la dichiarazione non riconosce nessun diritto all’errore.

Riconosce il diritto della persona a cercare la verità ed anche a sbagliare e ricominciare nel corso di questa ricerca. La posizione reazionaria non riesce a fare proprio il punto di vista del Concilio, che è il punto di vista della persona concreta che non può incontrare la verità se non attraverso la sua libertà. Riconoscere la verità per timore e non per un atto della libertà significa non riconoscerlo affatto. Non c’è verità senza libertà. Senza libertà la verità non può diventare forma concreta dell’agire della persona.

Anche il contrario, però, è vero. Non c’è libertà senza verità. La libertà non esiste in astratto ma nel concreto della vita della persona. La libertà esiste per rendere possibile l’amore, cioè il dono di sé nella verità. Fuori di questa connessione dinamica con la verità la libertà intristisce, diventa il sigillo di una insopportabile solitudine e finisce in una totale irrilevanza. Ciò che desta l’energia della libertà è infatti la possibilità di aderire ad un bene, la prospettiva di un amore. Libertà e verità sono infatti entrambe ordinate a rendere possibile l’esperienza dell’amore.

Il riconoscimento della libertà di coscienza non è e non può essere dunque un cedimento al relativismo. La coscienza che non aderisce al bene nella verità è una coscienza infelice ed è un dovere di chi ama la persona invitarle ad aderire alla verità oggettiva e al vero bene. Verità e libertà sono ordinate a rendere possibile l’atto di amore.

Attraverso questo atto l’uomo mostra e riguadagna la sua somiglianza con Dio, come dice S. Ireneo di Lione: Gloria Dei vivens homo. La gloria di Dio è che l’uomo viva. È questa, probabilmente, la citazione che ricorre più spesso in tutti gli scritti di Giovanni Paolo II. E la citazione continua dicendo che la vita dell’uomo è la presenza di Dio.