Bella e pastorale, ecco la vera musica liturgica

La Nuova bussola quotidiana

29 Dicembre 2017

di Aurelio Porfiri

Ricordo come fosse adesso, una storiella che il mio maestro, il grande Cardinal Domenico Bartolucci, insigne musicista e direttore, ripeteva a più non posso. Questa storiella riguardava un suo incontro con l’allora Giovan Battista Montini, probabilmente ai tempi del Concilio. Il Maestro diceva sempre che era in buoni rapporti con Montini, rapporti che si guastarono dopo il Concilio, quando l’opinione del Maestro su Paolo VI mutò. Lo incolpava della rovina che era venuta a causa delle riforme successive al Concilio, riforme che erano non in linea con quello che il Concilio aveva chiesto e voluto, specialmente per quello che riguardava la liturgia e la musica sacra.
Ma torniamo alla storiella. Montini, incontrando Domenico Bartolucci, lo aveva apostrofato in questo modo: “Maestro, perché non ci dà della bella musica pastorale?”. Quando lo raccontava, il Maestro non sapeva trattenere la sua indignazione da buon toscano e credo, oggi più di ieri, di saper comprendere la ragione. Egli forse sentiva una sottointesa opposizione fra la musica d’arte e la “musica pastorale”.

Come se il dover scrivere musica per il popolo, cioè che sia attenta alla pastorale per coloro che non sono musicisti professionisti, sia diverso dal dover scrivere Messe, mottetti, oratori, sinfonie e via dicendo. Ma questa è in realtà una contraddizione che non esiste nella realtà. Perché poi, se vogliamo dirla tutta, la “musica pastorale” non esiste, esiste quella musica d’arte, cioè fatta con crismi artistici che può essere scritta per il coro, per l’orchestra o per il popolo. Non ci sono compositori “pastorali” (o meglio, ci sono ma non ci dovrebbero essere).

Qui vediamo all’opera quella falsa opposizione fra la teoria (la dottrina) e la prassi (la pratica), fra il contenuto di pensiero e l’esperienza. Ma l’esperienza, senza il contenuto di pensiero, senza la sapienza e conoscenza, rimane vuota o, al meglio, momentanea e fugace.

Mi si potrebbe dire che spesso nel popolo, specie in passato, sgorgavano melodie popolari; ma spesso esse sono frutto non di estro musicale ma di moti spontanei dell’animo. Questo è vero, e quelle melodie hanno una dote veramente importante che manca a molta della cosiddetta “musica pastorale” prodotta negli ultimi decenni: la sincerità. Tu puoi veramente sentire in esse una pulizia, onestà e chiarezza che te le fa vedere quasi al momento del loro sgorgare dall’animo dei nostri contadini, delle nostre donne di casa, dall’animo candido dei fanciulli.

Quello che oggi spesso abbiamo non è questo, sono prodotti di derivazione industriale e/o commerciale, che sfruttano alcune strategie (ben note nel mondo pop) per sollecitare il facile emozionalismo, non l’emozione, il basso sentimentalismo, non il sentimento. La bellezza è la migliore pastorale. Ecco quello che aveva capito la Chiesa nel passato, che i grandi pittori, musicisti, scultori, architetti, erano a servizio delle corti papali e cardinalizie, ma chi ne poteva godere di quella bellezza gratuita sparsa fra le nostre belle Chiese era il popolo tutto, il popolo che poteva pregare davanti a quadri che oggi sono guardati gelosamente nei musei più importanti del mondo. La bellezza non è contro la pastorale, la bellezza è la pastorale.

Oggi spesso si intende la bellezza come un impedimento alla pastorale, Quindi, sganciando la bellezza dalla pastorale, si ottiene una cosiddetta “pastoralità” applicata all’arte, che purtroppo non va molto più in là di un semplice intrattenimento e spesso non di buona qualità. Ecco che allora, come mi faceva notare don Nicola Bux, è logico chiamare coloro che sono chiamati a fare musica nella liturgia e a guidare il canto del popolo “animatori”, come se si fosse in un villaggio turistico. Certo che di per se “animare”, significa dare anima a qualcosa, aggiungo io, ma tutti sappiamo che il significato comune che si dà a quel termine è proprio quello di colui che tiene occupati grandi e piccini nei villaggi turistici o nei circoli ricreativi il che, sia detto chiaramente, non è un male ma non è neanche quello che uno si aspetta nella liturgia.

Non dovremmo quindi dimenticare la lezione di San Pio X che nel suo famoso Motu proprio Tra le sollecitudini dava alcune indicazioni importanti che ci dovevano (e dovrebbero) aiutare a vedere le caratteristiche importanti che deve possedere la musica per essere ammessa nella liturgia: “La musica sacra deve per conseguenza possedere nel grado migliore le qualità che sono proprie della liturgia, e precisamente la santità e la bontà delle forme, onde sorge spontaneo l’altro suo carattere, che è l’universalità. Deve essere santa, e quindi escludere ogni profanità, non solo in se medesima, ma anche nel modo onde viene proposta per parte degli esecutori. Deve essere arte vera, non essendo possibile che altrimenti abbia sull’animo di chi l’ascolta quell’efficacia, che la Chiesa intende ottenere accogliendo nella sua liturgia l’arte dei suoni. Ma dovrà insieme essere universale in questo senso, che pur concedendosi ad ogni nazione di ammettere nelle composizioni chiesastiche quelle forme particolari che costituiscono in certo modo il carattere specifico della musica loro propria, queste però devono essere in tal maniera subordinate ai caratteri generali della musica sacra, che nessuno di altra nazione all’udirle debba provarne impressione non buona“.

Ecco, se si meditasse attentamente la profonda saggezza di queste affermazioni, ribadite poi nei decenni successivi da altri Pontefici, si riuscirebbe bene a capire che la pastorale non è se stessa senza la bellezza, bellezza che è la sua vera, sola e necessaria anima.