Non c’è pace per i cristiani di Siria e Iraq

Il Venerdì (supplemento di Repubblica)

1 Dicembre 2017

di Filippo Di Giacomo

Le notizie che giungono dalle zone liberate dal dominio dell’lsis non sono buone. Anzi, per i cristiani siriani ed iracheni, la situazione è peggiorata perché il conflitto tra tribù arabe e curde, tra sunniti e sciiti, li sta ponendo, insieme alla minoranza yazida, tra due fuochi. Ai tempi dell’lsis, erano stati i “fratelli islamici” sunniti a saccheggiare le loro case e i loro beni obbligandoli alla fuga, ora alle violenze arabe si sono aggiunte quelle dei curdi che, dopo il referendum prò indipendenza, hanno visto le truppe regolari irachene lanciare una violenta offensiva nei territori da tempo sotto il loro controllo.

I cristiani non sono una componente esterna all’Iraq, ma una popolazione indigena del Paese. La loro storia, la loro identità e le loro radici, affondano in un tempo remoto, sin da epoche pre-islamiche. E nonostante il declino nei numeri a causa delle violenze etniche e religiose, le minacce, i sequestri, le uccisioni, gli espropri dei terreni e i bombardamenti delle chiese e delle loro opere sociali, cercano di preservarsi il futuro con dignità e in piena uguaglianza con i concittadini iracheni.

Nei confronti dei quali, da sempre, hanno giocato quel ruolo di moderazione e di collegamento tra culture ed etnie che a lungo ha caratterizzato l’Iraq. Non per nulla anche nella storia recente del Paese, come da tradizione, personalità cristiane hanno ricoperto cariche di ministro della Cultura o della Sanità. Ma secondo gli ultimi sviluppi militari e politici sembra non ci sia più interesse a riconoscere loro questo ruolo culturale e si cerchi di obbligarli a schierarsi in favore dei sunniti oppure degli sciiti, degli arabi oppure dei curdi.

Durante l’occupazione dell’lsis, come per gli altri iracheni e i siriani fuggiti dagli scherani del califfato, la ricaduta sociale del conflitto veniva tamponata grazie agli aiuti dell’organizzazione internazionale e delle Ong. Ora il governo di Bagdad ha di fatto interrotto gli aiuti, chiudendo gli aeroporti del Kurdistan e applicando una ferrea stretta economica ai fondi destinati alla regione curda.

Inoltre il governo filo iraniano al potere in Iraq vede malvolentieri il rientro dei cristiani e non riconosce ai loro sforzi di ricostruzione la stessa importanza che garantisce ad altre situazioni considerate prioritarie se coinvolgono sciiti. Ben poco è quanto i cristiani stanno riuscendo a fare, incluse riparazioni di case e infrastrutture, e solo grazie alle modeste risorse messe in campo dalla Chiesa. Vale la pena chiedersi: oltre ad aiutare gli islamici a casa nostra, non sarebbe bene aiutare i cristiani a casa loro?