Dio non è tatuato

Il Foglio, 10 Agosto 2015

Camillo Langone

I tatuaggi sono come l’abbronzatura, donano alle brutte e tolgono alle belle. Odio l’estate perché favorendo l’esposizione dei corpi mi ricorda con fastidiosa frequenza che:

1) le donne belle sono spesso stupide;

2) le ragazze cattoliche sono spesso pagane;

3) il mio sguardo è spesso colpevole.

Punto primo: rovinare per sempre una pelle candida con un pensierino momentaneo, ipotecare il futuro a 17 anni (i tatuatori esercitano grande fascino sui minorenni), considerare ribellione o comunque manifestazione della propria personalità uno dei comportamenti più ovini del nostro tempo, è prova di scarsa perspicacia.

Punto secondo: Dio è offeso dai tatuaggi che nella Bibbia sono proibiti in lungo e in largo, dal Vecchio al Nuovo Testamento. Che sedicenti cattolici possano conciarsi come cannibali del Borneo dimostra il degradarsi del cristianesimo a religione privata e autoassolutoria. Solo riferendosi a un “Vangelo secondo me” è possibile immaginarsi vegetariani e cristiani, astemi e cristiani, animalisti e cristiani, tatuati e cristiani. […] La religione fai-da-te viene predicata dai pulpiti. Per brama di piacere, per sete di applausi o timore di fischi, si benedicono invasioni e ramadan mentre ci si guarda bene dal condannare le esplicite violazioni all’esplicita legge di Dio.

Di un simile collasso educativo sono corresponsabili le famiglie, conosco solo un caso di genitore che ha minacciato (con buon esito) di diseredare la figlia qualora si fosse imbrattata indelebilmente. Eppure è facile: ai figli tatuati si lascia soltanto la legittima mentre agli altri anche la disponibile.

Sul punto tre glisserei volentieri, la parola di Dio non ha bisogno dei miei ghirigori, solo che non sto scrivendo un’omelia bensì un articolo profano e allora mi tocca buttarla sul personale e confessare che il tatuaggio piccolo lo trovo schifosetto come una macchia di sugo sulla camicia, ma la camicia sporca poi te la cambi mentre la caviglia o il polso tatuati te li tieni sporchi per tutta la vita, zozzone che non sei altro; che il tribale sul fondoschiena mi sembra un invito all’accoppiamento more ferarum e perciò sfoggiarlo è un imbestiarsi e un imbestiare pure me che guardo e come faccio a non guardare; che i tatuaggi di grandi dimensioni, le inchiostrate mostrificanti che sequestrano buona parte dell’epidermide, mi fanno pensare all’imminente caduta della civiltà occidentale.

Il piercing è un’altra cosa. Non ho capito se è moralmente migliore o peggiore ma ho capito che in alcuni casi è esteticamente superiore: se una donna tatuata è una schiava, una donna perforata con gioielleria in titanio è una regina degli schiavi. L’amica che ne ha fatto il suo mestiere mi assicura che provoca meno dolore del tatuaggio e al contrario di questo è sempre rimovibile.

Tuttavia mi fa male il solo guardarlo, se vedo una donna molto pinzata (e durante l’odiosa estate se ne vedono di più perché gli ombelichi sono più scoperti e i capezzoli meno nascosti) innanzitutto provo raccapriccio. Sì, mi impressiono facilmente. Sì, non avrei potuto fare il chirurgo. Purtroppo le perforazioni corporee altrui, subito dopo aver fatto emergere la mia parte forse migliore, l’uomo sensibile alle sofferenze (Patirà molto? Quanta disperazione ci vuole per massacrarsi così?), risvegliano la mia parte certo peggiore, il sadico eccitato dall’oltraggio che ulteriore oltraggio richiama.

Avrei preferito che questo pervertito continuasse a dormire. […] Ma le mie preferenze non contano nulla, l’estate fa di me quello che vuole, non sono io a decidere i miei turbamenti.