Islam e Occidente divisi da ironia e autocritica

Occidente_IslamVita e Pensiero n.1 Gennaio- febbraio 2010

Le questioni della cittadinanza, della nazione e della libertà d’associazione, certo, sono elementi di demarcazione che separano la civiltà occidentale dalla Mezzaluna e dal fondamentalismo in particolare. Ma solo il dubbio vincerà il risentimento.

di Roger Scruton (*)

L’Occidente Oggi è coinvolto in una lotta contro le forze più radicali dell’islam. Un conflitto intenso sia per il fanatismo dei nemici della civiltà occidentale, sia per l’enorme cambiamento culturale avvenuto in Europa dalla fine della guerra del Vietnam. In parole semplici, i cittadini degli Stati occidentali hanno perso ogni interesse per guerre all’estero; hanno perso la speranza di ottenere una qualche vittoria temporanea; hanno perso la fiducia nel loro stile di vita.

Allo stesso tempo si trovano di fronte un nuovo elemento di contrapposizione, che crede che il modo di vivere occidentale sia profondamente errato e addirittura rappresenti un’offesa contro Dio. Le società occidentali hanno poi permesso a esso di stabilirsi al proprio interno; alcune volte, come in Francia, Inghilterra e Olanda, ciò è avvenuto in veri e propri ghetti che nutrono relazioni molto deboli e notevolmente antagoniste con l’ordine politico circostante.

E sia in America che in Europa c’è stato un crescente desiderio di appeasement: un’abitudine alla contrizione pubblica; un’accettazione, sebbene a malincuore, degli editti censori dei mullah; un’escalation nel ripudio della nostra eredità culturale e religiosa.

Il primo elemento di tale eredità è, secondo me, la cittadinanza. Le nazioni occidentali concordano sul fatto che la legge sia resa legittima dal consenso di quanti vi devono obbedire. Questo consenso viene ottenuto tramite un processo politico in cui ciascun cittadino partecipa a creare e decretare la legge. Il diritto e il dovere di partecipazione è quanto intendiamo con la parola «cittadinanza» e la distinzione tra le comunità politiche e quelle religiose può essere riassunta nel fatto che le prime sono composte da cittadini, mentre le seconde sono formate da soggetti che si devono «sottomettere» (questo è il significato primario della parola islam).

Se noi cerchiamo una definizione semplice di cosa sia oggi l’Occidente, potrebbe essere saggio prendere in considerazione questo concetto di cittadinanza come punto di partenza. Infatti è quello che cercano milioni di migranti che vagano nel mondo: un ordine che conferisca sicurezza e libertà in cambio di consenso.

La tradizionale visione islamica, per contro, vede la legge come un sistema di comandi e raccomandazioni che discendono da Dio. Questi editti non possono essere emendati, sebbene la loro applicazione in casi particolari possa coinvolgere argomenti giurisprudenziali. La legge, come l’islam la concepisce, è un comando per la nostra coscienza e il suo autore è Dio.

Questo è l’opposto del concetto di legge che abbiamo ereditato in Occidente. La legge per noi è garanzia delle nostre libertà. Essa non è creata da Dio, bensì dall’uomo, che segue l’istinto della giustizia inerente alla condizione umana. Essa non consiste in un sistema di ordini divini, bensì nel risultato di accordi umani.

Questo è particolarmente evidente ai cittadini inglesi e americani che hanno goduto dell’inestimabile beneficio della common law, un sistema che non è disceso dall’alto da qualche potere sovrano ma, al contrario, è stato costruito dai tribunali nel loro tentativo di amministrare la giustizia nei conflitti individuali.

Per questo motivo possiamo definire la legge occidentale un sistema “bottom-up”, che si rivolge al sovrano con lo stesso tono che riserva al cittadino. Essa insiste sul fatto che prevarrà la giustizia, non il potere. In realtà, è stato evidente fin dal Medioevo che la legge, anche se dipende dal sovrano che la impone, può deporre il sovrano se questi cerca di sfidarla.

Per noi, ad esempio, una legge che punisce l’adulterio non è solo assurda, ma anche oppressiva. Noi disapproviamo l’adulterio, ma pensiamo anche che non è affatto compito della legge punire il peccato solo perché esso è peccato. Nella sharia, invece, non esiste distinzione tra moralità e legge.

Entrambe derivano da Dio e vengono imposte dalle autorità religiose in obbedienza al suo volere divino. Una durezza che viene mitigata da una tradizione che permette alcune raccomandazioni nel regolamentare la legge santa. Nondimeno, non esiste alcuno spazio nella sharia per la privatizzazione degli aspetti morali della vita, ancor meno per quelli religiosi.

La maggior parte dei musulmani non vive sotto la sharia. Essa esiste solo qui e là, per esempio in Iran, Arabia Saudita e Afghanistan. Altrove è stato adottato il codice civile e penale occidentale, in seguito a una tradizione iniziata al principio del XIX secolo dagli ottomani. Ma questo riconoscimento accordato dagli Stati islamici alla civiltà occidentale ha i suoi pericoli.

Esso provoca inevitabilmente l’idea che la legge dei poteri laici non sia realmente una legge; che, in verità, essa non abbia una reale autorità e anzi possa contenere una sorta di blasfemia. Sayyid Qutb, l’ex leader dei Fratelli musulmani, argomentava appunto tutto questo nel suo fondamentale lavoro Milestones. Infatti, è facile giustificare la ribellione contro i poteri laici quando la loro legge viene vista come un’usurpazione dell’autorità sovrana di Dio.

Dalle sue origini, quindi, l’islam ha trovato difficile da accettare il fatto che il genere umano abbia bisogno di un’altra legge, o di un’altra sovranità, rispetto a quella rivelata nel Corano. Di qui il grande scisma seguito alla morte di Maometto, che ha diviso gli sciiti dai sunniti.

In breve, la cittadinanza e la legge laica procedono mano nella mano. Noi tutti partecipiamo al processo di creazione della legge: a partire da ciò possiamo vedere le altre persone come cittadini liberi, i cui diritti devono essere rispettati e le cui vite private sono di loro proprio interesse.

Questo è stato reso possibile dalla separazione fra religione e politica nelle società occidentali e dallo sviluppo degli ordini politici nei quali i doveri del cittadino hanno la precedenza sulle direttive religiose. Come questo sia possibile è una domanda profonda e difficile propria della teoria politica: che questo sia possibile è un fatto del quale la civiltà occidentale offre una testimonianza incontrovertibile.

Questo mi porta a una seconda caratteristica che identifico come centrale nella civiltà europea: la nazionalità. Nessun ordine politico può raggiungere stabilità se non può poggiare su una lealtà condivisa, una “prima persona plurale” che distingue chi condivide i benefici e i confini della cittadinanza da coloro che sono al di fuori di questo limite. In tempi di guerra il bisogno di questa lealtà condivisa è auto-evidente, ma essa è necessaria parimenti in tempi di pace se la gente veramente vuole considerare la propria cittadinanza come definizione dei propri obblighi pubblici.

La lealtà nazionale mette in secondo piano le lealtà alla famiglia, alla tribù e alla fede, e in primo piano il cittadino come focus del proprio sentimento patriottico; non una persona o un gruppo, ma un Paese. Questo Paese è definito da un territorio, e dall’insieme di storia, cultura e legge che hanno reso questo territorio il nostro. La nazionalità è costituita dalla terra insieme alla narrazione del suo possesso.

È questa forma di lealtà territoriale che ha reso capaci i popoli nelle democrazie occidentali di esistere fianco a fianco, rispettando i diritti degli altri come cittadini nonostante differenze radicali in termini di fede e senza che altri legami di famiglia, parentele, o costumi locali di lunga tradizione, sostenessero la solidarietà tra loro. Una tale lealtà nazionale non è conosciuta ovunque nel mondo e certamente non in quei Paesi dove gli islamisti sono radicati.

Alcuni si riferiscono alla Somalia, per esempio, come a uno “Stato fallito” dal momento che essa non ha un governo centrale capace di prendere decisioni a nome del popolo come un insieme, o di imporre qualsia-si tipo di ordine legale. Il problema reale della Somalia non è che essa sia uno Stato fallito, ma una nazione fallita. Essa non ha mai sviluppato quel tipo di lealtà laica, territoriale e pensata in termini di legge che rende possibile per un Paese modellarsi in uno Stato-nazione, e non semplicemente in un’assemblea di tribù e famiglie che competono tra loro.

Lo stesso è vero in molti altri luoghi dove sono attivi gli islamisti. Anche se, come nel caso del Pakistan, questi Paesi funzionano come Stati, essi hanno spesso fallito come nazioni. Non hanno avuto successo nel generare quel tipo di lealtà territoriale che rende persone di fedi, reti di parentela e tribù differenti capaci di vivere pacificamente fianco a fianco, e anche di combattere insieme in nome di una patria comune.

La storia recente di questi Paesi dovrebbe portarci a domandare se, alla fine, non vi sia un autentico e profondo conflitto tra la concezione islamica della comunità e i concetti che hanno nutrito la nostra idea di governo nazionale. Forse quella dello Stato-nazione è veramente un’idea anti-islamica.

Questa osservazione, certamente, è molto pertinente nel Medio Oriente odierno, dove troviamo i resti di un grande impero islamico diviso in Stati-nazioni. Con poche eccezioni, questa divisione è il risultato di confini tracciati dalle potenze occidentali, soprattutto da Inghilterra e Francia nel Patto di Sykes-Picot del 1916. Dovrebbe sorprendere molto, perciò, che l’Iraq abbia avuto una storia con così tanti alti e bassi in quanto Stato-nazione, dato che esso è stato spa-smodicamente solo uno Stato, e mai una nazione.

Potrebbe accadere che curdi, sunniti e sciiti in Iraq arriveranno, con il tempo, a vedere se stessi come iracheni. Ma questa identità nazionale sarà comunque fragile e in ogni conflitto questi tre gruppi si identificheranno in situazioni opposte rispetto agli altri. Solo i curdi sembra abbiano sviluppato un’autentica identità nazionale, ma essa è opposta allo Stato nel quale sono inclusi. Ciò vale anche per gli sciiti, per i quali la loro prima lealtà è religiosa: essi guardano e guarderanno alla patria dell’isiam sciita, l’Iran, come un modello.

È vero che non tutti gli Stati-nazione scaturiti dai resti dell’Impero ottomano sono arbitrari come l’Iraq. La Turchia, che si è salvata come un “resto” dell’Impero, ha avuto successo nel ricrearsi come autentico Stato-nazione, sebbene non senza l’espulsione o il massacro di molte minoranze non turche. Il Libano e l’Egitto hanno goduto di una sorta di identità quasi nazionale sotto la forma occidentale del governo nazionale su territori che vengono messi in discussione proprio per questa ragione.

Questi esempi, comunque, non riescono in nessun modo ad allontanare il sospetto che l’islam non accolga facilmente l’idea delle lealtà nazionali e meno ancora quella per cui, in una crisi o in un conflitto, debba prevalere l’istanza nazionale, piuttosto che quella spirituale.

Il terzo elemento fondamentale della civiltà europea è il cristianesimo. Non ho dubbi che sia la dominazione cristiana di diversi secoli in Europa ad aver gettato le basi della lealtà nazionale, sulla quale possono essere fondati una giurisdizione laica e un ordine di cittadinanza. Può suonare paradossale identificare una religione come la forza più grande dietro lo sviluppo di un governo secolare.

Ma dovremmo ricordare le peculiari circostanze con le quali il cristianesimo è entrato nel mondo. Gli ebrei della Giudea del I secolo erano una comunità chiusa, stretta in una forte rete di legalismo ma nondimeno governata da Roma tramite una legge che non faceva nessun riferimento ad alcun Dio e che offriva un ideale di cittadinanza al quale poteva aspirare ogni soggetto libero dell’Impero.

Gesù entrò in conflitto con il legalismo della tradizione ebraica in aperta simpatia con l’idea di un governo laico. Da qui derivano le sue famose parole nella parabola del tributo: «Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio». Dopo la sua morte la fede cristiana venne plasmata da Paolo per le comunità all’interno dell’Impero romano che cercavano solo la libertà di perseguire il proprio culto, e non avevano intenzione di sfidare i poteri laici.

Questa idea di una doppia lealtà continuò dopo Costantino e fu rafforzata da papa Gelasio I nel V secolo con la sua “dottrina delle due spade” date per il governo del genere umano: una che preserva l’ordinamento politico e l’altra l’anima individuale. Questo endorsement della legge laica da parte della prima Chiesa ebbe conseguenze sul pensiero politico in Europa, dalla Riforma e dall’Illuminismo fino alla semplice legge territoriale che prevale nell’Occidente attuale.

Il cristianesimo viene talvolta descritto come una sintesi della metafisica ebraica e dell’idea greca di libertà politica. Non c’è dubbio che vi sia una verità in questo, dato il contesto storico in cui è nato. E forse l’input greco nel cristianesimo è fondamentale per il quarto argomento che io credo sia davvero significativo quando confrontiamo l’Occidente con l’islam: l’ironia.

Già nella Bibbia ebraica vi è un concetto ben sviluppato di ironia, cosa che viene amplificata nel Talmud. Ma nei giudizi e nelle parabole di Gesù vi è un nuovo tipo di ironia, che assomiglia allo spettacolo dell’umana follia e mostra come possiamo convivervi. Un esempio eloquente è il verdetto di Gesù nel caso della donna sorpresa in flagrante adulterio. «Chi è senza peccato scagli la prima pietra».

Alcuni hanno sostenuto che questa storia sia un’aggiunta tardiva, una delle tante elaborate dai primi cristiani dall’eredità di saggezza attribuita a Gesù dopo la sua morte. Anche se questo fosse vero, comunque, ciò confermerebbe appunto il fatto che la religione cristiana ha reso l’ironia centrale nel suo messaggio. Ironia condivisa dai grandi poeti sufi, specialmente Rumi e Hafiz, ma che sembra sia largamente sconosciuta dalle scuole dell’islam che plasmano gli animi degli islamisti.

Si tratta di una religione che non sempre permette di essere criticata, ancor meno di essere derisa: qualcosa di cui siamo stati abbondantemente testimoni in tempi recenti (si pensi al caso delle vignette satiriche pubblicate su un quotidiano danese nel 2006).

Tutto ciò invece appare in maniera notevole nel giudizio ironico di Gesù. La morte per lapidazione è ancora ufficialmente praticata in molte parti del mondo islamico come punizione per l’adulterio. L’argomento del sesso, che non può essere utilmente discusso senza un pizzico di ironia, è diventato perciò un tema doloroso tra i musulmani, specialmente se confrontato, come è inevitabile, con la morale lassista e la libidinosa confusione delle società occidentali. Come risultato, nelle comunità islamiche situate nelle città occidentali si è sviluppata un’enorme tensione, con i ragazzi che godono delle libertà dell’ambiente circostante e le donne nascoste e spesso terrorizzate.

L’ironia è stata vista dall’ultimo Richard Rorty come uno stato del pensiero intimamente connesso con la visione del mondo postmoderna (Contingency, Irony, Solidarity, 1989). Si tratta di una sospensione del giudizio che nondimeno tende a un tipo di consenso, un accordo condiviso sul non giudicare. A me sembra, comunque, che l’ironia, sebbene coinvolga la condizione dei nostri pensieri, è compresa meglio come virtù.

Se dovessi dare una definizione di questa virtù, dovrei descriverla come l’abitudine di conoscere l’alterità di ogni cosa, incluso me stesso. Per quanto si sia convinti della correttezza delle proprie azioni e della verità delle proprie opinioni, occorre guardare a esse come azioni e pensieri di qualcun altro, e riformularli di conseguenza. Definita in questo modo, l’ironia è una cosa abbastanza distinta dal sarcasmo. È un modo per accettare, piuttosto che per rifiutare. E procede in entrambe le direzioni: attraverso l’ironia io imparo ad accettare sia l’altro verso il quale fisso la mia attenzione, sia me stesso, colui che sta osservando. Con buona pace di Rorty, l’ironia non è sciolta dal giudizio. Essa semplicemente riconosce che chi giudica è al tempo stesso giudicato, e giudicato da se stesso.

L’ironia è strettamente collegata con la quinta, notevole, caratteristica propria della civiltà occidentale: l’autocritica. Fa parte della nostra “natura” permettere a qualcuno di argomentare contro quanto di volta in volta affermiamo per illustrare le nostre tesi. Il metodo del contraddittorio nel deliberare è rafforzato dalla nostra legge, dalle nostre forme di educazione, e dai sistemi politici che abbiamo costruito per portare avanti i nostri interessi e risolvere i nostri conflitti.

Pensate a quei corifei critici della civiltà occidentale, quali l’ultimo Edward Said e Noam Chomsky. Said ha parlato in termini davvero velenosi in nome del mondo islamico contro quella che lui considera la persistente visione dell’imperialismo occidentale. Come conseguenza, è stato premiato con una prestigiosa cattedra in una delle università più importanti degli Usa e con molte opportunità di interventi pubblici in America e in tutto il mondo occidentale. Le conseguenze per Chomsky sono state in larga parte le stesse. L’abitudine di premiare i nostri critici, penso, è una cosa unica della civiltà occidentale.

Questo atteggiamento di autocritica ha determinato un’altra caratteristica cruciale per la civiltà occidentale: la rappresentanza. In Occidente – e tra le popolazioni di lingua inglese ciò avviene frequentemente – siamo eredi di una lunga tradizione di libera associazione, per cui ci riuniamo in club, gruppi di affari e di pressione, fondazioni educative. Questo genio associativo era stato segnalato con chiarezza da Tocqueville nei suoi viaggi in America ed è stato facilitato da una caratteristica sezione della common law inglese – l’equità e la legge dei trusts – che mette le persone in condizione di istituire fondi in comune e amministrarli senza chiedere il permesso ad autorità superiori.

Le caratteristiche alle quali mi sono riferito non spiegano solo l’unicità della civiltà occidentale; esse danno anche conto del suo successo nell’aver guidato gli enormi cambiamenti che sono avvenuti tramite il perfezionamento della tecnologia e della scienza, così come spiegano la stabilità politica e l’ethos democratico dei suoi Stati-nazione. Questi argomenti, inoltre, distinguono la civiltà occidentale dalle comunità islamiche nelle quali vengono “coltivati” i terroristi. E possono aiutare a spiegare il grande risentimento di quei terroristi che non riescono a far fronte alla competenza con cui i cittadini d’Europa e d’America sanno rapportarsi al mondo moderno.

Se le cose stanno così, come si dovrebbe difendere l’Occidente dal terrorismo islamista? Vorrei suggerire una breve risposta a questa domanda. Primo, dovrebbe essere chiaro quel che stiamo o non stiamo difendendo. Non stiamo difendendo, per esempio, il nostro benessere o il nostro territorio; non è questa la posta in gioco. Piuttosto, stiamo difendendo la nostra eredità politica e culturale, rappresentata nelle tematiche che ho fin qui presentato. Secondo, ci dovrebbe essere chiaro che non possiamo vincere il risentimento sentendoci sempre e solo colpevoli.

Detto questo, dobbiamo riconoscere che non è solo l’invidia ad animare i terroristi, ma appunto anche il risentimento. L’invidia consiste nel desiderio di possedere quel che l’altro ha; il risentimento è il desiderio di distruggerlo. Come comportarci con il risentimento? Questa è una questione a cui pochi leader del genere umano sono stati capaci di rispondere. I cristiani, comunque, sono fortunati nell’essere eredi di uno dei grandi tentativi di risposta sinora realizzati.

Gesù ci ha detto che si può superare il risentimento perdonando. Essere animati dallo spirito del perdono non significa accusare se stessi, bensì fare un dono all’altro. E qui, mi sembra, che abbiamo preso una strada sbagliata negli ultimi decenni. L’illusione che siamo noi che dobbiamo essere rimproverati e confessare le nostre colpe, tutto questo ci espone a un odio ancor più determinato. La verità è che noi non siamo da rimproverare; che l’odio dei nostri nemici è interamente ingiustificato; che la loro implacabile inimicizia non può essere disinnescata dal nostro batterci il petto.

Vi è comunque un azzardo nel realizzare tale verità. Sembra che noi siamo del tutto impotenti. Ma non è vero. Vi sono due risorse che possiamo chiamare in nostra difesa, una pubblica, e l’altra privata. Nella sfera pubblica, possiamo cercare di proteggere le buone cose che abbiamo ereditato. Questo significa non fare concessioni a chi vuole scambiare la cittadinanza con l’asservimento, la nazionalità con la conformità in nome della religione, la legge laica con la sharia, la tradizione ebraico-cristiana con l’islam, l’ironia con la solennità, l’autocritica con il dogmatismo o la rappresentanza con la sottomissione.

Dobbiamo rispondere alla loro violenza con quella forza che è richiesta per contenerla. I cristiani dovrebbero poi seguire il cammino tracciato per loro da Gesù: ovvero, guardare con sguardo fermo e in spirito di perdono ai colpi che ricevono e mostrare, con l’esempio, che quei colpi non raggiungono nessuno scopo se non quello di screditare coloro che li assestano. Questo è un duro compito da realizzare, difficile da portare a termine, da sostenere e da raccomandare agli altri. Nondimeno si tratta di un obiettivo che non possiamo fallire.

(Traduzione di Lorenzo Fazzini)

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(*) Roger Scruton, filosofo, insegna all’Istitute for the Psychological Sciences della Virginia. Tra i suoi libri: Guida filosofica per tipi intelligenti (1997), La filosofia moderna (1998) e Manifesto dei conservatori (2007). Presso l’editrice Vita e Pensiero ha pubblicato L’Occidente e gli altri. La globalizzazione e la minaccia terroristica (2004) e La cultura conta. Fede e sentimento in un mondo sotto assedio (2008)