Il business del clima

ciminiereInternazionale n.835
26 febbraio / 4 marzo 2010

Le industrie comprano crediti di carbonio per compensare le loro emissioni di gas serra. Ma chi le controlla? In realtà il sistema è una truffa ai danni del pianeta. L’inchiesta di Harper’s

Mark Shapiro, Harper’s, Stati Uniti

“No, non è una cosa astratta, lassù tra le nuvole. Si può vedere. Si può misurare”. Talita Beck mi sta parlando delle emissioni di carbonio. Fa la valutatrice delle emissioni, una professione che dieci anni fa non esisteva. Ogni mese va e viene dal suo ufficio di Sào Paulo, in Brasile. Viaggia in tutto il mondo in cerca dei gas serra, o meglio, degli impianti che assicurano di emetterne di meno: allevamenti di maiali, discariche urbane, zuccherifici. Le riduzioni di CO2 promesse da queste attività possono essere trasformate in denaro da società che hanno sede a migliaia di chilometri di distanza, in Gran Bretagna, in Germania, in Giappone o in qualsiasi altro paese che abbia ratificato il protocollo di Kyoto.

Oggi il mercato del carbonio sta crescendo a ritmi rapidissimi. In base al protocollo di Kyoto, i maggiori produttori di gas serra del pianeta non possono superare un certo tetto di emissioni, ma per rispettarlo possono comprare crediti. Dal 2005, quando il trattato è entrato in vigore, ci sono state compravendite di carbonio per più di 300 miliardi di dollari.

Le principali istituzioni finanziarie, come Goldman Sachs, Barclays e Citibank, hanno gli uffici per lo scambio dei crediti in carbonio a Londra: i trader che un tempo speculavano sul petrolio e sul gas, oggi scommettono sui più infidi effetti collaterali dell’economia basata sui combustibili fossili. Se nei prossimi dieci anni Barack Obama riuscirà a far adottare agli Stati Uniti il cap and trade, il sistema di scambio delle emissioni, la domanda di crediti sul carbonio potrebbe esplodere. Secondo Point Carbon, una società di analisi del settore, potrebbe nascere un mercato da due-tremila miliardi di dollari.

Le aziende europee comprano e scambiano già i loro crediti in base ai parametri stabiliti dall’Unione europea, che impone delle soglie alle industrie più inquinanti. Misurare le riduzioni è relativamente semplice, grazie alla lettura di contatori installati nelle centrali elettriche e negli impianti di produzione industriale.

In base al protocollo di Kyoto, però, le società possono anche comprare gli offset, le cosiddette compensazioni: crediti generati da progetti di riduzione delle emissioni nei paesi in via di sviluppo. Questi progetti, che attualmente generano circa un terzo di tutti i crediti in circolazione, non sono controllati dall’Unione europea ma dalle Nazioni Unite. II risultato sono più di 300 milioni di crediti, ciascuno dei quali corrisponde a una tonnellata di carbonio. Sono nate nuove professioni: le grandi multinazionali assumono “esperti del carbonio” che devono cercare progetti per la riduzio-ne delle emissioni in tutto il mondo, e con­tabili del carbonio, come Talita Beck della società svizzera Sgs, pagati per dichiarare che le riduzioni sono effettive.

Ho incontrato Beck nel maggio del 2009 negli uffici brasiliani della Sgs. Il gruppo, fondato in Francia più di un secolo fa per verificare il peso dei cereali che si commerciavano in Europa, oggi ha ben altre responsabilità che determinare il livello di umidità contenuto nel grano. La sua attività principale, in senso ampio, è l’ispezione dei prodotti: negli Stati Uniti, per esempio, i sensori della Sgs rivelano la presenza di organismi geneticamente modificati nel cibo o di sostanze chimiche nei giocattoli. Ma dopo Kyoto l’azienda si è specializzata nel settore del carbonio.

La Sgs ha più di cento “convalidatori ” in una decina di filiali in tutto il mondo. Beck è una di loro. Dopo essersi laureata in scienze ambientali in Gran Bretagna, nel 2008 è tornata in Brasile per raccogliere la più grande sfida globale del nostro tempo. “Siamo una specie di polizia ambientale”, mi ha spiegato. “Le Nazioni Unite sono la legge, noi la polizia”.

Le Nazioni Unite non si erano mai occupate di emettere titoli azionari. E le compensazioni sulle emissioni di carbonio, autorizzate attraverso il sistema del Clean development mechanism (Cdm, meccanismo di sviluppo pulito), sono diverse da qualsiasi titolo mai creato. I gas inquinanti, infatti, non sono emessi solo dalle fabbriche o dalle automobili, ma da un’infinità di fonti in ogni angolo del pianeta, dagli alberi caduti ai rifiuti organici. In teoria, ce n’è abbastanza per impegnarsi a ridurre le emissioni all’infinito.

A differenza delle materie prime tradizionali, che quando sono sul mercato a volte devono essere consegnate fisicamente a qualcuno, il mercato del carbonio si basa sulla mancata consegna di una sostanza invisibile. Per cercare di compensare questa evanescenza, le Nazioni Unite hanno identificato 26 aziende in tutto il mondo che hanno il compito di “convalidare” le promesse dei riduttori di emissioni e di verificare, a distanza di anni, che le abbiano mantenute. Nel gergo delle Nazioni Unite queste aziende si chiamano Designated operational entities (Doe, entità operative designate).

La Sgs è una delle due società più importanti nel settore della convalida dei titoli in carbonio. La seconda è Det Norske Veritas (Dnv), un’azienda norvegese specializzata in ispezioni nella marina mercantile. Ma ce ne sono molte altre: la società di revisione contabile Deloitte Touche Tohmatsu, la società di sicurezza nei trasporti Lloyd’s Register e la Tuv Sud, una società tedesca per i collaudi industriali. Proprio come le aziende di revisione certificano i bilanci delle società, le Doe dovrebbero certificare la credibilità dei riduttori di emissioni: controllare che abbiano rispettato il loro impegno a ridurre le emissioni.

Poco tempo prima che ci conoscessimo, Beck era stata a Duque de Caxias, sulla costa a nord di Rio de Janeiro, dove doveva sorgere un impianto di compostaggio. L’idea di base del progetto era raccogliere i rifiuti di frutta e verdura dai negozi di alimentari e dai mercati e trasformarli in fertilizzante organico da vendere alle fattorie. Usando il compostaggio aerobico e i microorganismi, l’impianto sarebbe riuscito a decomporre i rifiuti senza produrre metano, un gas molto dannoso per l’ambiente.

Gli ideatori del progetto – tra cui la EcoSecurities di Dublino, il più grande investitore in carbonio del pianeta – si sono rivolti alla Sgs per convalidarlo. Dopo aver visitato il sito, Beck e i suoi colleghi hanno dichiarato che il progetto avrebbe fruttato l’equivalente di 67mila tonnellate di carbonio non prodotte. Secondo la quotazione attuale del carbonio, che è di circa 22 dollari per una tonnellata, questo consentirà agli sviluppatori del progetto, dopo l’approvazione delle Nazioni Unite, di accumulare crediti per quasi 1,5 milioni di dollari.

Dalle dighe in India agli impianti di energia eolica in Marocco fino ai progetti di riassorbimento del metano in Brasile, le Doe certificano le riduzioni di emissioni in 58 paesi. Se si moltiplica il milione e mezzo di crediti di Duque de Caxias peri duemila progetti autorizzati dal Cdm in tutto il mondo, si capisce che la Sgs e le sue concorrenti hanno responsabilità enormi.

Secondo le Nazioni Unite le stesse forze del mercato che hanno fatto crescere l’industria mondiale e sono responsabili del riscaldamento globale devono essere impiegate per combattere il cambiamento climatico. Per attirare il capitale, hanno affidato ai convalidatori e ai verificatori il compito di misurare il carbonio. Il risultato è che questo gas è stato trasformato in una nuova materia prima, il cui valore risiede interamente nella promessa della sua mancanza.

L’approvazione di crediti sul carbonio ha molte fasi. Quando gli investitori individuano un progetto, incaricano una Doe di determinare la riduzione delle emissioni. La Doe valuta le potenzialità del progetto e presenta il suo rapporto al consiglio esecutivo delle Nazioni Unite, che lo sottopone a revisione prima di emettere un verdetto.

Una volta approvato, il progetto è considerato “convalidato” e i crediti potenziali vengono immessi sul mercato come una specie di contratti a termine: possono essere comprati e venduti, ma gli acquirenti che hanno bisogno di crediti per rientrare nei limiti stabiliti non possono riceverli subito. La consegna avviene a distanza di mesi o di anni, solo dopo che una Doe ha nuovamente verificato che le emissioni siano state effettivamente ridotte.

A quel punto i crediti prendono il nome di Certified emission reductions (Cer, riduzioni di emissione certificate) e possono finalmente essere usati da chi li acquista per rientrare nei limiti di emissione. Durante la convalida e la verifica, solo la Doe e gli investitori possono controllare il sito del progetto.

A volte dalla verifica può nascere la richiesta di una revisione della stima dei crediti o anche una bocciatura. Nel 2007, in seguito a una serie di revisioni, la EcoSecurities è stata costretta a ridurre il suo portafoglio totale di circa 40 milioni di crediti. Le sue azioni hanno subito un crollo. Dal 2005 a oggi, tuttavia, solo il 4 per cento delle richieste di verifica si è conclusa con una bocciatura.

Il tallone d’Achille

Questa procedura ha due obiettivi. Uno è far funzionare il mercato, garantendo un continuo rifornimento delle compensazioni di carbonio e una variazione dei prezzi. L’altro, naturalmente, è la ragion d’essere del sistema: ridurre le emissioni di gas che provocano l’effetto serra indirizzando gli investimenti verso tecnologie pulite. Per raggiungere entrambi gli obiettivi, le convalide rappresentano il passo cruciale, il momento in cui le promesse fatte nel mondo reale vengono trasformate in astrazioni trattabili sul mercato.

La convalida è il tallone d’Achille del sistema e questa vulnerabilità deriva in gran parte dal requisito chiave delle compensazioni: l’aggiuntività, cioè la prova che un progetto destinato alla riduzione delle emissioni non sarebbe realizzabile senza il capitale generato dalla vendita di crediti di carbonio. La procedura, insomma, implica un salto concettuale nel futuro, perciò le sue conclusioni sono necessariamente deboli.

Per affermare che è impossibile ridurre le emissioni in altro modo, i progettisti devono dimostrare che una tecnologia simile, ma meno inquinante, non è usata comunemente in un certo settore industriale e non è imposta dalla legge (se tutti la adottassero, perché mai una società dovrebbe ricevere degli incentivi per farlo?). Inoltre devono dimostrare che il progetto non avrebbe senso economicamente senza i finanziamenti del Cdm e che il consiglio d’amministrazione della società ne ha tenuto conto quando ha chiesto i fondi.

Tocca ai convalidatori accertare che siano soddisfatti tutti i requisiti, “in pratica gli viene chiesto di certificare delle circostanze puramente teoriche”, osserva Giare Breidenich, un’ex consulente ambientale del dipartimento di stato statunitense che poi ha diretto l’ufficio delle Nazioni Unite che si occupa di misurare le emissioni dei paesi industrializzati.

Lambert Schneider, ingegnere ambientale e membro di una commissione delle Nazioni Unite sulle metodologie, ha esaminato più di cento di progetti di compensazioni per cercare di capire come veniva giustificata la richiesta di finanziamenti al Cdm. È emerso che in realtà solo il 60 per cento dei progetti era in grado di dimostrare che i fondi del Cdm avrebbero fatto la differenza. Quanto al restante 40 per cento, probabilmente avrebbe prodotto meno emissioni anche senza fondi. “Un progettista deve spiegare perché il suo progetto è ‘aggiuntivo’. Ma è la Doe a verificare. Si fa affidamento sul suo giudizio, che spesso è molto selettivo”, spiega Schneider.

In definitiva, sovrastimare le riduzioni è la chiave per sfruttare il sistema delle compensazioni. Molti studi hanno già dimostrato che dai Cdm non è uscita la quantità di riduzioni promessa. Secondo un rapporto dell’ Intergovernmental panel on climate change (Ipcc, gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico), il margine di errore nella misurazione delle emissioni dei cementifici e dei produttori di fertilizzanti può arrivare al 10 per cento. Per le industrie del petrolio, del gas e del carbone il margine di errore arriva al 60 per cento e per alcune lavorazioni agricole al 100 per cento.

Carbone ecologico

Ho visitato uno di questi progetti dopo aver guidato verso nord su una superstrada a due corsie che attraversa lo stato brasiliano di Minas Gerais. A ovest, le vette della Serra Da Canastra erano sfigurate dalle miniere di ferro e oro. Nella savana che costeggia l’autostrada, dove un tempo sorgevano le foreste, pascolava il bestiame. Ho incrociato camion carichi di legname che viaggiavano in direzione opposta alla mia. Minas Gerais significa “miniere generali”: l’idea di scavare la terra in cerca di tesori fa parte dell’identità dello stato.

Dopo aver lasciato l’autostrada ho imboccato una lunga strada bianca costeggiata da alberi: a sinistra c’erano i resti della foresta originaria fitta e selvaggia, a destra file e file di eucalipti, pallidi tronchi che si perdevano in lontananza. Poi, sono apparse montagne di carbone nero accumulate al centro di un’ampia pianura polverosa. A lato c’erano delle specie di igloo color ruggine, le fornaci.

“Ecco le nostre miniere!”, ha esclamato Rodrigo Coelho Ferreira, il mio compagno di viaggio e guida, indicando i mucchi di carbone. Ferreira fa l’analista di progetti sul carbonio per Plantar, una delle più importanti società brasiliane per lo sfruttamento delle foreste. Quando parla di miniere non si riferisce agli alberi, o a quel che ne resta, ma al carbonio che contengono, e che la società vuole vendere sotto forma di crediti sulle emissioni.

Ferreira mi ha spiegato che le fornaci di Plantar impiegano una nuova tecnica per mantenere il calore sotto i 400 gradi. In questo modo le emissioni di metano dai tronchi di eucalipto che si carbonizzano diminuiscono drasticamente. Il carbone vegetale ottenuto viene poi usato da una fonderia della zona specializzata nella produzione di ghisa, dove la lega viene fusa in lingotti da 12 chili destinati all’industria automobilistica e degli elettrodomestici.

Ogni passaggio di questo complicato progetto era già stato controllato e approvato da una Doe e apparentemente sembrava accettabile. La Sgs ha certificato che per ogni tonnellata di ghisa prodotta usando il carbone vegetale anziché quello minerale si riducono di due tonnellate le emissioni di carbonio. La Dnvha attestato che il nuovo sistema di aerazione delle fornaci riduce le emissioni di metano.

E la Tuv Sud ha confermato che gli alberi di eucalipto assorbono più carbonio dei pascoli che c’erano al loro posto. Ottanta fornaci, 23mila ettari di eucalipti e una fonderia di ghisa a carbone vegetale: da questa combinazione la Plantar spera di guadagnare 12,8 milioni di crediti di carbonio nei prossimi 28 anni, che è la durata prevista del progetto. Ha già “versato” 1,5 milioni di crediti alla Banca Mondiale in cambio del finanziamento iniziale del progetto. Perciò la società avrà più di undici milioni di crediti di carbonio da vendere.

Ma guardandomi intorno mi sono reso conto che i dubbi sul sistema del Cdm sono fondati. Quando le tre Deo avevano ispezionato il sito, il processo di produzione funzionava a pieno ritmo: si bruciavano gli alberi e il carbone vegetale alimentava la fonderia di ghisa. Ma quando l’ho visitato l’impianto era fermo. Pile di tronchi alti tre metri giacevano abbandonate accanto ai filari di eucalipti. Il carbone era ammassato intorno alle fornaci che non sono più state accese e l’impianto di produzione della ghisa era fermo da almeno un mese.

Ferreira ha spiegato che la crisi finanziaria globale ha prosciugato il mercato degli sportelli delle auto e dei frigoriferi, almeno quelle fatte con la ghisa di Plantar. L’impianto era fermo, in attesa della ripresa economica, ma alcuni dei crediti a scadenza erano già in vendita.

“La nostra strategia è vendere questi crediti alle industrie che ne hanno bisogno”, mi ha spiegato Fabio Marques, responsabile dei progetti sul carbonio della Plantar, quando l’ho incontrato nel quartier generale della società a Belo Horizonte. La Plantar “ha avviato dei negoziati con industrie europee e banche” interessate a comprarli, ha aggiunto. Ma non vuole fare i nomi. Ha detto solo che la Plantar potrebbe guadagnare di più di cento milioni di dollari.

L’impotenza delle Nazioni Unite

In questo nuovo settore altamente specializzato, sono poche le persone che capiscono veramente come funziona la verifica dei progetti e si rendono conto che c’è un serio rischio di conflitti d’interesse. Spesso i convalidatori e i verificatori passano al settore della progettazione, ben più remunerativo: preparano progetti che poi fanno revisionare ai loro ex colleghi. I giovani che entrano in questo settore spesso si sono fatti le ossa per qualche anno in una Doe. “Poi vanno a lavorare per una società che elabora progetti sul carbonio, dove ricevono uno stipendio tre volte superiore e fanno un lavoro più interessante”, spiega Schneider.

Queste società di progettazione, che diventano gli interlocutori di aziende locali e di governi impegnati in progetti di compensazione, sono per lo più finanziate o controllate direttamente da grandi multinazionali. La società finanziaria JP Morgan Chase possiede la più grande società di progettazione del mondo, la EcoSecurities.

La Goldman Sachs ha fatto un grande investimento nella più importante società di progettazione statunitense, Blue Source. Un’altra importante società del settore è la Cantor Fitzgerald, proprietaria di Cantor CO2. Altri grandi investitori sono la società di prodotti e servizi agroalimentari Cargill, una delle più attive nell’elaborazione di progetti, e la Bhp Billiton, la più grande società mineraria del mondo.

A volte i pro-prietari delle società di progettazione speculano nei mercati secondari dei crediti aprendo delle agenzie a Londra per il commercio dei titoli in carbonio, come hanno fatto la Goldman Sachs e la JP Morgan. Le Doe, che dovrebbero essere organismi di revisione indipendenti e imparziali, vengono pagate da queste società di progettazione e devono lottare per prevalere in un ambiente molto competitivo. Fabio Marques mi ha detto che la Plantar riceve regolarmente “varie offerte” di diverso prezzo dai convalidatori.

Recentemente il consiglio esecutivo delle Nazioni Unite ha cercato di migliorare i controlli. Il Cdm, che nel 2005 aveva una ventina di impiegati, oggi da lavoro a quasi cento persone, la maggior parte delle quali si occupa delle revisioni tecniche e delle perizie. Le proposte delle Doe sono esaminate con una procedura più severa: più del 65 per cento viene respinto per carenza di documentazione, mentre nel 2005 la percentuale era del 10 per cento. Inoltre le Nazioni Unite sono diventate più severe con i convalidatori: nel giro di nove mesi, tra il 2008 e il 2009, hanno sospeso temporaneamente sia la Dnv sia la Sgs per irregolarità nelle perizie.

Nel complesso, la Sgs e la Dnv hanno certificato circa due terzi delle riduzioni di emissioni oggi usate dalle industrie nel mondo in via di sviluppo. Con la decisione di sospendere le due società, le Nazioni Unite hanno voluto lanciare un segnale forte, ma hanno anche denunciato la loro incapacità di controllare proprio le aziende a cui hanno delegato una parte delle loro funzioni. Gli unici elementi a disposizione delle Nazioni Unite per valutare le Doe sono le prove prodotte e presentate dalle stesse Doe: i rapporti di convalida e i dati raccolti sul campo.

Quando le Nazioni Unite fanno dei controlli a campione, come è successo con la Dnv e la Sgs, li fanno negli uffici dei convalidatori, non sul campo. E i progetti sono sempre più complessi e ambiziosi. Gli ideatori di progetti rastrellano migliaia di riduzioni dichiarate negli angoli più remoti del pianeta: anche volendo, un controllo sul campo sarebbe impossibile.

Ma la sospensione di Sgs e Dnv apre una questione ancora più delicata: la rimozione retroattiva delle quote. Ogni tonnellata di compensazioni verificate da una Doe può essere usata per compensare le emissioni in eccesso di società in Europa, Giappone, Australia e Nuova Zelanda. Il consiglio esecutivo non ha alcun potere di disporre la rimozione dei crediti dal mercato, neanche se un convalidatore o un verificatore dovessero commettere degli abusi. La mancanza della rimozione retroattiva tocca un nervo scoperto del cap and trade, un meccanismo che si basa sulla correlazione diretta tra i dollari spesi e le riduzioni ottenute

Sette per tre uguale zero

II problema dei crediti deteriorati era già stato posto dai negoziatori del protocollo di Kyoto. Secondo Giare Breidenich, che partecipò ai negoziati, l’argomento era molto dibattuto fin dal 1997, prima che il trattato fosse firmato e prima che nascessero i mercati globali del carbonio. Gli interrogativi erano gli stessi: chi è responsabile se salta fuori che i crediti sono fittizi? Si possono revocare i crediti che si basano su premesse errate o su verifiche inadeguate?

Il dibattito dimostrava che trasformare il carbonio in materia prima non era un’impresa facile. Tanto più che contemporaneamente bisognava svolgere altri compiti: multare gli inquinatori, attirare nuovi investitori sul mercato, indirizzare il denaro verso le tecnologie basate sulle energie rinnovabili.

“Se i crediti fossero revocabili”, dice Breidenich, “le industrie che devono rispettare determinati limiti potrebbero scoprire all’improvviso che i crediti su cui contavano non esistono più. Un rischio del genere metterebbe in discussione l’intero mercato dei crediti”.

A Kyoto il dibattito fu risolto decidendo di non decidere. Qualcuno propose di attribuire alle società la responsabilità del grado di incertezza del mercato (più o meno paragonabile ai livelli di rischio che le società quotate in borsa sono obbligate a riferire ai potenziali investitori), ma l’idea fu abbandonata pur di attirare più rapidamente i capitali su quel mercato.

Èva Halvorsen, responsabile della comunicazione negli uffici di Oslo della Dnv, mi ha assicurato che se ci fossero stati dei problemi con le convalide effettuate dalla sua società, sarebbero emersi durante il procedimento di verifica, che per i progetti più importanti è svolto da un’altra società. Ma anche nel raro caso in cui i Cer non fossero mai stati emessi, i crediti convalidati derivanti da quei progetti sarebbero stati comunque trattati sul mercato.

“Stiamo prendendo in giro il clima”, ammette Sanjeev Rumar, un funzionario dell’ufficio europeo del Wwf a Bruxelles. “È un problema se una società che produce energia usa crediti dubbi per rientrare negli obiettivi di riduzione delle emissioni. Quei crediti sono validi per sette anni. Poi possono essere rinnovati per altri sette. E poi ancora sette. Così saranno passati ventuno anni senza che nessuno abbia fatto niente di serio per ridurre le emissioni, sia nei paesi industrializzati sia nei paesi in via di sviluppo”.

Una decisione politica

Se le Nazioni Unite hanno deciso di assumere un atteggiamento più intransigente nei confronti dei verificatori, il merito è in buona parte di José Domingo Miguez. Miguez è membro del consiglio esecutivo del Cdm e, in quanto dirigente del ministero della scienza e della tecnologia in Brasile, è uno dei principali negoziatori delle politiche sul cambiamento climatico.

Durante i negoziati di Kyoto ha contribuito a creare il sistema del Cdm in collaborazione con gli Stati Uniti. Miguez è un grande sostenitore del cap and trade basato sulle compensazioni. È convinto che questo sistema abbia trasferito tecnologie e competenze dai paesi industrializzati a quelli in via di sviluppo, facendo confluire il denaro in regioni del mondo che altrimenti sarebbero state dimenticate dalle multinazionali.

Ma a Miguez interessa difendere la credibilità del sistema. Nel 2006, quando è diventato presidente del consiglio esecutivo, ha ordinato un controllo a campione alla Dnv. Fino a quel momento i convalidatori davano per scontato che le Nazioni Unite avrebbero accettato per buone le loro relazioni, anche perché gli impiegati addetti a esaminarle erano pochi. Miguez ha chiesto un aumento del personale e l’ha ottenuto.

Riconosce che il difetto principale del sistema è che dipende dalle società private per convalidare le riduzioni. “Prova a pensare ai revisori dei conti della Microsoft”, mi ha detto. “Se la revisione è stata fatta male, gli azionisti si lamenteranno. Ma nel Cdm non c’è neanche una cifra a cui l’azionista potrebbe appigliarsi per dire che la revisione è stata fatta male. Non c’è nessun soggetto esterno, indipendente, chepossa chiamare in causa i responsabili dei conti presentati”.

In effetti il problema di trasformare il carbonio in una materia prima nasce nel momento stesso in cui si concepisce l’idea. Un credito di una tonnellata di carbonio non si può riprodurre con la stessa precisione di un grammo d’oro o di venti tonnellate di pancetta. Ogni credito nasce in una situazione particolare e diversa da tutte le altre, che si tratti di piantare eucalipti, assorbire metano o sostituire una centrale a carbone.

Ogni credito rappresenta una promessa di durata e di efficacia variabile, per non parlare dell’affidabilità. In definitiva ogni credito comporta un obiettivo che può non essere raggiunto né misurato con certezza. Sulla carta, il cap and trade è elegante e seducente. Nella pratica, però, per farlo funzionare rischiamo di dover mettere in piedi un sistema talmente complicato e costoso da farci rimpiangere la tanto vituperata tassa sul cabonio.

Ho rivisto José D. Miguez nel dicembre del 2009, un venerdì sera a Copenaghen, mentre vagavo in una sala dell’enorme complesso di capannoni climatizzati dove si svolgevano i negoziati sul cambiamento climatico. Gli ho chiesto cosa pensava delle proposte che circolavano alle Nazioni Unite per riformare il Cdm. “Ognuno ha i suoi interessi”, mi ha risposto diplomaticamente, mentre allungava il passo verso la prossima riunione.

La domenica, i negoziatori si sono presi una giornata libera e io sono andato a visitare la fiera dell’economia verde che si stava svolgendo nel centro di Copenaghen. C’erano produttori di energia eolica, fabbricanti di automobili elettriche e di plastica a base di etanolo.

Anche il dipartimento del commercio degli Stati Uniti aveva uno stand in cui promuoveva le industrie verdi americane. Lo stand finanziato dal governo di Abu Dhabi, invece, pubblicizzava “la prima città del mondo a emissioni zero”, che l’emirato sperava di costruire con i fondi del Cdm in qualche deserto lontano. Mentre visitavo la fiera ho incontrato Mark Trexler, il responsabile delle strategie climatiche e dei mercati della Dnv. Trexler lavora negli Stati Uniti ormai da vent’anni, ultimamente come dirigente della EcoSecurities.

Ci siamo seduti a bere un caffè e gli ho esposto le mie perplessità sul sistema di convalida. Secondo lui il problema non sono i convalidatori, ma gli “interessi” che hanno definito le priorità del sistema e hanno fatto prevalere la quantità sulla qualità. Mi ha proposto un’analogia con i test di gravidanza che si possono fare a casa. Questi test danno risultati positivi o negativi, ma ci sarà sempre una percentuale di risultati sbagliati, sia positivi sia negativi.

Se si corregge il test in modo da ridurre i falsi positivi, “si aumenterà il numero dei falsi negativi e viceversa”. Un’equazione simile, secondo lui, si può applicare quando si vogliono misurare le compensazioni. “Se le Nazioni Unite ammettono solo progetti con un’aggiuntività incontestabile, ci sarà un’enorme crescita della quota dei falsi negativi. Alcuni progetti perfettamente legittimi non potranno beneficiare del sistema”.

Tuttavia, ha proseguito, la realtà è che tutti hanno interesse a far convalidare il maggior numero possibile di progetti: le aziende che inquinano, gli ideatori di progetti per la riduzione delle emissioni di carbonio, gli imprenditori nel mondo in via di sviluppo e i governi. “Il compromesso tra i falsi negativi e i falsi positivi è frutto di una decisione politica, non di un esame tecnico”, ha concluso.

Intanto il carbonio è diventato una materia prima solo grazie alle decisioni dei politici e dei burocrati, che determinano sia la domanda, fissando dei limiti alle emissioni, sia l’offerta, quando stabiliscono i criteri delle compensazioni. Questo mercato è, in sostanza, un sofisticato gioco delle tre carte, un trucco che serve gli interessi immediati dei governi ma non affronta le sfide della crisi ambientale.