La legge morale naturale

TEOLOGIA rivista della facoltà teologica dell’Italia settentrionale n3-2005

Per rimediare allo sfinimento della categoria

di Giuseppe Angelini

La categoria della legge naturale appare alquanto logora e nella ricerca teologica recente trascurata; raramente essa diviene oggetto di un interesse consistente, e certo non nei luoghi più caldi del confronto tra teologia e cultura contemporanea.E tuttavia essa ha nella tradizione teologica rilievo assolutamente centrale, che trova riscontro preciso nel magistero pontificio in materia morale fin negli anni recenti.

Tale stato di cose è stato espressamente riconosciuto dal cardinal J. Ratzinger, in occasione del suo confronto con J. Habermas alla Katholische Akademie di Bayern nel gennaio 2004: «Il diritto naturale è rimasto, soprattutto nella Chiesa cattolica, la figura argomentativa con cui essa richiama alla ragione comune nel dialogo con le società laiche e con le altre comunità di fede e con cui cerca i fondamenti dì una comprensione attraverso i principi etici del diritto in una società laica e pluralista.

Ma questo strumento è purtroppo diventalo inefficace, e non vorrei basarmi su di esso in questo intervento» (il testo è pubblicato in J. habermas – J. Ratzinger, Ragione e fede in dialogo, a cura di G. Borsetti, Marsilio, Venezia 2005). Come rimediare a questa inefficacia?

Lo stato di abbandono, nel quale si trova la riflessione sulla legge naturale, appare tanto più deprecabile, in quanto le trasformazioni recenti negli stili di vita nei paesi occidentali, e soprattutto le forme nelle quali si produce il confronto pubblico a margine delle innovazioni legislative comunque necessarie, propongono problemi che suggerirebbero con urgenza la ripresa del tema.

Ci riferiamo ad esempio alla questione dell’identità sessuale; alla troppo semplicistica polarità tra maschio e femmina viene oggi da molte parti proposto di sostituire la meno rigida nozione di identità di genere, la quale sconterebbe la necessaria declinazione culturale del carattere sessuale, per sua natura contingente e sempre rivedibile; del tema si è occupata recentemente (31 luglio 2004) una «Lettera ai vescovi della chiesa cattolica sulla collaborazione dell’uomo e della donna nella chiesa e nel mondo» della Congregazione per la Dottrina della Fede a firma dello stesso Card. J. Ratzinger.

Sempre più insistente si fa la richiesta di un riconoscimento giuridico per le coppie omosessuali, che di fatto opererebbe nel senso di ulteriormente estenuare l’univocità dell’istituto giuridico del matrimonio; a tale richiesta radicale si giunge dopo che, da trenta anni a questa parte, il diritto familiare ha conosciuto nei paesi occidentali sviluppi che ne rendono sempre meno chiara la figura di diritto precisamente familiare; l’affermazione della Costituzione italiana (art. 29) che riconosce «la famiglia come società naturale fondata su! matrimonio» appare sempre meno suffragata dalle forme effettive del diritto positivo; il diritto familiare tutela i diritti individuali, o forse solo l’arbitrio soggettivo, per riferimento a relazioni come quelle familiari, le quali appaiono per loro natura particolarmente invadenti nei confronti dell’autonomia personale.

I nuovi fronti della tecnologia biomedica rendono sempre meno univoche nozioni un tempo ovvie e naturali, come quelle di salute e malattia; il ricorso alla generazione medicalmente assistita, in particolare, rende sempre più difficile distinguere tra generazione di un figlio e fabbricazione di un bambino. E così via.

Su questo sfondo, appaiono comprensibili le ragioni dell’invito che nel febbraio 2004 l’allora Prefetto della Congregazione della Dottrina della Fede, il Card. Joseph Raizinger, ha rivolto alle Università cattoliche e alle Facoltà teologiche, perché promuovano iniziative di ricerca volte a riprendere e approfondire la riflessione sulla legge morale naturale.

La categoria non può certo essere abbandonata; e tuttavia ha obiettivo bisogno di ripensamenti teorici abbastanza profondi e impegnativi. Il nodo teorico radicale che deve essere sciolto, a nostro giudizio, è quella pregiudiziale separazione tra natura e cultura, che ancora in molti modi caratterizza il pensiero corrente, e la stessa dottrina teologica circa la legge naturale. In forza di tale separazione. È postulata la possibilità di determinare i contenuti della legge naturale a monte rispetto ad ogni considerazione della cultura, e dunque delle tradizioni stanche che stanno alla base delle diverse culture. Alla conoscenza della legge naturale presiederebbe la facoltà della ragione, la quale giudica da nessuno luogo e da nessun tempo.

L’idea che si dia una conoscenza della ragione suscita difficoltà, non solo per riferimento al preciso tema della legge naturale, ma per riferimento ad ogni altro ambito del sapere umano; anzitutto per riferimento alla conoscenza di Dio, e dunque alla determinazione della naturale forma religiosa dell’esperienza umana.

Il sapere umano ha come proprio soggetto sempre l’uomo nella sua identità sintetica, e non invece una qualsiasi sua facoltà; il riferimento della conoscenza al soggetto comporta, più precisamente, un nesso stretto tra scienza e coscienza, tra sapere dunque e forme nelle quali si realizza la presenza del soggetto a sé stesso. La coscienza, d’altra parte, ha sempre figura singolare mediata da una concreta vicenda biografica; proprio tale vicenda rimanda per sua natura il soggetto al di là di sé, ad altri e all’originaria alleanza che dall’origine lega il singolo a tutti.

Rimanda, più precisamente, ad un’origine da sempre posta e a un compimento da sempre perseguito; appunto per rapporto a tale origine e a tate compimento deve essere intesa la legge naturale, che tutti gli umani accomuna. Le forme nelle quali il rimando è istituito sono in prima battuta quelle disposte dalla parola, e quindi dalla lingua e dal costume, più in generale dalla cultura tutta.

La legge naturale non può essere concepita come norma nota alla coscienza a monte rispetto alle evidenze dischiuse dalla pratica effettiva della vita comune; e quindi neppure può essere intesa come norma nota a monte rispetto alle evidenze dischiuse dalla cultura e dal costume, o addirittura come alternativa rispetto a tali evidenze; deve essere invece intesa come la verità per così dire, “archeologica”, alla quale la cultura obiettivamente rimanda, e per altro lato come la verità “escatologica” che la pratica effettiva della vita comune persegue. Alla determinazione di tale verità non si perviene mai una volta per tutte; essa esige invece il sempre rinnovato confronto tra le persone e rispettivamente tra le diverse culture.

Soltanto sullo sfondo di una tale prospettiva ci pare diventi possibile rendere ragione delle singolari pretese che la fede cristiana eleva per rapporto alla conoscenza della legge naturale; la fede riconosce nel vangelo di Gesù Cristo il compimento del tempo, e dunque la verità di ciò che era disposto fin dal principio (cfr. Mt 19,4) e troverà realizzazione piena nell’eschaton.

Nella congiuntura storica recente, il rimando alla legge naturale è raccomandato soprattutto dallo svilimento della natura ad opera della tecnica, la quale opera nel senso di ridurre la natura a mero repertorio di materiali al servizio di progetti umani, la cui qualità morale appare non verificata né verificabile. È raccomandato per altro aspetto dai processi di mondializzazione; in qualche cosa come una legge naturale pare necessario cercare rimedio alla dispersione delle culture, e alla loro indiscriminata contaminazione nel melting pot mediatico.

La nuova contiguità di tradizioni culturali distanti mostra, tra l’altro, come quel che un tempo poteva apparire ovvio e scontato, al punto da essere qualificato addirittura come evidenza di ragione, non sia affatto tale; in particolare, le difficoltà opposte all’affermazione dei diritti fondamentali dell’uomo da tradizioni civili altre costringono a prendere atto di quanto profondamente la cultura occidentale sia segnata dalla tradizione cristiana.

Non a caso, oggi accade sempre più spesso che apologeti della tradizione cristiana diventino anche intellettuali, i quali pure si professano “laici”, e celebrano con enfasi la necessità di portare a compimento il processo dell’illuminismo (J. Habermas). Il riconoscimento accordato in tal senso alla tradizione cristiana, e più genericamente alle tradizioni religiose, non assume certo la forma di una professione di fede; è invece resa all’evidenza che la ragione per se stessa non può provvedere in alcun modo alle necessità della coscienza umana.

Più precisamente, la coscienza umana ha necessità di evidenze etiche, e più radicalmente di evidenze di senso, che rendano possibile l’agire responsabile, e dunque la capacità di promettere; solo così diventa possibile la stessa vita comune, che è il solo tema del quale tali pensatori in prima battuta si occupano.

La ragione avrebbe soltanto un compito secondo e di controllo; per la prima istituzione dei significati radicali del vivere, che soli possono presiedere all’aggregazione sociale, e più radicalmente soli possono autorizzare la volontà del singolo, siamo rimandati alle tradizioni di senso che sostanziano la cultura di un popolo; in primo luogo, alle tradizioni religiose.

L’omaggio in tal modo reso alle tradizioni religiose appare tuttavia forfettario e a scatola chiusa; sancisce in tal senso un’esteriorità reciproca tra ragione e fede, che condanna la ragione al formalismo procedurale e chiude le tradizioni religiose nella loro arcana e inesplicata positività. La ragione propone poi certo ai credenti l’imperativo categorico di mediare le loro convinzioni nella lingua comune della società democratica; «una cultura politica liberale può persino richiedere ai cittadini secolarizzali di partecipare allo sforzo di traduzione di materiali significativi dalla lingua religiosa ad una lingua accessibile a tutti» (in tal senso J. Habermas si esprimeva già nella famosa conferenza Fede e sapere, tenuta nel 2001 per celebrare il primo anniversario delle Twin Towers, tradotto in «MicroMega» 5/2001).

Un tale imperativo, proposto senza alcuna consistente attenzione ai contenuti determinati delle tradizioni religiose, condanna per altro le stesse a una prevedibile estenuazione formalistica. Illustra bene questa condanna l’esempio che Habermas stesso propone, per illustrare la possibilità e il vantaggio di tale mediazione razionale delle verità cristiane; egli si riferisce in prima battuta alla storia antica: «La reciproca compenetrazione di Cristianesimo e metafisica greca ha prodotto non solo la forma intellettuale della dogmatica teologica e una – non del tutto benefica – ellenizzazione del cristianesimo.

Ha anche incoraggiato l’assorbimento, per tramite della filosofia, di contenuti genuinamente cristiani». In tal modo è intenzionalmente registrala una conferma storica del principio generale: il cristianesimo apprende i suoi genuini contenuti (anche) grazie alla filosofia; il principio è illustrato ricorrendo ad un esempio maggiore: «La traduzione dell’idea dell’uomo fatto a immagine e somiglianza di Dio nell’uguale valore e dignità di tutti gli esseri umani è un esempio dì traduzione che salva il contenuto originario.

Essa rende accessibile il contenuto dei concetti biblici, oltre i confini di una comunità di fede, a tutti coloro che non credono o professano altre fedi». La trascrizione del tema cristiano dell’uomo immagine di Dio è in tal modo ridotto all’equivalenza rispetto ai luoghi comuni della società democratica.

Il concorso più incisivo alla dissoluzione di evidenze etiche, che un tempo apparivano naturali, viene però del vertiginoso sviluppo dei poteri tecnologici sul corpo umano e sulla realtà naturale in genere; esso opera, come si diceva, nel senso di ridurre la natura, e il corpo stesso dell’uomo, a repertorio di risorse poste al servizio di progetti umani arbitrari. I movimenti di opinione e di pensiero, che denunciano questo rischio, paiono eludere il compito di chiarire il complesso intreccio che di fatto si realizza tra egemonia civile della scienza e divenire della cultura.

Il movimento ecologista, ad esempio, rispettivamente i diversi indirizzi di pensiero che da tale movimento di opinione derivano e insieme cercano di interpretare, registrano in molti modi le minacce iscritte in tale lievitazione dei poteri dell’homo faber; esprimono quindi un sospetto radicale nei confronti delle cosiddette scienze dure; prospettano alla fine un’improbabile riforma epistemologica, che pare configurare un ritorno regressivo alla mitologia (Tao della fisica, Gaia, e simili). È stato rilevato, con giustificata meraviglia, questa stranezza: il pensiero ambientalista, disposto a poco probabili proclami circa la sacralità della natura o circa i diritti degli animali, appare invece assai allergico al riconoscimento di analoga sacralità alla vita umana. La categoria di sacralità appare per altro incerta ed esposta a molti equivoci.

Prima di appellarsi ai massimi principi, sarebbe necessario rilevare un fenomeno innegabile, la cui comprensione esige descrizione sobria e paziente: l’avvento delle nuove possibilità tecniche biomediche ha come effetto di portare ad evidenza la clamorosa ignoranza che la cultura pubblica corrente mostra circa esperienze umane di rilievo radicale in ordine alla complessiva articolazione dei significati elementari del vivere, come la generazione e quindi la nascita, la malattia, la morte, il potere tecnologico nasce e cresce grazie alla pregiudiziale astrazione della scienza che sia alla sua origine: essa prescinde da ogni questione relativa al senso; proprio in forza di tale astrazione conosce il suo prodigioso sviluppo.

A misura che il potere della tecnica dispiega i propri effetti, minaccia di estenuare la percezione dei significati elementari del vivere, che un tempo si affermavano invece in maniera non riflessa. Appunto tale sindrome propone con urgenza il compito di pensare in maniera riflessa il senso delle esperienze più naturali della vita.

Occorre in latu senso procedere, non subito e solo dalle questioni civili, ma dalla prospettiva propria della coscienza del singolo. La letteratura psicologica e psicosociologica ha denunciato con insistenza, nei tempi recenti, il sistemico difetto di identità che minaccia il soggetto nelle società avanzate, o come spesso si dice postmoderne.

I processi di identificazione conoscono difficoltà sistemiche; al novero di tali difficoltà appartengono in particolare quelle che si riferiscono all’identità di genere, maschile o femminile. Tali difficoltà portano alla luce la debolezza radicale della famiglia nelle società complesse. Essa soffre soprattutto a motivo della sua solitudine; proprio la solitudine rende il suo compito proporzionalmente grave, e addirittura impossibile.

Alle difficoltà della famiglia la retorica pubblica risponde sancendo la solitudine e proclamando senz’altro che, in materia dì rapporti familiari, è da riconoscere la competenza esclusiva della coscienza privata. Appunto tale censura civile della famiglia, e quindi anche dell’educazione, raccomanda come urgente la ripresa di una riflessione precisa a proposito dei rapporti per antonomasia qualificati come naturali.

L’idea di legge naturale proposta dal magistero cattolico contemporaneo porta obiettivamente il segno del rilievo privilegiato che ha avuto, nel suo sviluppo, il confronto politico, l’opposizione dunque alla concezione individualistica e convenzionale dei rapporti umani. Ci riferiamo alla prolungata polemica che ha opposto il pensiero cattolico alla cultura liberale. Tratto dominante di tale cultura è il netto privilegio accordato alle libertà individuali; alla legge civile è assegnato il compito fondamentale di garantire appunto le libertà del singolo, e dunque i diritti soggettivi.

Questi sono rappresentati quasi fossero naturali, definiti cioè a monte rispetto ad ogni considerazione relativa alle forme storielle del rapporto sociale. Di contro a tale concezione della legge umana, il magistero cattolico, al seguito della grande scolastica, ribadisce l’essenziale riferimento della stessa legge umana a forme oggettive di rapporto tra gli umani, fissate appunto dalla legge naturale.

L’idea che la legge naturale scaturisca da evidenze di ragione pregiudica la possibilità dì riconoscere il debito innegabile della legge nei confronti della cultura. L’essenziale mediazione culturale dei rapporti umani è invece proposto con evidenza crescente dalla vorticosa accelerazione del mutamento civile e dal conseguente mutamento antropologico culturale; esso scalza la persuasione ottimistica di una legge naturale immediatamente accessibile alla ragione senza tempo e senza luogo.

La legge naturale intesa quale legge della ragione esclude il riferimento di essa alla coscienza immediata del soggetto; assume in tal senso quel tratto “naturalistico”, in tal senso antimoderno, che di fatto viene spesso imputato alla concezione cattolica della legge naturale. Le forme più diffuse della cultura laica propone Invece una visione della legge naturale (anche la cultura laica infatti, pur senza usare l’espressione, mostra di avere un’idea di legge naturale) in termini di diritti soggettivi; il vizio di tale visione è il formalismo.

Quando di diritti individuali si parli come di diritti determinati a monte della considerazione dei rapporti primari (uomo/donna, genitori/figli, fratelli), essi appaiono affetti da un insuperabile tratto formalistico. La giustizia dei rapporti umani può contare unicamente sul criterio del rispetto dell’altro come alius, e non come alter. È rimosso in radice il concorso originario e innegabile dei rapporti di prossimità a istituire le forme della coscienza.

La tesi che intendiamo suggerire ha di che apparire paradossale, e tuttavia ci sembra invece raccomandata dall’evidenza obiettiva. Il ritorno all’idea di legge naturale, che suscita tanto spesso il sospetto di naturalismo antimoderno, è raccomandato in realtà proprio dalla necessità che il pensiero torni alle prime evidenze immediate della coscienza, rimosse dalle forme del pensiero “scientifico” per un lato, e dalle forme del pensiero giuridico per altro lato.

Più radicalmente, è raccomandato dalla rimozione che quelle evidenze subiscono ad opera delle forme pratiche della convivenza nelle società avanzate. Il costume sempre meno assiste il soggetto individuale nel compito di elaborare i significati obiettivamente iscritti nei rapporti primari. Il difetto alimenta la percezione dell’altro come estraneo.

A tale distanza molte forme del pensiero postmoderno cercano rimedio attraverso l’intempestiva apologia dell’altro considerato appunto come straniero; pensiamo in particolare al pensiero poststrutturalista francese (Foucault, Derrida, Nancy, ma in altro modo anche Lévinas), o rispettivamente a certe forme postmoderne dello stesso pensiero teologico, specie americano (nella forma più evidente J. Caputo); alle immagini bibliche dell’accoglienza dello straniero ci si appella per suggerire affrettate letture sublimanti di un’estraneità reciproca, che dovrebbe essere riconosciuta invece anzi tutto come indice di un difetto della nostra cultura.

Di contro all’indiscriminata apologia dello straniero, occorre che la teologia restituisca parola ed evidenza alle ragioni obiettive della prossimità che i vincoli umani originari per loro natura istituiscono. La prossimità umana, assai prima che vincolo in ipotesi generato dai comportamenti obiettivi suggeriti dalla fede nel vangelo, è la verità del rapporto umano disposto fin dall’inizio dal Creatore. Il troppo precipitoso ricorso a immagini evangeliche minaccia di offrire incauta sanzione alla povertà della cultura tardo moderna.

La dominanza che assume l’espressione diritto naturale nella filosofia moderna, e poi anche nella lingua dei teologi, è indice dell’altra sottesa dominanza, quella delle questioni giuridiche rispetto alle questioni morali. Nella vicenda tardo moderna la morale è divenuta questione consegnata alla competenza esclusiva della coscienza del singolo; ha conosciuto invece una sostanziale cancellazione dal numero delle questioni di cui si occupa la filosofia. Tale rimozione è strettamente legata al nesso stretto che lega morale e religione.

Non a caso, l’affermazione della categoria di diritto naturale ha inizio con l’affermazione del giusnaturalismo moderno. Il fatto che la stessa elaborazione cattolica in epoca contemporanea sia segnala da un’attenzione privilegiata alle questioni poste dal rapporto tra diritto naturale e leggi umane, piuttosto che alle questioni del rapporto tra legge naturale e coscienza della persona, riflette obiettivamente il privilegio della questione giuridica nella cultura del nostro tempo.

La dominanza delle questioni del diritto ripropone in termini nuovi e più urgenti un problema antico, che tuttavia la teologia nei secoli precedenti non ha affrontato in termini conseguenti e chiari: quello appunto dei rapporti tra diritto e morale. Nella cultura moderna la distinzione tra norma morale e norma giuridica è divenuta un luogo comune; come accade per tutti i luoghi comuni, ad essa ci si appella in maniera quasi rituale, senza avvertire la necessità di argomentarla.

In realtà, la distinzione non è affatto così ovvia come sì presume; pone invece questioni assai complesse. La distinzione appare, in particolare, uno dei tratti qualificanti della cosiddetta laicità politica; e tale laicità è intesa quasi equivalesse alla radicale estraneità della politica rispetto alla religione, della vita civile dunque rispetto al sacro. Quando sia trattata in questi termini, la distinzione assume, in maniera inevitabile, i tratti della radicale separazione tra diritto e morale.

Testimonianza illustre della tesi che separa diritto e morale troviamo nei pensiero di Kant; esso bene interpreta il modo di pensare comune della cultura liberale, e per altro aspetto esercita una forte influenza sulla cultura giuridica tutta nella stagione tardo moderna. Kant proclama dunque una netta separazione tra morale e diritto; anche sono tale profilo egli si mostra interprete fedele del pensiero illuminista. Il pensiero moderno, segnato dal progetto illuminista, mostra ai suoi inizi di tenere in grande pregio il momento morale della vita; addirittura riconosce in esso l’espressione suprema dell’umano.

Proprio in omaggio alla suprema e incondizionata elevatezza degli ideali morali ritiene di dover nettamente separare la considerazione morale da quella giuridica. La Metafisica dei costumi, che da esecuzione materiale al progetto kantiano di una teoria generale dell’agire, è divisa in due parti, dottrina del diritto e dottrina della virtù, nettamente separate. Nella definizione kantiana, il diritto è la legge universale mediante la quale soltanto è possibile realizzare la composizione tra i comportamenti dei soggetti individuali, e rendere quindi possibile il rapporto sociale.

Dei comportamenti individuali Kant parla quasi fossero espressione dell’erbario individuale. Il ricorso alla categoria dì “arbitrio” non è arbitrario; non intende in alcun modo valere come omaggio a pretesi diritti anarchici del singolo; intende invece sottolineare come il giudizio che il singolo da delle ragioni di bene o di male dei propri comportamenti sia insindacabile ad opera di altri. Esso infatti non deriva i propri parametri da una pretesa bontà dell’atto, suscettibile in ipotesi di definizione “materiale”; la qualità buona o cattiva di un alto non può essere dedotta dalla sua consistenza obiettiva, accessibile alla considerazione di ogni altro soggetto.

Esclude una tale eventualità la dissociazione pregiudiziale tra norma morale e oggetto dell’atto, per esprimerci nel lessico della filosofia di scuola. Non l’oggetto suggerisce la ragione di apprezzamento morale dell’atto, ma soltanto la forma soggettiva del volere che presiede al suo compimento. Più precisamente, il criterio del giudizio è un imperativo espresso dalla ragione a priori.

In tal senso, viene a mancare in radice ogni possibilità di comparazione critica dei giudizi pratici propri dei diversi soggetti. Il criterio della giustizia intesa in accezione giuridica è suggerito invece proprio dalla considerazione soltanto materiale dei comportamenti; tale considerazione appare per sua natura estrinseca rispetto alle intenzioni insindacabili del soggetto. Il criterio della giustizia intesa in accezione giuridica si riferisce alla possibilità o meno di comporre l’arbitrio del singolo con l’arbitrio di ogni altro.

Anche mediante la definizione del diritto Kant persegue quella istanza di autonomia, che è in generale qualificante del suo pensiero morale. Nel caso del diritto, l’autonomia trova la propria determinazione nell’ottica del rapporto del soggetto agente individuale con altri soggetti. Esattamente tale accezione di autonomia è quella che segna il primo passaggio del termine dall’uso politico (autonomia come possibilità di autodeterminazione dello Stato) all’uso riferito al soggetto individuale.

L’autonomia morale, affermata a prezzo dello stralcio dell’agire libero da ogni riferimento alle forme oggettive del vivere comune, appare condannata in partenza ad un processo inesorabile di svuotamento formalistico; così accade a livello di pensiero teorico, e soprattutto così accade a livello di esperienza pratica.

Appunto l’intento di apparsi all’impossibile separazione tra diritto e morale costituisce uno dei motivi decisivi dell’insistenza cattolica sull’idea di legge naturale, sia da parte del magistero che da parte della teologia. Tale intento è certo pertinente, in radice. Esso tuttavia non può essere realizzato mediante l’idea di diritto naturale, quando tale diritto sia pensato come determinato dalla ragione, e proprio per questo per un primo aspetto “laico “, e per altro aspetto preventivamente immunizzato nei confronti di ogni riferimento alla tradizione storica concreta.

All’intento, per sé pertinente, di affermare la necessaria referenza del diritto alla forma morale dei rapporti umani non corrisponde fino ad oggi una soddisfacente elaborazione teorica della distinzione tra morale e diritto.

Nel lessico del magistero, e anche in quello della teologia, ricorrono con frequenza espressioni che suggeriscono la possibilità di determinare che cosa sia legge naturale a monte di ogni riferimento alle forme storielle concrete (e dunque culturali) dei rapporti umani.

Una tale immunizzazione pregiudiziale della legge naturale nei confronti delle forme storiche dell’ethos appare impraticabile. Una medesima norma, quando sia espressa dal costume, o rispettivamente dalla coscienza morale del singolo, non è più la stessa cosa; nella norma del costume la coscienza riconosce un senso eccedente rispetto a quello sancito dalle forme dello scambio sociale.

Tale eccedenza non pregiudica la necessaria referenza della coscienza alla norma di costume; alla giustizia eccedente, che sola può giustificare il soggetto, alla giustizia intesa in accezione propriamente morale, il singolo accede unicamente tramite evidenze a lui dischiuse dalle forme buone del rapporto umano definite, dal costume.

Uno dei compiti di fondo, che il chiarimento della figura della legge naturale propone alla teologia contemporanea, è appunto questo: rendere ragione del fatto che il rimando alla legge morale naturale non comporta in alcun modo una tesi tanto radicale come sarebbe quella che suppone possibile la conoscenza della legge naturale a monte rispetto ad ogni riferimento al costume, e in grado di valere quale criterio a priori mediante il quale giudicare le leggi umane. Alla conoscenza della legge naturale è possibile accedere unicamente tramite la mediazione storica, realizzata appunto grazie alle forme del costume e della cultura.

La legge naturale costituisce in tal senso la verità escatologica dell’ethos, la verità trascendente alla quale esso da sempre rimanda. La legge naturale è certo anche la verità originaria del costume; ma in questo caso come sempre alla verità dell’origine è possibile accedere unicamente attraverso le forme storiche effettive. Si comprende in tal senso come la cattiva qualità della tradizione culturale e sociale possa costituire ragione dì proporzionale distanza dei figli di Adamo dall’origine che li costituisce.

La rinnovata elaborazione teorica dell’idea di legge naturale impone, come è facile prevedere, un ripensamento antropologico di carattere fondamentale. Le discussioni che si producono su tale idea in ambito teologico appaiono spesso pregiudicate appunto dalla persistenza di assunti antropologici generali che, per il fatto d’essere solo taciti e presupposti, impediscono l’univocità della comunicazione.

Il ripensamento antropologico deve registrare il canone qualificante della svolta moderna del pensiero, e cioè il teorema del cogito: il punto d vista originario e per sempre necessario di ogni conoscenza dell’uomo e della realtà tutta è quello proprio della coscienza. Le declinazioni effettive che quel teorema conosce, a procedere da quella proposta da Descartes, concludono facilmente ad un’indebita ipostatizzazione del soggetto, alla sua rappresentazione cioè come cosa (res cogitans). L’esito non è inevitabile; deve essere invece evitato; e può essere evitato unicamente a condizione di riconoscere l’originario e costitutivo riferimento intenzionale del soggetto; il soggetto è presente a sé soltanto in quanto riferito ad altro da sé.

Soltanto sullo sfondo di un ripensamento antropologico, che chiarisce questo nesso radicale, sarà possibile proporre un’elaborazione dell’idea di legge naturale, che non si esponga alle note obiezioni nei confronti del pregiudizio naturalistico, che affliggerebbe la tradizione classica del pensiero fìlosofico.