Crollo demografico: smettiamo di raccontare che i figli sono un peso

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Roberto Volpi

L’Occidentale 25 Ottobre 2016

di Lorenza Formicola

 Con lo statistico Roberto Volpi parliamo di matrimonio, natalità e bambini.

Lei ha affermato che “i figli sono cominciati a venire meno da quando è venuto meno il matrimonio”, ricordando la cesura del referendum sul divorzio. Piccola provocazione: cosa c’entrano i matrimoni con i figli? E non si posso avere figli senza esser sposati?

Certo che si possono avere figli senza essere sposati. E’ una questione biologica, oltretutto [sorride]. Eppure è un dato di fatto storico, e accertato da tutte le statistiche, che nel matrimonio si fanno più figli. Il matrimonio comporta sempre più figli, a dispetto di altre situazioni di coppia o coppia di fatto. Si tratta di risultati empirici, ma anche di una deduzione ovvia. Perché è chiaro che i figli è più facile che arrivino nel quadro di situazioni più consolidate, più stabili, e il matrimonio garantisce queste condizioni. Non è un caso se proprio i matrimoni religiosi erano quelli in cui si facevano più figli. Il venir meno del matrimonio religioso ha aggravato l’elemento della crisi della natalità e della mancanza dei pargoli. Il matrimonio religioso rappresentava il massimo delle certezze, consentiva di guardare ai figli con più serenità e più certezze. Poi è possibile farne anche fuori dal matrimonio, come ho già detto. Ma tutto sta a dimostrare che oggi se ne fanno meno.

Una delle polemiche ricorrenti contro il recente “Fertility day” è stata che senza lavoro non si possono fare figli. Cinquant’anni fa c’era più lavoro, per questo si facevano più figli?

Sono dell’idea che siano venuti meno anche altri fattori, non solo quello del lavoro. La questione della sicurezza lavorativa è un fattore contingente che può pesare, ma se si analizzano le tendenze di lungo periodo questo elemento finisce per avere un peso meno rilevante. Il tasso di natalità, e quindi il numero di figli, è in contrazione da quasi quarantacinque anni. In questo periodo di tempo abbiamo avuto fasi di declino e altre di grande produzione di reddito, eppure il numero di figli è sempre diminuito. Il che vuol dire che ci sono fattori ben più rilevanti alla base del fenomeno che stiamo esaminando. Non voglio escludere che una certa effervescenza economica possa determinare una ripresa alla natalità, almeno nell’immediato. Ma solo nell’immediato. Poi si torna tendenzialmente a un contrazione. I figli del resto appartengono ad una certa concezione della vita

Fare figli non è la cosa più naturale al mondo? A quale concezione si riferisce?

È proprio questo il problema. Oggi si è distanti dall’idea, si direbbe banale, del sentirsi parte della specie umana. I figli sono qualcosa che va al di là di una valutazione contingente. Nella realizzazione della vita attraverso i figli c’è, anzi c’era, una trasmissione di noi stessi, c’era anche un proiettarsi al di là della propria di vita, e quindi al di là della morte stessa. Fattori che sono venuti meno. Nella nostra epoca sopravvive la mera tendenza a una realizzazione molto individuale, o individualistica, che dir si voglia. La questione del fare un figlio viene messa in secondo piano: non è un caso se anche i pochi figli che si fanno arrivano sempre più tardi. Perché sono il frutto di una decisione presa quando ci si sente già “arrivati”, dopo aver preso la laurea, aver trovato un lavoro e consolidato il rapporto di coppia. E allora, dai, forse lo facciamo un figlio! Tant’è vero che ormai cresce il numero di donne che fanno figli oltre i quarant’anni.

C’era un’Italia in cui si avevano molti cugini e pochi nonni viventi. Ora è la figura dello zio a latitare. Il danno è anzitutto antropologico, vengono influenzati i comportamenti della società stessa. Per esempio, perché investire nel mio lavoro se so che nessuno erediterà le mie ambizioni?

Questa è una considerazione molto interessante. Ma la questione ancora più importante, forse, non è neanche tanto questa: si tratta di qualcosa relativo alla spinta individuale al successo. Che oggi è particolarmente forte. E che io non considero negativa, al contrario tutt’altro che negativa, se devo essere sincero.

Quindi se una donna vede nei figli una specie di ostacolo alla propria carriera è una sana forma di spinta alla crescita?

No, attenzione. Non sto dicendo questo. Considero il successo e l’affermazione personale cose tutt’altro che negative, ma il problema è fare in modo che possano essere un bene per la società. Quando lei mi fa l’esempio della donna che vede il bambino come un ostacolo, bisogna fare in modo che questo non avvenga. Quindi occorre che ci sia una società ben disposta ad accogliere i bambini, che ci siano i servizi necessari per le famiglie, ma occorre anche un’altra cosa, quella che definisco una “narrazione del bambino” più favorevole. Più attrattiva. Se si descrivono i figli esclusivamente come un fardello, come una preoccupazione ingestibile, c’è anche un’ovvia reazione conseguente. Quando se ne parla, infatti, tende ad esserci sempre una narrazione problematica dei bambini, mai un qualcosa di felice e soddisfacente…

Ettore Gotti Tedeschi ha scritto che “se non si promuove la famiglia si genera anche disorganizzazione e impoverimento sociale”. Le sembra che in Italia ci sia una seria politica a favore delle famiglie?

Nel nostro Paese non esiste una politica per le famiglie e, francamente, non mi dispiace, perché non amo parlare di “politica per le famiglie”. Perché quando si va a cercare una politica specifica per le famiglie si cade sempre nei soliti temi, e si ripetono gli stessi errori. L’essenziale, dal mio punto di vista, è individuare e comprendere le priorità: vanno resi più veloci i processi di inserimento nella società per i più giovani. Per intenderci: 6 donne su 10 vanno all’università. Se escono dall’università a ventisette anni, e si devono guardare attorno per inserirsi nel mondo del lavoro, la partita è già persa in partenza. Non si capisce perché i nostri processi formativi debbano essere così lunghi. Non si capisce perché un medico debba iniziare a guadagnare a trentadue anni. Perché in America i giovani si laureano due o tre anni prima che in Italia? E, per giunta, entrano subito nel mondo lavoro…

Cosa si dovrebbe fare allora?

Dovremmo anticipare di quattro, cinque anni il matrimonio. Se ci si sposa a trentatré anni, come si sposano in media le italiane oggi, e al più fanno un figlio, di che politiche per la famiglia possiamo parlare? Fattori del genere rivestono una grande importanza. Incidono in maniera negativa su tutti i processi di formazione delle famiglie e, successivamente, dei figli. Per svecchiare la nostra società bisogna ripartire dai processi educativi. Non si può più uscire così tardi dal sistema dell’istruzione e, solo allora, cominciare a guardarsi attorno. Bisognerebbe già sapere che fare.

Secondo il vicedirettore del Wwf Italia le politiche che favoriscano la natalità sono “assurde” perché “il nostro è un mondo spaventosamente sovraffollato”…

Trovo considerazioni come quella del direttore Wwf totalmente sbagliate. E mi meraviglio si dicano stupidaggini così prepotenti. Perché il mondo di oggi va, dal punto di vista demografico, a velocità assolutamente differenziate. L’Europa un secolo fa rappresentava il 20 per cento della popolazione mondiale, oggi è pressappoco al 5 per cento, e peggiorerà nonostante abbia incorporato milioni di immigrati. Quindi non si può fare un discorso a livello globale, così indifferenziato e così generico: abbiamo ancora delle aree in cui si mettono al mondo quattro bambini in media e delle aree in cui al massimo se ne fa uno. Alla fine del 2016, i bambini nati in Italia saranno 460 mila. Quarant’anni fa erano più di un milione. Se a ridursi del 65 per cento fosse stato il reddito reale, ci sarebbe stata una guerra. Invece la questione della natalità non viene neanche presa in considerazione. Fateci caso, considerazioni del genere arrivano sempre da persone che vivono in Occidente, perché in Occidente non c’è più l’attenzione che servirebbe verso i bambini, al massimo c’è quella per il proprio bambino, oltre il quale non esiste più nulla.

Le cose possono cambiare?

Una società come quella di oggi, che vuole i figli solo quando ci sono le condizioni adatte, non cambierà dal punto di vista dei tassi di natalità. Ripeto: serve creare le condizioni perché si torni ad avere la possibilità di fare figli. Condizioni che non attengono solo al reddito, ma alla nostra società. Siamo diventati società vecchie. Mentre noi facevamo una media di 1,2 figli, in America se ne facevano 2. Certo, anche negli Usa si fanno meno figli, ma comunque più di noi. Se la decisione di creare una famiglia e mettere al mondo dei figli viene spostata sempre un po’ più in là, vinceranno i maltusiani.

Se è vero che nel prossimo mezzo secolo, in Germania, la denatalità farà sparire un pezzo più grande della ex DDR comunista, fatte le dovute proporzioni l’Italia che fine farà?

Mi hanno chiamato il “demografo della sparizione” [sorride ancora]. Eppure c’è un dato molto importante: nel 2011 l’Istat ha fatto delle previsioni sullo sviluppo della nostra popolazione, e alla fine del 2016 si prevedevano circa 62 milioni di italiani. A metà 2016, siamo 60 milioni e 600mila e, per giunta, il numero degli italiani si riduce. Quelli che di mestiere fanno le previsioni hanno clamorosamente sbagliato: a fine anno saremo un milione e mezzo in meno rispetto a quanto previsto. La verità è che la nostra società è sottoposta a una deriva demografica spaventosa. Con l’aggravarsi della denatalità, sempre meno donne entrano in età feconda: tutte le condizioni di partenza, dunque, sono negative. Il discorso allora riguarda le strategie di fondo che vuole adottare l’Italia. Siamo la nazione più vecchia, insieme alla Svizzera e al Giappone, e la cosa inquietante è che pensiamo in modo vecchio. Finché non lasceremo sprigionare le energie giovanili, resteremo fermi. Mi chiede se ci estingueremo? Le condizioni sembrano esserci tutte.