Quattro criteri per orientare le politiche migratorie

migrantiOsservatorio Internazionale Cardinale Van Thuân Newsletter n.738

del 25 Ottobre 2016

 S.E. Mons. Giampaolo Crepaldi

Presidente dell’Osservatorio Internazionale Cardinale Van Thuân sulla Dottrina sociale della Chiesa, arcivescovo di Trieste e Presidente della Commissione “Caritas in veritate” del Consiglio delle Conferenze Episcopali d’Europa (CCEE).

Per l’estrema attualità dell’argomento e per la chiarezza dei princìpi che devono ispirare il giudizio sul tema, pubblichiamo l’introduzione all’VIII Rapporto sulla Dottrina sociale nel mondo, curato dall’Osservatorio Internazionale Van Thuan, intitolato «Il caos delle migrazioni, le migrazioni nel caos». Il Rapporto, edito da Cantagalli, sarà acquistabile in libreria da metà novembre.

Vorrei indicare alcuni criteri che hanno guidato lo staff dell’Osservatorio, insieme con le altre Istituzioni internazionali che con esso collaborano, nella stesura di questo Rapporto. È da tutti riconosciuto, infatti, che le migrazioni sono un fenomeno stratificato e complesso. Si tratta di un mare magnum di enormi proporzioni e per inoltrarsi con efficacia in questa “foresta” occorre avere dei criteri guida, viceversa ci si perde.

Alla base ci sono gli orientamenti della Dottrina sociale della Chiesa. Bisogna riconoscere che sul fenomeno le encicliche sociali non hanno finora detto molto. Però gli insegnamenti ordinari degli ultimi Pontefici e soprattutto i Messaggi per la Giornata del Migrante e del Rifugiato contengono molte preziose indicazioni. anche gli episcopati europei – della Comece e della CCEE – hanno fatto sentire la propria voce, insieme agli episcopati nazionali sia dei Paesi di emigrazione sia di quelli di accoglienza. Ci sono allora alcuni criteri che in modo molto sintetico voglio qui ricordare in quanto hanno fatto anche da guida al lavoro di questo Rapporto.

Il primo criterio è che esiste il diritto ad emigrare, a lasciare il proprio Paese sia quando in esso la vita sia diventata molto difficile o impossibile per la persecuzione politica o religiosa che mette in pericolo la vita propria e della famiglia, sia quando esso sia devastato da una guerra, sia anche quando una situazione di degrado o di povertà endemica o di sottosviluppo impedisca la sopravvivenza o la condizioni a sofferenze sproporzionate. Ognuno ha il dovere di amare il proprio Paese, ma nessuno ha l’obbligo di diventarne schiavo. Espatriare è quindi un diritto che deve essere riconosciuto.

Se esiste quindi un diritto ad emigrare va tenuto anche presente che c’è anche, e forse prima, un diritto a non emigrare. L’emigrazione non deve essere forzata, costretta o addirittura pianificata. Questo principio è molto importante perché ad esso sono collegati dei doveri. Il dovere della comunità internazionale di intervenire sulle cause prima che sulle conseguenze, di affrontare i problemi che nei Paesi di emigrazione spingono o costringono persone e famiglie ad andarsene dando il proprio contributo per la loro soluzione, e il dovere  di chi emigra di verificare se non ci siano invece le possibilità per rimanere ed aiutare il proprio Paese a risolvere le difficol- tà. Purtroppo, invece, le grandi potenze destabilizzano esse stesse alcune aree geopolitiche, armano e finanziano Stati corrotti e califfati. Molti episcopati africani insistentemente invitano i propri figli a non andarsene, a non farsi attrarre da proposte illusorie, ma a rimanere per contribuire al progresso del loro Paese. Del diritto a non emigrare si parla poco. Ogni situazione è un caso particolare e questi principi non possono essere generalizzati, però possono contribuite ad illuminare, appunto, la singola situazione.

Un altro principio è che se esiste un diritto ad emigrare non esiste però un diritto assoluto ad immigrare, ossia ad entrare in ogni caso in un altro Paese. In altri termini, i Paesi di destinazione hanno il diritto di governare le immigrazioni e di stabilire delle regole per l’accesso e l’integrazione degli immigrati nella loro società. Principi elementari di diritto umanitario dicono che chi arriva deve essere accolto e accudito, ma i governi devono anche pensare al bene comune del- la propria nazione nei cui confronti le immigrazioni possono diventare una minaccia tra i criteri per la difesa del bene comune nelle politiche immigratorie c’è anche il dovere di salvaguardare la propria identità culturale e garantire una integrazione effettiva e non un multiculturalismo di semplice vicinanza senza integrazione.

Un altro criterio è il realismo cristiano. Da un lato non chiudersi a chiave davanti a questi fenomeni epocali, dall’altro non cedere alla retorica superficiale. L’accoglienza e l’integrazione rappresentano problemi molto impegnativi e non è sufficiente una generica buona volontà per risolverli. Realismo significa non cedere a spiegazioni semplificatorie dei fenomeni migratori, dando colpe a destra o a sinistra. Significa vedere come il male e il bene sempre si accompagnino in questi casi: molti migranti sono senz’altro bisognosi, altri possono emigrare con obiettivi meno nobili. Significa vedere che dietro le migrazioni non ci sono solo legittimi bisogni, ma anche reti di sfruttamento delle persone e disegni di destabilizzazione internazionale. L’accoglienza del prossimo non può essere cieca o solo sentimentale, la speranza di chi emigra va fatta convivere con la speranza della società che li accoglie. La speranza va quindi organizzata, e per questo occorre realismo.

Il realismo cristiano, poi, richiede che non si faccia di ogni erba un fascio. È evidente che l’immigrazione islamica ha alcune caratteristiche proprie che la rendono particolarmente problematica. Riconoscerlo è indice di realismo e buon senso e non di discriminazione. L’islam ha a che fare con le migrazioni in due sensi: da un lato per i califfati islamici che costringono le popolazioni, specialmente cristiane, a fuggire per salvare la vita, e dall’altro perché l’integrazione di popolazioni islamiche in altre nazioni risulta oggettivamente più difficile, per alcune caratteristiche della religione islamica stessa. Non si tratta di dare colpe all’islam, ma di prendere atto che nell’islam ci sono elementi che impediscono di accettare alcuni aspetti fondamentali di altre società e specialmente di quelle di lontana tradizione cristiana. L’accoglienza nell’emergenza va data a tutti. Quando poi invece si transita dall’accoglienza all’integrazione, è prudente non considerare gli immigrati tutti ugualmente in modo indistinto, comprese le cultura e religioni di provenienza.