Mangiamo il futuro dei giovani

levin_coverItalia Oggi  27 settembre 2016

I bambini (perché non votano) sono destinati a essere stritolati dalla voracità statalistica

Invertire la rotta è difficile: troppi sono i mantenuti

di Daniele Capezzone

Mark Levin è un avvocato americano, ha lavorato nell’amministrazione Reagan, e soprattutto – oggi – è un brillante conduttore radiofonico conservatore, noto per il suo stile rude e diretto con gli avversari. «Plunder and deceit» (saccheggio e inganno) è il titolo del suo sesto libro e unisce alla carica aggressiva del pamphlet una accurata documentazione, materia per materia, con unutilissimo apparato di dati e cifre.

La tesi di fondo è questa: come si spiega la contraddizione per cui i genitori, nella vita privata, fanno di tutto per proteggere i propri figli, per assicurare loro il meglio, mentre poi, schizofrenicamente (quando si passa alle scelte pubbliche) avallano quelle politiche dirigiste e stataliste che mettono in pericolo il futuro di quei ragazzi e la sorte delle generazioni successive? Levin è due volte coraggioso.

Una prima volta, per il modo in cui va all’attacco dei megapiani di spesa e di interventismo governativo, fonte di indebitamento, di distorsione nella gestione dei servizi essenziali, e di un eccessivo peso del pubblico sulle nostre vite.

E una seconda volta, perché (diversamente da quanto accade a volte nel mondo conservatore) non si limita a una generica lamentazione, ma chiama esplicitamente a una battaglia culturale e politica.

Troppo spesso, i liberisti si lamentano della confusione politica dei più giovani, della loro propensione a cadere vittima delle demagogie pauperiste-stataliste-antimercato: ma proprio i sostenitori del mercato e della concorrenza devono fare di più per spiegare che le ricette liberali sono quelle più utili proprio ai ragazzi, ai non tutelati, agli outsider di ogni tipo. Se invece i sostenitori del libero mercato, fa capire Levin, si sottraggono al dovere di questa nuova semina culturale e politica, poi non hanno il diritto di sorprendersi del connotato statalista della cultura dominante, e addirittura della sua attitudine a maramaldeggiare facendo del liberismo (inevitabilmente descritto come «selvaggio») una sorta di feticcio negativo e di capro espiatorio di ogni analisi economica e sociale.

Levin unisce una tesi di fondo, quasi filosofica, e insieme un richiamo alla stretta attualità. Il riferimento ideale è a Burke e alla sua idea che una società sia fondata su un continuum intergenerazionale tra morti, viventi e generazioni future; l’elemento di attualità è dato dalle ricerche che attestano come una larghissima percentuale dei cittadini americani sia convinta del fatto che l’America sia oggi complessivamente sulla strada sbagliata, e che i propri figli vivranno peggio dei genitori. Di qui l’esigenza – spiega bene Levin – di difendere i ragazzi e le generazioni future: tutti quelli che (essendo troppo piccoli di età o addirittura non essendo ancora nati) non possono scioperare, né andare in tv, né ricattare la politica come un gruppo di interessi consolidato.

Il quadro sociale americano descritto da Levin merita attenzione. Sommiamo questi elementi: la fragilità occupazionale di moltissimi giovani; la loro conseguente scarsa capacità di risparmiare; un uso massiccio – naturaliter indebitante – della carta di credito. Ne esce fuori, secondo la nota battuta di Lucia Dunn, la fotografia di una generazione che morirà pagando ed essendo ancora in debito. Secondo un’analisi del Pew Research valorizzata da Levin, i tre fattori rappresentati dall’indebitamento, dalla disoccupazione e dalla povertà vedono i giovani attuali in testa alla classifica negativa del rischio rispetto alle due generazioni precedenti.

Ma, dopo questa visione generale, viene la parte intellettualmente più audace del lavoro di Levin, che analizza i principali settori di spesa e intervento sociale, e ha il coraggio di violare tutti i santuari del politicamente corretto, spiegando che il problema sta proprio nella dimensione e nella quantità della spesa e dell’interventismo pubblici.

1. Sicurezza sociale. Il numero di persone che ricevono trattamenti di welfare è raddoppiato in America dagli anni Settanta ad oggi. Di tutta evidenza – spiega Levin – ciò avviene alle spese e sulle spalle dei giovani lavoratori, fatalmente esposti a una triplice negatività: aumento della loro età di pensionamento, aumento delle tasse, taglio dei loro futuri trattamentiprevidenziali.

2. Sanità e Obamacare. Qui Levin vadirettamente all’attacco della politica di Obama. La centralizzazione del sistema e il rafforzamento del ruolo del governo avrà come effetti inevitabili una distorsione del mercato, una burocratizzazione del sistema e un aumento dei costi. È concettualmente sbagliato che il governo entri nel dettaglio di ciò che le assicurazioni devono offrire; è economicamente pericoloso costringere i giovani a sopportare oneri assicurativi fuori misura; e soprattutto è presumibile che, con una parte crescente del bilancio federale assorbita dalla sanità, resterà pochissimo spazio per altri interventi sociali.

3. Scuola. Qui Levin dà il meglio di sé nella sua polemica contro un certo conformismo di sinistra. Scuole e college sono divenuti il cuore dell’indottrinamento di sinistra subito dai ragazzi americani. Gli insegnanti sono, in misura larghissima, ideologizzati a sinistra, e – per sovrammercato – si sono organizzati in potenti sindacati tutti allineati al Partito Democratico. Morale, ammonisce Levin: la discussione sulle politiche educative è più orientata sulla tutela degli interessi dei docenti che non sui servizi da assicurare agli studenti.

4. Immigrazione. L’America è terra di accoglienza, e anche culturalmente Levin richiama un liberista come Milton Friedman, storicamente favorevole all’apertura agli immigrati. Ma occorre darsi un limite e capire che tipo di immigrazione si stia accogliendo ora. Un eccesso nei numeri e soprattutto un eccesso nell’immigrazione di origine islamica (che rifiuta l’assimilazione positiva, che non ha l’orizzonte dell’americanizzazione) porta a tre effetti pericolosi, destinati anch’essi a ricadere sulle spalle dei giovani e delle generazioni future: una competizione distruttiva per i livelli lavorativi più bassi; costi di welfare insostenibili; e il rischio di cadere nel fallimentare multiculturalismo europeo, con troppe comunità radicalizzate e fuori controllo.

5. Ambientalismo. Un conto – spiega giustamente Levin – è la giusta preoccupazione per l’ambiente, altro conto è l’ideologia ambientalista e anticrescita, fatalmente regressiva. L’autore dedica a questo settore pagine appassionate e documentate, smontando e svelando le ossessioni e l’attitudine pseudoreligiosa di certo ecologismo: la crociata contro le fonti fossili, la prospettiva della deindustrializzazione, il no alla competizione e al mercato, la diffidenza verso la tecnologia, il focus tutto spostato sulla redistribuzione (anziché sulla creazione di nuova ricchezza), un fondo evidente di anticapitalismo. Tutto questo può solo produrre povertà e arretramento.

6. Aumento del salario minimo. Qui Levin coniuga buon senso e coraggio, smontando un altro mito obamiano. Aumentare forzatamente il salario minimo rischia di essere un’operazione «job killer», che metterà in pericolo numerosi posti di lavoro. Costringere i datori di lavoro a pagare di più anche i lavoratori meno qualificati – in ultima analisi – scoraggerà nuove assunzioni.

La rassegna di Levin è dunque a trecentosessanta gradi, su tutti i settori della vita pubblica e della spesa sociale, e ha il merito di indicare una direzione di marcia chiara e controcorrente. Non «più spesa» e «più decisione pubblica», ma (in conformità con i princìpi ispiratori della Costituzione americana) una propensione a limitare il governo e il suo potere centrale. Certo, Levin ha nel mirino Obama e il suo big government, ma l’ammonimento dell’autore vale anche per i repubblicani: anche loro – in passato – non esenti da vizi statalisti, e – nel presente – troppo timidi nell’indicare un percorso liberale e promercato.

Levin chiude auspicando (la provocazione è intelligente e feconda) la nascita di un nuovo «movimento dei diritti civili», che metta al centro gli interessi delle generazioni future, e si proponga di restaurare lo spirito della Rivoluzione americana.

Per noi lettori europei, restano due ammonimenti utili. Il primo è il rischio di «europeizzazione» dell’America, con una propensione crescente alla maggiore spesa pubblica e a un più esteso e costoso interventismo pubblico. Il secondo riguarda proprio noi: se queste domande se le fanno negli Stati Uniti, cosa aspettiamo a farcele noi – e in modo ben più pressante! – visto il collasso del welfare in Europa, e livelli di spesa pubblica ormai ingestibili da questa parte dell’Atlantico, anche alla luce degli andamenti demografici? In particolare in Italia, ad esempio, la vicenda previdenziale è terrificante, con un’intera generazione che rischia di essere massacrata (in pensione tardissimo e con un trattamento da miserabili), se non si passerà (come in pochi auspichiamo) a un sistema a capitalizzazione individuale, che apra ai fondi privati, rompendo un monopolio pubblico inefficiente e ingiusto.

Ma forse,in larga parte dell’Europa continentale, la situazione è già per tanti versi compromessa. E il mix di spesa e interventismo pubblico ha ormai raggiunto un livello di non ritorno difficilmente rovesciabile da un punto di vista elettorale: con una quota così grande di elettorato, direttamente o indirettamente, dipendente dalle decisioni di spesa governativa, da rendere fatalmente minoritari i politici che osino proporre un deciso taglio di unghie per la mano pubblica. A un manipolo di coraggiosi il compito di provare a rovesciare questo stato di cose.

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Mark R. Levin: «Plunderand deceit – Big government’s exploitation of young people and the future» Threshold editions