Icmesa, quante bugie e falsità su quella fabbrica

SevesoLa Nuova bussola quotidiana

10 luglio 2016

di Andrea Bartelloni

«Tonnellate di sostanze nocive arrivarono dall’aria, in seguito a una “reazione fuggitiva”, cioè a una piega inaspettata e incontrollabile presa da un processo industriale nello stabilimento Icmesa di Seveso. Era la mattina di sabato 10 luglio di quaranta anni fa. In realtà l’aggettivo inaspettata è fin troppo bonario, perché qualche disastro prima o poi doveva succedere in quella fabbrica che faceva parte d’un gruppo condotto malissimo. Nelle linee direttive regnava il caos. L’esercizio dell’impianto era economicamente in passivo: sarebbe stato logico venderlo, se si fosse trovato un compratore deciso a cambiare un andazzo assurdo.

Oppure sarebbe stato semplicemente da chiudere. Invece la proprietà, forse anche per non scatenare reazioni sindacali e politiche a quest’ultima eventualità (il ’68 era ancora molto vicino), lasciò che le cose andassero avanti nel peggiore dei modi. Gli addetti al processo avevano finito il turno e l’impianto venne lasciato incustodito. Doveva semplicemente raffreddarsi spontaneamente, perché la reazione era stata interrotta in vista del weekend. Invece ne subentrò un’altra non voluta. La temperatura cominciò a salire invece che a scendere, e non c’era nessuno a notarlo, altrimenti si sarebbe potuto intervenire tranquillamente. Per quasi sette ore nessuno fece nulla, finché alle 12,37 la reazione indesiderata divenne tanto veloce da creare un surriscaldamento e un aumento di pressione incontenibili. Saltò un diaframma di sicurezza e fu la nube tossica, che conteneva anche qualche chilogrammo di diossina»

Chi parla è Gianni Fochi, chimico della Scuola Normale Superiore di Pisa, giornalista scientifico e autore di libri popolari sulla chimica (http://fochi.altervista.org) l’ultimo dei quali, La chimica fa bene, è appena stato ristampato dall’editore Giunti in edizione economica.

Il dramma di Seveso ha avuto delle gravi ricadute sul mondo della chimica?

«Seveso è stato come uno spartiacque per l’immagine della chimica nelle menti degl’italiani. Idolatrata fino allora come anima del progresso, la chimica divenne all’improvviso un demonio. E non è ancora riuscita a risalire la china del baratro in cui allora precipitò. Il trionfalismo precedente aveva senza dubbio qualche nota esagerata: pensare che il progresso tecnico ci renda felici e risolva davvero tutti i problemi dell’umanità è una delle utopie pericolose degli ultimi due secoli. A che serve Dio? Saranno la scienza e la tecnica a salvarci! Molti la pensano così, purtroppo, e i risultati si vedono. Però è altrettanto sbagliato, forse ancor più, disprezzare il progresso tecnico e le scienze che ne stanno alla base, fra le quali la chimica ha un ruolo centrale. Perciò il mio libro, che è stato gentilmente citato, ha quel titolo: “La chimica fa bene”. Anche nei periodi peggiori e nonostante alcuni disastri, la chimica ha portato l’umanità a un benessere materiale assolutamente impensabile agl’inizi dell’era moderna»

La chimica non ha proprio colpe?

«Nel libro non nascondo che la stessa industria chimica ha delle responsabilità nell’immagine brutta che continua a resistere anche decenni dopo che le norme sono diventate molto più stringenti, imponendo attenzione all’ambiente e alla sicurezza di chi lavora e di chi vive nelle vicinanze. L’industria è infatti pronta – e giustamente! – a magnificare i progressi che ha fatto e che le sono costati e le costano molti soldi, ingegno e risorse umane; ma non ha mai intavolato col pubblico un dibattito aperto su certe brutture d’un passato neanche troppo lontano. Un atteggiamento del genere è controproducente, suscita diffidenza: come posso fidarmi delle cose belle che vai raccontando, se sulle altre svicoli, come se non ci fossero mai state? Gli equivoci sono stati e sono tuttora alimentati dai media che campano di catastrofi e dalle correnti più agitate dell’ambientalismo, che sognano un inverosimile rischio zero invece d’affrontare i problemi in modo razionale. Molti politici ovviamente cavalcano la tigre del terrore popolare, e purtroppo anche certi settori della Chiesa s’accodano a questa tendenza»

Torniamo a Seveso e alle conseguenze del disastro. Una, forse, delle più importanti fu il fatto di essere stata l’apripista per l’aborto di Stato 

«Ai propagandisti disonesti – Pannella, Bonino, Faccio… – non importava affatto sapere quante probabilità avevano i bimbi allora nella pancia delle mamme di sviluppare anomalie più o meno gravi. A quei signori importava soltanto istillare l’idea che una vita umana – anzi, secondo le loro menzogne non era neppure una vita umana – potesse essere cancellata tranquillamente di fronte a inconvenienti anche solo ipotetici. Poi si seppe che appunto erano solo ipotetici. O meglio: in pratica si fece di tutto perché i risultati delle osservazioni sui bimbi uccisi per aborto procurato passassero in sordina. La quarantina di bimbi abortiti nell’occasione non aveva anomalie in più rispetto alle statistiche ordinarie. Ed è bene chiarire un altro aspetto. Quando ancora la legge 194 non esisteva, il governo presieduto da Giulio Andreotti (grande antesignano dei “cattolici adulti”) autorizzò quegli aborti definendoli terapeutici. Uno dei tanti esempi di disonestà verbale che purtroppo ha fatto scuola: erano eugenetici, non terapeutici».

Ma la diossina di Seveso quanti morti ha provocato?

«Nessuno può dare una risposta categorica, ma soltanto tentare studi epidemiologici, il cui risultato non è poi così automatico collegare alla nube tossica del 1976. Si dice di tumori causati dalla diossina. Però gli studi che sono stati fatti sembrano dire che l’insieme dei vari tipi di tumore non ha avuto nella zona un aumento effettivamente riscontrabile. Forse in più c’è stato qualche caso di leucemia, linfoma e altri tumori del sangue, come anche di cancro al seno. Ripeto: forse. Le statistiche sono corredate da incertezze molto alte. Di morti, sì, ce ne sono stati. Ma non li ha causati la chimica. Oltre ai bimbi suddetti, uccisi con l’aborto volontario in grembo alle loro madri, ci fu il chimico Paolo Paoletti, un dirigente dell’Icmesa. Fu ucciso a Monza dai terroristi di Prima Linea il 5 febbraio 1980».