A ottant’anni dalla fine della “guerra cristera”

ZENIT.org – lunedì, 19 ottobre 2009

Parla il sacerdote Juan González Morfín

di Jaime Septién

QUERÉTARO – A 80 anni dalla fine ufficiale della cosiddetta “guerra cristera” in Messico (1926-1929), padre Juan González Morfín, laureato presso la Pontificia Università della Santa Croce di Roma e docente all’Università Panamericana di Città del Messico, ha scritto un vibrante saggio sulla liceità morale della sollevazione cristera.

Saggio pioniere nel suo genere, “La guerra cristera y su licitud moral” (Porrúa, 2009) diverrà un riferimento obbligatorio per chiunque voglia addentrarsi nello studio di questa epoca difficile per il Messico, in questa guerra motivata dall’intransigenza del Governo del generale Plutarco Elías Calles (1924-1928) e del suo successore, Emilio Portes Gil (1928-1930), riguardo alla libertà religiosa e alla libertà dei fedeli.

In questa intervista, padre González Morfín parla di questo importante anniversario.

Cosa dicono il Magistero, la dottrina e la tradizione del pensiero cristiano su un’azione armata come la guerra cristera in Messico, terminata 80 anni fa?

P. Juan González Morfín: Nel momento in cui alcuni cattolici messicani optavano per la difesa armata per recuperare diritti che erano stati strappati loro, il Magistero della Chiesa era unanime nel condannare qualunque insurrezione armata contro il potere costituito per i mali maggiori al bene comune che sarebbero derivati. Non c’era ancora quella che si potrebbe definire una “dottrina cattolica sulla resistenza armata”. Ad ogni modo, in alcuni libri di morale si iniziava a proporre che, se si compivano le condizioni che facevano considerare giusta la difesa armata di un Paese contro un aggressore ingiusto, si poteva ritenere giusta la sollevazione di un popolo contro un Governo che si era trasformato in un ingiusto aggressore.

Era soprattutto una soluzione teorica e le condizioni segnalate erano andate evolvendosi nel corso di vari secoli, ma nella pratica c’erano molti problemi: come si poteva garantire che i mezzi pacifici fossero stati esauriti? Che tipo di aggressione, o che tipo di diritti dovevano essere coinvolti perché si considerasse necessario il ricorso alle armi? Chi poteva esortare alla sollevazione? Come si vede, la risposta non era così semplice. Ne “La guerra cristera y su licitud moral” presento un ampio studio sulla questione, che, tuttavia, non è né esaustivo né pretende di dire l’ultima parola.

Quale fu la base sociale del movimento cristero?

P. Juan González Morfín: La guerra cristera è stata una sollevazione popolare nel vero senso della parola: ha coinvolto tutte le fasce sociali, il che non vuol dire che tutti abbiano partecipato nella stessa proporzione. Le prime sollevazioni, a Zacatecas, sono state di contadini che, abituati a difendersi dalle bande di malviventi che li assalivano continuamente in quell’epoca di grande anarchia, videro la necessità di difendersi dal Governo che impediva loro di praticare la religione.

La causa scatenante della sollevazione del generale Pedro Quintanar fu un’aggressione dei soldati contro una folla di cattolici. Dopo pochi giorni si unì a lui il generale Aurelio Acevedo con alcune decine di persone che ritenevano necessario sollevarsi quanto prima perché le truppe governative stavano confiscando le armi con cui si difendevano abitualmente dalle bande di ex rivoluzionari e capivano che se se le lasciavano senza armi sarebbero rimaste indifese di fronte a qualsiasi arbitrio del Governo, che “aveva già chiuso le chiese”, per cui decisero di lottare in difesa della loro fede, senza avere una prospettiva chiara di ciò che avrebbe potuto ottenere un numero così esiguo di persone.

L’insurrezione del 1926 si estese rapidamente?

P. Juan González Morfín: Sollevazioni simili quanto ai motivi si verificarono in varie zone in quei mesi che seguirono la sospensione del culto, cioè dall’agosto 1926. Allo stesso tempo, iniziarono le azioni di persecuzione più ripugnanti contro la popolazione cattolica, per cui le sollevazioni aumentarono: in quei primi momenti troviamo già gente che non apparteneva più al ceto contadino, come i fratelli Navarro Origel, di Pénjamo, Guanajuato; Carlos Díez de Sollano, anch’egli a Guanajuato; i Guízar, nella zona di Cotija, Michoacán; una trentina di giovani delle famiglie ricche di Piedras Negras, Coahuila. Si potrebbero indicare molte altre persone di classe medio-alta e alta, così come molte altre della classe media, presenti fin dall’inizio della guerra cristera. Per ragioni semplicemente matematiche, la percentuale più elevata dei protagonisti della sollevazione era di origini contadine.

Cosa distingue quello cristero da altri movimenti cosiddetti “rivoluzionari”? Il fatto che non voleva sovvertire né l’ordine sociale né il potere, ma che aspirava a vedersi permesso il ritorno alle pratiche di fede?

P. Juan González Morfín: Gli stessi cristeros molte volte respinsero, come attacco, il fatto di essere definiti “rivoluzionari”. L’obiettivo della loro resistenza non era cambiare il regime politico attraverso le armi, ma vedersi restituire i diritti di cui erano stati privati; per questo, quando pensarono di riavere la possibilità di tornare a praticare la propria fede liberamente consegnarono le armi. In questo senso, è interessante la testimonianza del responsabile militare degli Stati Uniti al termine della guerra cristera: “Ci si aspettava che, terminata la guerra, un gran numero di cristeros si desse al banditismo. Ma non accadde”.

Che ruolo giocarono i Vescovi e i sacerdoti nella guerra cristera e negli “arreglos” (accordi) del 1929?

P. Juan González Morfín: Quando avevano iniziato a proliferare le sollevazioni dei cattolici che cercavano di difendere la propria fede con le armi, la Lega Nazionale per la Difesa della Libertà Religiosa, associazione civica laica fondata verso il 1925, volle guidare i vari movimenti per dar loro una certa organizzazione. In quel momento si chiese il sostegno dell’episcopato in vari sensi, ma l’unica cosa che si ottenne fu una specie di impegno a non condannare il movimento armato.

Per i quasi tre anni in cui durò la lotta armata, la maggior parte dei Vescovi rimase in esilio ed effettivamente non condannò mai la difesa armata. Uno di loro, l’Arcivescovo di Durango, monsignor José Ma. González y Valencia, si vide nella necessità di rispondere alla domanda esplicita di quanti si erano sollevati e il senso della sua risposta fu che, non avendo loro provocato l’aggressione, avendo poi esaurito tutti i mezzi pacifici e difendendo diritti veramente irrinunciabili per loro e per i loro figli, come il diritto di praticare la loro religione, coloro che si erano sollevati potevano avere la coscienza tranquilla. I sacerdoti in quell’epoca non tanto di guerra, ma di terribile persecuzione, si impegnarono a nascondersi.

Erano tempi molto difficili per il sacerdozio…

P. Juan González Morfín: Con il rischio di perdere la vita, come di fatto accadde a molti, in sacerdoti facevano fronte clandestinamente alle richieste dei fedeli. Alcuni di loro, meno di cinquanta, esercitavano il ministro tra gli insorti in qualità di cappellani castrensi. Pochi, meno di dieci, arrivarono anche a impugnare le armi.

E il ruolo dei Vescovi negli “arreglos”?

P. Juan González Morfín: Sugli “arreglos” la spiegazione non è così semplice, perché in genere si dà per scontato che i Vescovi intervennero per patteggiare la pace con il Governo senza tener conto degli insorti, ma non andò proprio così. E’ un tema complesso e difficile da spiegare i poche parole, soprattutto in modo convincente. Alcuni dirigenti cristeros, tra cui lo stesso generale al comando, Enrique Gorostieta, confessavano nella loro corrispondenza privata la necessità di arrivare a un accordo di pace.

Ciò che i Vescovi patteggiarono con il Governo di Portes Gil fu soprattutto un contesto di applicazione delle leggi che permettesse loro di esercitare il ministero senza essere soggetti all’autorità civile in questioni di disciplina esterna, cioè si arrivò a un “arreglo” che permetteva loro di riprendere il culto. Le basi del congedo dei cristeros furono negoziate da colui che in quel momento era il generale capo dell’esercito cristero, Jesús Degollado Guízar, che in precedenza aveva concordato con il comitato di guerra della Lega un documento che accettò integralmente il Governo di Portes Gil. Quelle basi in un primo momento furono rispettate, ma poco tempo dopo iniziò la mattanza selettiva di tutti coloro che avevano occupato qualche incarico nel movimento armato. Insisto sul fatto che non è semplice da spiegare in poche parole.

E Roma?

P. Juan González Morfín: I Vescovi avevano chiesto al Papa l’autorizzazione a sospendere il culto; era logico che la chiedessero anche per ripristinarlo, soprattutto se le condizioni che avevano portato alla sospensione non solo non erano migliorate, ma anzi si erano estremamente aggravate. Per questo, per permettere il ripristino, si chiese l’autorizzazione della Santa Sede, che suggerì che qualsiasi accordo al quale si fosse arrivati rispettasse queste condizioni: a) una soluzione pacifica e laica; b) amnistia completa per Vescovi, sacerdoti e fedeli; c) restituzione di proprietà come chiese, seminari, case di Vescovi e sacerdoti; d) che la Sante Sede potesse avere relazioni senza alcuna restrizione con la Chiesa messicana.

Si può dire che i Vescovi, spinti dal bene che la pace avrebbe portato ai loro figli, da quasi tre anni privati dell’ausilio dei sacramenti, si rassegnarono ad accettare molto meno di ciò che la Santa Sede aveva indicato. Per farsi un’idea più completa dell’azione della Sede Apostolica nel conflitto, raccomando la lettura di “El conflicto religioso en México y Pío XI” (Minos, 2009), un libretto che ho pubblicato qualche mese fa.

Quali insegnamenti lascia la guerra cristera?

P. Juan González Morfín: Bisogna continuare a studiare questo tema, perché fino a pochissimo tempo fa era quasi proibito dalla storiografia – ufficiale e non –, forse per il tanto dolore che ha provocato. Vorrei cambiare un po’ la domanda e rispondere, in un modo che forse io stesso dovrei correggere una volta approfondito il tema, parlando più che degli “insegnamenti” delle “conseguenze”; e in questo senso posso dire che la guerra cristera aiutò enormemente il rafforzamento della fede dei messicani. Nei territori del nostro Paese in cui si svolse, attualmente la pratica religiosa è più estesa e più consolidata. Il sangue di molta gente morta a causa della fede continua a dare frutti.

A suo avviso, la sollevazione cristera è stata lecita moralmente parlando?

P. Juan González Morfín: Papa Pio XI, in un’Enciclica scritta nel 1937, cioè otto anni dopo la fine della guerra cristera, diede ragione ai Vescovi che non condannarono l’insurrezione, spiegando che “non si vede come sarebbe stato possibile allora condannare il fatto che i cittadini si unissero per difendere la Nazione e difendere se stessi con mezzi leciti e appropriati contro coloro che si avvalevano del potere pubblico per portarla alla rovina”. Questo è in qualche modo una conferma a posteriori del fatto che la difesa armata intrapresa da alcuni cattolici messicani in difesa della libertà religiosa non si può condannare come un’azione immorale; ad ogni modo, con ciò non si vuol dire che tutte le azioni intraprese dai cristeros siano state moralmente lecite.

[Traduzione dallo spagnolo di Roberta Sciamplicotti]

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