Augusto Del Noce L’inevitabile decomposizione del marxismo*

Lenin_abbattutoStoria Libera Anno II n.4-2016

A cura di Guido Vignelli

Il suicidio del comunismo

In un colloquio con Del Noce, egli una volta mi disse che il celebre motto, secondo cui historia magistra vitae, purtroppo non gli pareva realistico, perché proprio la storia dimostra che l’umanità non riesce a imparare dalla esperienza passata e quindi tende a ripetere sempre gli stessi errori. È però anche vero che la divina Provvidenza suscita pensatori capaci, col loro acume profetico, di far tesoro degli errori passati e anche di prevedere quelli futuri. Del Noce è stato uno di questi pensatori profetici, soprattutto illuminando la tragedia del XX secolo: il comunismo, del quale previde con grande anticipo la crisi e il suicidio.

Secondo Del Noce, l’avvento del Sessantotto segnò insieme il successo e la definitiva crisi del comunismo come ideologia e come movimento. Fin dall’inizio degli anni Settanta, egli profetizzò il crollo del mondo sovietico e Il suicidio della rivoluzione, come testimonia questo titolo di un suo celebre libro (Rusconi, Milano 1978). Ma egli temeva che questo avvenimento non sarebbe stato davvero liberatore, perché non era risultato di un processo di conversione e di riscatto, ma solo del fallimento del progetto costruttivo sovietico. Pertanto, il vuoto che ne risultava rischiava di essere riempito da un radicalismo libertino e permissivo, come quello promosso in Italia dall’avvento di un “partito radicale di massa”.

Del Noce ribadì questa previsione nell’articolo che qui presentiamo, pubblicato postumo sulla rivista «30 Giorni»; essendo egli morto il 30 dicembre 1989, fece appena in tempo a vedere la caduta del Muro di Berlino, ma non il successivo crollo del sistema sovietico; vide l’avvento del radicalismo, ma non i recenti segni di riscossa morale ch’egli aveva a lungo auspicato e per i quali aveva tanto operato.

Per Del Noce, il crollo degli Stati comunisti non va attribuito alla globalizzazione dell’economia o delle comunicazioni, come pretendono i liberali, bensì alla resistenza, e poi alla rinascita, del sentimento patriottico e di quello religioso. Parimenti, la crisi degli Stati non va attribuita alla rivolta del neo-proletariato terzomondiale, come pretendono i socialisti, ma alla riscossa della coscienza civile e religiosa.

Com’è noto, oggi l’Unione Europea tenta di rimediare alla crisi del comunismo realizzando una “nuova sintesi” tra socialismo e radicalismo che dovrebbe animare la nuova epoca “postmoderna”. Ma questo tentativo sta provocando non la nascita di una nuova società, ma solo la dissoluzione finale della vecchia società, il crollo di tutte le certezze e sicurezze tradizionali delle quali tuttora sopravvive: dilaga insomma un nichilismo che si realizza nell’anarchia.

Quindi, secondo Del Noce, il XX secolo si conclude non solo con un fallimento, ma anche con una sorta di “catastrofe”, nel senso sia etimologico (rovesciamento) che filosofico (mutamento globale): infatti tutte le ideologie che avevano progettato la deificazione dell’uomo si sono “rovesciate” producendo l’opposto di quanto avevano promesso, e in tal modo avviano un mutamento epocale dalle imprevedibili conseguenze (si vedano al riguardo le dichiarazioni delnociane rese nel 1987 a Vittorio Messori, poi riportate nel libro Pensare la storia, Edizioni San Paolo, Milano 1992).

Si è quindi realizzata quella che Del Noce, nell’articolo che qui riportiamo, chiama «eterogenesi dei fini che colpisce tutte le forme rivoluzionarie dell’Ottocento; (…) la decomposizione del marxismo coincide con la crisi della modernità»; dunque, per uscire dalla crisi attuale, s’impone una rinascita culturale che parta dalla «critica delle idee di modernità e di secolarizzazione».

Il fallimento della Rivoluzione

L’attuale crisi non colpisce solo il socialismo e il liberalismo, ma anche la loro radice storico-ideologica, ossia la “modernità”, intesa in senso non cronologico ma assiologico, ossia come tentativo di realizzare l’Assoluto nella Storia e il Paradiso sulla Terra, mediante la divinizzazione dell’uomo con le sue sole forze naturali: è quella che il Magistero pontificio ha chiamato Rivoluzione.

Negli anni tra il 1980 e il 1995, poco prima della loro morte, due fra i massimi esponenti della cultura e dell’apostolato cattolico mondiale, l’italiano Augusto Del Noce e il brasiliano Plinio Corrêa de Oliveira, separatamente previdero che il suicidio del comunismo avrebbe coinvolto l’intera Rivoluzione, il che avrebbe comportato la fine della “modernità”. Secondo loro, la Rivoluzione è ormai moribonda perché divorata dal suo stesso nichilismo; ciò non deve stupire poiché, nella stessa essenza della Rivoluzione, «si trovano già inscritti il suo destino di sconfitta e la sua condanna alla infamia» (A. Del Noce, Cristianità e laicità, Giuffré, Milano 1998, p. 317).

L’ultimo saggio pubblicato da Del Noce ancora in vita fu significativamente intitolato Secolarizzazione e crisi della modernità (E.S.I., Napoli 1989). I più lucidi ideologi rivoluzionari hanno ammesso che il loro progetto è fallito e che stanno marciando nel buio verso la rovina. Un amico-nemico di Del Noce, il politologo Norberto Bobbio, già nel 1989 ammise sconsolato: «noi corriamo spensierati verso l’abisso, dopo esserci messi davanti agli occhi qualcosa che c’impedisce di vederlo» (cfr. «L’Espresso», 19 marzo 1989, p. 3).

Sono ciechi che pretendono ancora di condurre altri ciechi! Ciò dimostra il grave errore commesso dai cristiani progressisti. Convinti della irreversibilità del processo di secolarizzazione e di socializzazione, dominati da un complesso d’inferiorità verso la “cultura moderna”, essi ne hanno recepito acriticamente il pensiero e vi si sono subordinati nell’azione; vedendone oggi la crisi mortale, essi tentano invano di rianimarla fornendole un mero “supplemento d’anima” e rischiando quindi di esserne coinvolti nel fallimento.

Per contro, il primo dovere della cultura cristiana sta nel «prendere coscienza del valore e della conferma che trova oggi quella critica della modernità che ha ispirato la filosofia della storia cattolica dell’Ottocento, e che invece, in questo dopoguerra, molta parte della cultura cattolica, nuovi teologi in testa, ha ripudiato» (Augusto Del Noce, Cristianità e laicità, p. 146). Pertanto, la “catastrofe” della Rivoluzione va vista non come una sciagura ma anzi come una provvidenziale possibilità di riscatto; essa infatti demolisce gl’idoli della “modernità” e apre la strada a un rinnovamento spirituale che favorirà l’avvento di una nuova epoca cristiana e quindi di una “nuova Cristianità” che però, a differenza di quella auspicata da Maritain, non sarà profana e secolare ma sacrale e religiosa.

Guido Vignelli

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Le mie tesi nei riguardi di un’interpretazione filosofica della storia contemporanea mi separano da gran parte degli studiosi così di destra come di sinistra, così dai marxisti come dai laici, come pure dalla cultura cattolica prevalente e dalle forme di progressismo, ora temperate ora estremiste, che generalmente essa professa.

Ricordo quello che mi scriveva Ernst Nolte mesi fa: in questa linea interpretativa, che pure assume notevoli differenze in lui e in me, ci troviamo pressoché isolati nel mondo. Se dovessi dire le ragioni per cui essa si distingue, il discorso andrebbe innanzi per ore e ore. Premetterò un insieme di proposizioni che non posso compiutamente giustificare, ma che sono il presupposto di quel che dirò: la prima è che la storia del nostro secolo è quella della completa riuscita del marxismo – nel senso che realmente ha mutato il mondo e non soltanto quella parte del mondo in cui il comunismo è riuscito – ed insieme del completo suo scacco, nel senso che le posizioni così ideali come pratiche del pensiero razionalistico-laicistico successivo sono aspetti della sua decomposizione e in quello che il processo dall’iniziale filosofia di Marx a quel che viene detto “socialismo reale” è estremamente razionale e necessario (trovo una conferma di queste tesi in Vittorio Strada, che parte dalla considerazione della realtà sovietica attuale, per arrivare alle sue condizioni ideali; nonché in Solzenicyn che vede nel comunismo un realtà che non si spiega con l’anima russa, e che in qualche modo le si è sovrapposto).

Ora, è ovvio che questo giudizio non può essere espresso né da un marxista né da chi escluda il marxismo dalla storia della filosofia (ultima versione Popper); può imparentarsi invece con Nietzsche, se si vede la sua opera all’inizio e al fondo della letteratura della crisi. Le tesi della completa riuscita e del completo fallimento allontanano da quelle così della rivoluzione tradita come da ogni reminiscenza di kautskismo o mondolfismo. La seconda. La tesi che ho enunciato, secondo cui quel che oggi viene detto “socialismo reale” è la realizzazione prima di quel che era già presente nell’iniziale filosofia marxista e insieme il completo rovesciamento delle speranze e delle profezie marxiste (non semplicemente nel senso che abbia dato origine a qualcosa di altro, ma in quello che ha realizzato l’esatto opposto di quel che prometteva), rientra in un’altra tesi più generale sull’eterogenesi dei fini che colpisce tutte le forme rivoluzionarie dell’Ottocento.

Lo stesso, infatti, si deve dire, a mio giudizio, rispetto a Mazzini. Può sembrare strano asserire che l’epilogo affatto imprevisto della rivoluzione mazziniana sia stato il fascismo; pure lo è meno se si pensa come sia attraverso Mazzini che si abbia l’incontro tra Gentile e Mussolini nel primo dopoguerra.

La terza. Se all’inizio del periodo storico che viviamo c’è un fatto filosofico – la filosofia di Marx – la storia contemporanea offre il vantaggio euristico di una piena razionalità. Ho letto di recente una frase di Norberto Bobbio, secondo cui la realtà contemporanea smentisce l’assunto che la storia delle idee e la storia dei fatti corrano sullo stesso binario, così da mostrare che non c’è nulla di meno razionale della credenza nella razionalità della storia; e non si tratta di una battuta perché questo giudizio è il punto di arrivo di una delle direzioni prevalenti della cultura filosofico-politica italiana, quella che prende le mosse da Gobetti e che si ispira Cattaneo, del liberalsocialismo insomma.

Per Bobbio il mondo contemporaneo è segnato dalla lotta della modernità-eguaglianza-democrazia, tra idee per lui unite, contro l’irrazionalismo, dall’antitesi di Rousseau e di Nietzsche. Per me, invece, per intendere la sua storia, cioè quella che va dalla prima guerra mondiale e dalla Rivoluzione d’ottobre ad oggi, occorre dare priorità alla causalità ideale, quanto a dire al momento filosofico e religioso: essa, considerata da questo punto di vista, manifesta una razionalità nei suoi momenti essenziali, come espressione, e vedremo tra un momento quale sia il senso di questa affermazione, dell’articolarsi di un sistema filosofico.

Al termine di “secolarizzazione” è toccata una sorte, a ben guardare, non troppo diversa da quella di “umanismo”. Ha finito cioè col perdere ogni significato preciso. Resta tuttavia innegabile la correlazione tra l’idea di secolarizzazione e quella di modernità. Per il pensiero laico il termine di modernità è legato all’idea di un processo irreversibile verso l’immanenza radicale. Anche i teologi che hanno parlato di secolarizzazione ne hanno unito l’idea a quella di modernità. Ricordiamo la celebre frase di Bonhoeffer secondo cui si avrebbe oggi il passaggio dell’umanità all’età adulta, onde la necessità di presentare la verità religiosa in un’altra forma all’uomo moderno.

A mio giudizio il termine di secolarizzazione acquisisce tutto il suo significato se lo pensiamo in rapporto a quella che possiamo chiamare la controreligione marxista: Marx vuole realizzare il rifiuto radicale della dipendenza dell’uomo, dunque dell’aspetto per cui la religione significa dipendenza da un Dio creatore. Tuttavia neppure si può dire che la controreligione marxista si riduca a un semplice rifiuto della religione. Nella letteratura marxista si trovano alternativamente i termini del radicale ateismo e della “religione che deve ammazzare i cristianesimo” per servirmi di una celebre frase di Gramsci.

Il rifiuto della dipendenza dal Dio creatore si accompagna infatti con la radicale estremizzazione dell’aspetto per cui religione significa liberazione, redenzione. La rivoluzione marxista mantiene l’aspetto di religione per la conversione che essa implica come passaggio a una realtà superiore, totalmente altra, anche se non affatto trascendente o soprannaturale. Credo che sotto questo riguardo il termine di secolarizzazione sia più adeguato rispetto a tanti discorsi che furono fatti e che hanno finito col tediare sul messianismo, millenarismo, profetismo del marxismo o sulla presenza inconscia nell’animo di Marx di archetipi religiosi.

È da osservare che l’idea della convenienza prioritaria al marxismo del termine di secolarizzazione includa in sé anche quel che c’è di valido nell’interpretazione del marxismo in termini di nuovo gnosticismo, così che la sua comparsa a conclusione della filosofia classica tedesca segna la riapertura nell’Ottocento del conflitto tra la religiosità cristiana e una religiosità di tipo gnostico. È nei testi gnostici, infatti, che troviamo l’idea di due mondi ognuno dei quali ha il suo Dio, e quella che il vero Dio è il Dio del mondo “nuovo”, di un mondo di là da venire, del tutto contrario al mondo presente in cui l’uomo vive come uno “straniero”. Il “futuro” o l’“avvenire” dei rivoluzionari sembra la traduzione moderna del “vero” Dio degli gnostici. Così che sembra si abbia l’autorizzazione a parlare nei riguardi del pensiero rivoluzionario, di una gnosi “postcristiana”, vale a dire di una gnosi rinnovata dopo l’affermazione cristiana della trascendenza dell’uomo alla natura, e passata quindi da una veduta cosmologica a una antropologica.

Il discorso dovrebbe qui naturalmente venire allargato, ricevendo nuove prove; si potrebbe illustrare come nel suo tentativo di risolvere il cristianesimo in filosofia Hegel avesse incontrato la gnosi; e ciò era già stato osservato nei primi decenni dell’Ottocento. Se noi guardiamo alle tesi delle varie teologie della secolarizzazione è abbastanza facile accorgersi come l’occasione storica del loro sorgere sia sempre da cercare in un giudizio sulla storia contemporanea e un giudizio generalmente favorevole alla rivoluzione marxista; o all’idea del processo irreversibile per cui nel corso dei secoli moderni si è affermata la mondanità del mondo.

Per questa ricerca di compromesso con la modernità intesa come processo irreversibile basterebbe considerare quelle delle loro tesi che sono venute a far parte del patrimonio comune della cultura. Le forme della teologia della secolarizzazione, tutte fondate sulla distinzione tra secolarizzazione e secolarismo, oscillano tra la risoluzione più o meno dissimulata della religione nel pensiero rivoluzionario e una distinzione, che in realtà è separazione, tra il temporale e il sacro, che riduce la grazia a una aggiunta che non si riesce a capire come possa inserirsi nella nostra vita.

Ma, ora, se per un verso si può dire che il marxismo – e qui concordo con Lukàcs, Bloch, Gramsci – si presenta come il punto più alto della modernità quando questa venga intesa nel senso di un rifiuto della dipendenza e che in questo senso debba anche venire intesa la sostituzione del materialismo al sempre teologico immanentismo (Deus manet in nobis), tuttavia esso rappresenta pure la crisi della modernità, crisi non superabile perché il marxismo va soggetto a decomposizione, ma non è passibile di inveramento, e in questa crisi si può vedere esattamente quel correre sullo stesso binario della storia delle idee e della storia di fatti che Bobbio nega.

Osservazione: il marxismo si presenta infatti come la maggiore sintesi di opposti StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 155 che mai si sia data nella storia del pensiero. Del massimo dell’utopia del massimo del realismo politico. Dell’estremo materialismo ed insieme del pensiero dialettico, liberato dalle remore che portavano al sistema chiuso. E l’idea della rivoluzione totale importa questa sintesi degli opposti. Del massimo dell’utopia, e infatti non a caso, a differenza di altri utopisti, Marx non indugia nella descrizione della società futura, e si limita genericamente a darne i caratteri per via negativa: ciò perché la sua società futura è pensata come talmente altro rispetto all’esistente che cercare di descriverne i caratteri sarebbe cadere nella fantasticheria; dunque si deve parlare nel suo riguardo non di utopismo moderato che pensa ad una realtà presente liberata dalle contraddizioni e che è l’utopismo che egli critica, ma di utopismo portato all’estremo per cui la realtà nuova deve generarsi in conseguenza dello scoppio delle contraddizioni.

Al tempo stesso viene portato all’estremo il momento del realismo politico perché la rivoluzione totale, perché totale, non può avvenire in nome di valori universali già presenti nella realtà da evertire, di libertà e di giustizia, ma per il movimento stesso della realtà; il materialismo di Marx è appunto negazione di valori etici universali, in nome della rivoluzione totale.

L’inglobamento dei valori nell’unico valore della rivoluzione non può non portare alla totale dissoluzione dell’etica nella politica. Possiamo a questo punto intendere il senso profondo di una frase pronunciata da Lenin nel corso della Rivoluzione di Ottobre, e che a prima vista può sembrare un’affermazione troppo a punta, uno slogan propagandistico enunciato in un momento di particolare tensione: “Morale è ciò che serve al successo della rivoluzione proletaria”. È tanto poco uno slogan propagandistico che sarebbe assai facile trovarne gli antecedenti nei giudizi così di Marx come di Engels rispetto all’etica e i susseguenti nelle affermazioni dei teorici del marxismo-leninismo secondo cui il criterio supremo e unico della morale comunista è ciò che è utile alla lotta per il comunismo.

Ora la storia della realizzazione del marxismo mostra come i due momenti si scindano, a favore del momento realistico-politico, portato all’estremo come totale inclusione dell’etica nella politica. In ragione del superamento della filosofia nella politica, nel suo essere cioè il marxismo, nella contrapposizione a Hegel una filosofia ante factum volta alla realizzazione di una totalità, anziché una filosofia post factum come consapevolezza di una realtà già realizzata, la nuova idea marxiana dell’uomo ha soltanto nella realizzazione storica la misura della sua validità, e potrà essere realizzata solo attraverso una rivoluzione totale, come passaggio da uno stato del mondo a uno stato contrario.

Si può trattare oggi della filosofia e dell’economia di Marx come se la rivoluzione russa non ci fosse stata? Molti hanno l’aria di pensare così, nella persuasione che una cosa è il modello, altra cosa la sua riproduzione nella realtà empirica. Ma ciò non è affatto valido nei riguardi del marxismo. In conseguenza della sua negazione di verità assolute, Marx deve porre il criterio di verità della sua filosofia nella verifica sperimentale, nel risultato storico cui ha dato luogo (si ricordi la celebre seconda tesi su Feuerbach).

Ci si può domandare se questa verifica ci sia stata. C’è un’interpretazione trotzkista per cui la rivoluzione era iniziata bene con Lenin nel ’17 e negli anni successivi, ma era poi stata tradita da Stalin. C’è un’altra interpretazione periodicamente riaffiorante che intende dissociare marxismo e leninismo: le radici della cultura e dell’opera pratica di Lenin dovrebbero essere cercate nel “populismo rivoluzionario russo” dal cui incontro il marxismo sarebbe stato completamente trasfigurato.

Per altro avviso Lenin avrebbe introdotto sin dal Che fare? del 1903 nel marxismo la teoria delle élites in esso contraddittoria; il suo volontarismo e soggettivismo contrasterebbero con quel rispetto delle leggi della storia che è necessario perché si possa parlare di una rivoluzione marxista. Per tutte queste interpretazioni il marxismo diventa o una specie di fantasma che non si sa quando mai avrà occasione di provarsi con la storia oppure un’utopia ottocentesca che il più maturo pensiero occidentale avrebbe definitivamente liquidato. Dissento da questo punto di vista: il marxismo non poteva a mio giudizio realizzarsi che nel preciso modo in cui si è realizzato, cioè che la sua verifica c’è stata, in quanto alla potenza, e insieme la smentita, in quanto a risultato.

La vecchia tesi di Lukàcs su Lenin come il maggior pensatore che il movimento rivoluzionario abbia avuto da Marx in poi, e come colui che ha ristabilito la dottrina di Marx nella sua purezza, mi pare ancora oggi pienamente persuasiva, anche se, naturalmente, la mia valutazione diverge completamente da quella del filosofo ungherese. Consideriamo le frasi del Che fare? che suscitarono allora maggiore scandalo negli ambienti socialisti: «la coscienza politica di classe può essere portata all’operaio solo dall’esterno» perché con le sue sole forze la classe operaia è in grado di elaborare soltanto una coscienza “tradeunionista” e che «dal punto di vista della posizione sociale, i fondatori del socialismo scientifico contemporaneo erano degli “intellettuali borghesi”».

Ossia il giudizio degli appartenenti alla classe proletaria è inquinato dalla cultura di quegli intellettuali che sono diventati i cani da guardia della borghesia e può ritrovare la sua purezza solo in seguito all’azione di intellettuali di altra specie; facile sarebbe mostrare come il giudizio di Lenin non faccia che ricalcare un passo del Manifesto. Certo, che la classe che ha avuto dalla storia il compito di attuare la redenzione universale non possa svolgerlo che sotto la direzione di una cultura che le viene dall’esterno e, di più, da intellettuali che appartengono alla classe che deve evertire, può apparire singolare; né veramente mi pare che nella storia del marxismo sia mai stata data una risposta esauriente al problema delle conversioni per cui alcuni borghesi possono sottrarsi alla “falsa coscienza” di cui sono prigionieri in ragione della loro classe.

Anche se è innegabile quel che Lenin sosteneva: la filosofia vera è immanente al proletariato soltanto in forma virtuale e confusa, non foss’altro perché non può non subire l’inquinamento che il pensiero borghese egemone della cultura gli trasmette; occorre, perché questa filosofia possa passare all’atto, l’azione di intellettuali che non sono però intellettuali comuni il cui sguardo non va oltre l’orizzonte della borghesia, ma intellettuali in possesso di una conoscenza superiore, che li renda capaci di intendere il processo della storia nella sua totalità. Dunque i nuovi gnostici che, nei tempi moderni, hanno assunto la fisionomia dei “rivoluzionari di professione”.

Eppure Lenin continua Marx e l’alternativa che egli pone è esatta: o rivoluzione resa possibile soltanto da una coscienza di classe attribuita al proletariato dall’esterno, o un riformismo che rinuncia definitivamente alla rivoluzione. Anche se, a questo punto, alla priorità della causalità materiale succede quella della “causalità ideale” e in ciò sta la legittimazione prima dell’interpretazione transpolitica della storia contemporanea.

Ora la tesi leninista si apre la via verso quel che viene detto “socialismo reale” attraverso una serie di anelli così saldamente legati che rompere la catena è impossibile: dittatura del partito sul proletariato – costituirsi sulla base del partito di una classe tecnoburocratica dai caratteri particolari – incontro con populismo russo. Su ognuno di questi punti esiste una bibliografia sovrabbondante, che ha però in generale il torto di non venire ricollegata alle premesse filosofiche di cui invece chiarisce il significato.

Quanto al discorso sul populismo russo penso non ci sia contraddizione nel riconoscere insieme che Lenin è stato il più coerente tra gli interpreti di Marx, e che la rivoluzione non poteva riuscire che incontrandosi con la tradizione populistica russa. L’intervento in quella prima guerra mondiale a cui non si poteva in alcun modo assegnare un carattere religioso, almeno da parte di quella che allora veniva detta l’Intesa, aveva rappresentato per lo zarismo un giudizio di condanna a morte che pronunciava su se stesso; aveva infatti liquidato il suo sostegno essenziale che poggiava sulla fede popolare nel primato russo per un’opera di redenzione del mondo.

È per questo tema del primato russo nella causa rivoluzionaria che Stalin si connette a Lenin; e si può dire contro di lui tutto quello che si vuole ma non che non abbia operato la giuntura (forse oggi in crisi) tra tradizione russa e marxismo; e negare che senza la sua opera nessuno oggi si ricorderebbe più del marxismo. Particolarmente importante è poi l’altro punto, la frattura tra i due momenti filosofici entrambi necessari alla rivoluzione totale, il materialismo e la dialettica. Questa frattura mostra che la decomposizione del marxismo non è stata oltrepassata e che essa coincide con la crisi della modernità.

Consideriamo infatti: in che cosa sta la contraddizione del materialismo dialettico, sostanzialmente già ben vista, nonostante la forma dissueta, ne La filosofia di Marx di Gentile del 1899? In questo: se si porta allo sviluppo estremo il momento dialettico, accolta la critica che Marx aveva opposto a Hegel e andando oltre, si deve congedare il momento materialistico; se all’opposto, si porta alle conseguenze estreme il momento materialistico si deve congedare il momento dialettico. Ora gran parte della filosofia contemporanea, o almeno quella che ha più inciso nella politica di costume, si muove in questo orizzonte.

Si pensi ad esempio alla filosofia di Gentile, che può essere anche (dico “anche” perché è suscettibile di altre definizioni che pur non contraddicono questa) intesa come sviluppo rigoroso del momento dialettico del marxismo in ciò che vuol andare oltre Hegel ed esprimersi come filosofia della prassi; si pensi per altro verso al materialismo presente nelle scienze umane e alle forme occidentali del materialismo contemporaneo.

Non dirò certo che tutte le filosofie di oggi rientrino in questa sistematizzazione e in questa crisi senza soluzione; ma penso che per uscirne davvero devono operare la critica delle idee di modernità e di secolarizzazione al cui rapporto ho sia pur brevemente accennato. Un ultimo breve accenno rispetto all’asserzione secondo cui la rivoluzione marxista, pur smentendosi, è stata però in certo senso mondiale; e non soltanto nel senso che abbia già conquistato più di un terzo del mondo. Perché è ben vero che non sono comunisti gli stati dell’Occidente, ma non si può dire che i loro popoli non abbiano sentito il contraccolpo del marxismo nella cultura e nel costume.

Il marxismo non alimenta oggi più una fede rivoluzionaria, nei comunisti stessi, ma le negazioni filosofiche che il marxismo ha pronunciato sono entrate nei giudizi correnti. Si pensi alla diffusione di parole come “alienazione” (che per altro designa un fenomeno reale, però diverso nella sua forma attuale da quello descritto dal marxismo), “mistificazione”, “falsa coscienza”, “mascheramento” o la stessa “realizzazione”; o ad altre espressioni, che se anche non sono iniziate dal marxismo rientrano nella sua scia, come “demitizzazione”, “sindrome del sospetto”, “tecnica della diffidenza”. Nichilismo è il termine oggi d’uso per significare la caduta nel mondo occidentale dei valori finora considerati come supremi.

Occorre dire che Marx non aveva affatto previsto il suo sorgere: la scomparsa della religione avrebbe dovuto coincidere per lui con il recupero da parte dell’uomo di quei poteri di cui si era alienato nel corso della storia per proiettarli su Dio. La cultura marxista è stata invece, nell’Occidente, per quel che riguarda la sua ripresa dopo la seconda guerra mondiale, produttrice di nichilismo; non è stata la sola a promuoverlo, è vero, ma la funzione che ha avuto in questo fenomeno è stata primaria e determinante.

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* Il testo è tratto dal mensile «30 Giorni», anno 8 (1990), n. 2 (febbraio), p. 68-73.

** Guido Vignelli (1954) è studioso etica, filosofia politica e scienza delle comunicazioni. Nel 1982 è stato tra i fondatori del Centro Culturale Lepanto e nel 1987 dell’associazione Famiglia Domani. Dal 2001 al 2006 è stato membro della Commissione di Studio sulla Famiglia istituita dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri. Ha tenuto vari corsi di aggiornamento per docenti ed è autore di numerosi libri.