Dopo la morte: i cristiani e l’aldilà

aldilàVita & Pensiero n. 4 luglio-agosto 2009

II giudizio finale è una verità di fede che va colta superando luoghi comuni e semplificazioni. L’insegnamento delle Scritture sulla fine del mondo, la risurrezione dei corpi, la purificazione dello spirito, la salvezza e la dannazione eterne.

di Giacomo Biffi

Il “giudizio”

«Verrà a giudicare i vivi e i morti» diciamo nel Credo. Questa formula è tra le più antiche del linguaggio cristiano ed era di uso comune nella prima comunità. E’ riportata negli Atti (10,42). La troviamo usata nella prima lettera di Pietro: «Dovranno rendere conto a colui che è pronto a giudicare i vivi e i morti» (1 Pt 4,5), e nella lettera seconda a Timoteo: «Ti scongiuro davanti a Dio e a Gesù Cristo, che giudicherà i vivi e i morti…» (2 Tm 4,4. Per gli scritti postapostolici, cfr. Barnaba, 7,2; Policarpo, ep. 2,1; 2 Clem 1,1).

Che significa questa espressione? Il significato vero è quello letterale: si vuol dire che Gesù sottoporrà al suo giudizio non solo quelli che troverà in vita alla sua venuta, ma anche tutti gli uomini del passato, che hanno già incontrato la morte. Più semplicemente si vuoi dire – attraverso l’uso semitico del binomio di totalità, che indica l’intero mediante la distinta elencazione delle parti (per esempio «il cielo e la terra», per dire «tutto») – che sarà giudicata tutta l’umanità, senza alcuna eccezione.

Oltre l’universalità delle persone, la Rivelazione ci parla di una universalità dei fatti umani: niente di ciò che è umano sfuggirà alla valutazione del giudice. Non si dovranno offrire vuote frasi adulatrici (Mi 21-23), ma si dovrà presentare la totalità delle opere compiute (Mt 16,27; Rm 2,6; 2 Cor 5,10); e non appena sulle opere saremo giudicati, ma anche sulle parole (Mt 12,36), sulle omissioni (Mt 25,35-46), sui pensieri segreti (1 Cor 4,5).

Nelle pagine della Bibbia troviamo ricordati alcuni elementi che entrano a comporre la scenografia del giudizio, in un quadro che ha sempre eccitato la fantasia, ma che chiede piuttosto di essere letto, anche nei particolari pittoreschi, secondo il suo vero significato concettuale. Il profeta Gioele colloca il giudizio in una misteriosa «Valle di Giosafat» (Gi 4,2), solo tardivamente – a partire dal IV secolo dopo Cristo – identificata con la valle del Cedron, a sud-est della spianata del tempio. Ancora oggi arabi ed ebrei ambiscono essere seppelliti sull’uno e sull’altro versante dell’avvallamento, per essere più pronti a rispondere all’ultimo appuntamento.

In realtà il nome ci rivela con molta chiarezza nella sua composizione la sua natura simbolica: «Giosafat» significa: Jahvè giudica. Del resto, poco più avanti lo stesso profeta usa un altro nome, ugualmente significativo: «Valle della Decisione» (Gi 4,14). Daniele delinea davanti a noi una vera e propria azione processuale con un giudice, una corte, i libri degli atti (Dn 7,9-10)

L’immagine del processo si conserva fino alla predicazione di Gesù, anche se si sovrappongono altre raffigurazioni, come quella del pastore che alla sera esamina attentamente il suo gregge (Mt 25,31-46). Ma, di là dai particolari fantastici, è possibile appurare come avverrà concretamente il nostro giudizio? Pensiamo di sì

Il nostro mondo è caratterizzato da una quasi totale discordanza tra i valori reali e la loro esterna apparenza, sicché non è di solito possibile assegnare agli uomini e alle cose il giusto prezzo che hanno in faccia a Dio.

Questa discordanza ha raggiunto il grado sommo – e ne è stata condannata – al momento dell’uccisione del Figlio di Dio, quando colui che era la nostra stessa «giustizia, santità, redenzione» (1 Cor 1,30), «è stato annoverato tra i malfattori» (Is 53,12). L’esecuzione di Gesù fuori della porta di Gerusalemme, cioè «fuori della vigna» che era la sua eredità (cfr. Me 12,8), raffigura e avvera la sconfitta di Dio, che oggi appare come estromesso dal mondo che è suo.

Dio è sconfitto, e non tanto dall’uomo che pecca, quanto dall’uomo che, peccando, appare bello, forte, felice, soddisfatto; mentre colui che, tentando di conformarsi alla volontà del Padre, incontra la derisione, la sofferenza, la morte, è associato al mistero della sconfitta del suo Creatore. Il momento del giudizio è appunto la fine di questo stato irrazionale e blasfemo.

Esso perciò consisterà essenzialmente nella brusca lacerazione del velo della esteriorità, così che tutta la creazione appaia «nuda e aperta» agli occhi di tutti, come è nuda e aperta da sempre agli occhi di Dio (Eb 4,13). Il suono della tromba finale – particolare del quadro che significativamente ritorna sempre nelle descrizioni bibliche della fine (Mt 24,31; 1 Cor 15,22; 1 Ts 4,15; Ap 11,15) – farà crollare la scena di questo mondo come le trombe di Giosuè squassarono, lasciandole diroccate, le mura di Gerico (Gs 6,20), e ciascuno sarà visto con la sua interiore ricchezza o con la sua interiore miseria.

Il primo che sarà «manifestato» sarà il Cristo, capo dell’universo e centro della storia umana, fino allora nascosto e quasi sopraffatto dalla futilità del mondo. E ogni essere, improvvisamente privato della maschera che impediva ogni autentico esame, apparirà nella sua vicinanza a lui o nella sua lontananza: questo sarà il giudizio. Gesù sarà dunque l’unico punto di riferimento dal quale tutto sarà misurato: per questo egli sarà il «giudice». Allora finalmente sarà rovesciato il ricamo della nostra storia, e si potranno contemplare nella loro piena evidenza la bontà, l’armonia, la saggezza del disegno condotto a compimento da Dio, che senza una fede robusta ci è così difficile ravvisare oggi nei casi della storia mondana.

Che cosa determina nella realtà la vicinanza o la lontananza da Cristo? In altre parole, su quale legge saremo giudicati? Certo, saremo giudicati sulla nostra fedeltà alla legge di Dio, perché Gesù non ha abrogato il decalogo, il quale resta per gli uomini di tutti i tempi il codice di comportamento. Ma, poiché il Signore stesso ha chiarito che la legge di Dio ha come compendio, come anima, come significato sostanziale l’amore di Dio sopra ogni altro amore e l’amore del prossimo, come inveramento concreto dell’amore di Dio, possiamo ben dire che «all’ultimo dei giorni – come si esprime san Giovanni della Croce – saremo giudicati sull’amore» (cfr. Mt 25,31-46).

Come risorgeremo?

«Tutti risorgeranno – dice il Concilio lateranense quarto – con i loro propri corpi, gli stessi che possiedono ora». È un’affermazione categorica, ma in fondo non è che l’insegnamento della Sacra Scrittura: «Da Dio ho ricevuto queste membra; queste per le sue leggi disprezzo; queste da lui spero di avere di nuovo», dice il terzo dei fratelli prima del martirio, nella narrazione del secondo libro dei Maccabei (7,11). E Paolo: «È necessario che questo corpo corruttibile si vesta di incorruttibilità e questo corpo mortale si vesta di immortalità» (1 Cor 15,53). Cristo stesso – archetipo degli uomini che rinascono dalla morte – riprende dal sepolcro lo stesso corpo che è stato spento sul Calvario.

Del resto, l’ipotesi di una risurrezione con un corpo diverso rivela una concezione dell’uomo che neppure sul piano di un’antropologia puramente razionale possiamo accettare. Tale ipotesi suppone infatti che l’anima stia nel corpo come una spada nel fodero; e che, come la spada, possa tranquillamente cambiare di fodero senza per questo mutare essa stessa.

Secondo la concezione cristiana, invece, l’anima è la «forma sostanziale» del corpo; il che significa che anima e corpo non sono due realtà diverse e giustapposte, ma due principi complementari, che con la loro intima unione danno origine all’uomo. Di più, ci sembra di dover ammettere con san Tommaso che l’anima intellettiva è l’unica «forma sostanziale» dell’uomo, sicché l’ipotesi fatta ci appare non solo teologicamente errata, ma anche filosoficamente assurda: non solo risorgeremo con il nostro identico corpo, ma neppure possiamo risorgere con un corpo diverso.

Se il fatto della identità è fuori discussione, si discute molto sul modo di concepirla. La soluzione più semplice sta forse nel capire che lo stesso principio spirituale che anima il composto umano è la vera ragione della identità corporea. Lo stesso principio spirituale che fa di ogni uomo qualcosa di unico e di inedito nell’universo determina il fatto che questo corpo sia mio e sia individuabile come mio.

Poiché è la «forma sostanziale» dell’uomo, l’anima informando qualunque materia da sempre origine allo stesso corpo, tanto che l’identità del nostro corpo è sempre salvata lungo l’arco della nostra vita, nonostante il continuo fluire degli elementi materiali. Intesa così – e forse non è possibile intenderla diversamente – la dottrina della identità scioglie immediatamente tutte le difficoltà che a prima vista essa stessa sembrerebbe provocare

Un altro interrogativo, suscitato dall’argomento che stiamo trattando, si riferisce alla condizione dei corpi risorti, che certo non potrà ripetere lo stato di miseria proprio del corpo terrestre. Da parte mia, non credo che saremo tutti come le acciughe nel barile. Io credo che effettivamente i rapporti umani ci saranno. Anche l’amicizia ci sarà.Non è il caso di anticipare con la fantasia una conoscenza che ci è stata riservata per quel giorno.

Né ci sentiamo di seguire con animo tranquillo quei teologi che dal testo di san Paolo prima citato si pensano autorizzati a precisare le prerogative del corpo glorioso nei loro particolari. Tuttavia la Sacra Scrittura ci offre un principio e un modello, come dati sicuri per una riflessione sulla sorte che attende le nostre membra.

Il principio è enunciato da san Paolo, quando ci parla di corpo «spiritualizzato» (1 Cor 15,44). Nel linguaggio dell’Apostolo questo significa che la nostra carne, che ci appare cosi spesso ribelle alla volontà di Dio, sarà docilmente sottoposta all’azione dello Spirito Santo, che tutto trasforma e assimila a sé. In altre parole, quella trasfigurazione che lo Spirito di Dio opera fin da adesso nel mondo interiore dell’uomo, si estenderà a tutto il nostro essere, così che anche esteriormente riesca visibile la nostra rinnovazione.

Il modello poi è lo stesso Gesù risorto, che dalle testimonianze apostoliche sappiamo sovranamente libero nella sua azione, senza che le cose materiali o le forze della natura gli diano impaccio alcuno, e senza che i dolori o la morte gli possano più recare alcun danno. A lui già ci siamo interiormente conformati, quando siamo passati dalla vita di colpa a quella di grazia. E a lui ci conformeremo totalmente (Fil 3,21), quando anche il nostro corpo, dopo la purificazione di una morte cristiana, obbedirà alla sua vocazione di gloria.

La discriminazione definitiva e l’inferno

Come già s’è detto, l’idea di un «giudizio» porta implicita l’idea di una discriminazione, anzi, poiché si tratta del giudizio ultimo e senza appello, l’idea di una discriminazione definitiva. La riflessione sulla glorificazione dell’uomo non può non coinvolgere dunque una riflessione simmetrica sulla dannazione dell’uomo. Difatti la stessa Rivelazione che ci parla di un premio eterno ci parla anche dì un castigo eterno: la proposta di Dio non può essere accolta con beneficio d’inventario; o l’accettiamo o la rifiutiamo in blocco. Perciò la terribile e insopportabile prospettiva di un destino di punizione e di sofferenza è necessaria per una visione non snaturata dell’escatologia cristiana.

Gesù per spiegare la condizione del dannato è ricorso soprattutto al concetto di esclusione: «la porta fu chiusa» (parabola delle vergini: Mt 25,10); «gettatelo fuori» (parabola dei talenti: Mt 25,30); «via lontani da me, maledetti» (Mt 25,41) (cfr. anche Ap 22,15). Paolo da una versione sportiva dello stesso concetto, ricorrendo all’immagine della «squalifica» (1 Cor 9,27). Occorre però capire bene quanto spaventevole sia questo «star fuori» dalla Gerusalemme celeste, che ha Iddio stesso come fonte della sua luce.

Noi riceviamo tutto da Cristo: siamo stati modellati su di lui, siamo stati creati per manifestare le sue perfezioni, riceviamo da lui continuamente l’alimento della nostra vita. Possiamo dire che tutti, anche i peccatori e gli infedeli, hanno, sia pure in diverso grado e natura, qualche legame con il Verbo incarnato: tutti infatti o sono inseriti o sono inseribili nel suo Corpo mistico. Tutti perciò sono in qualche modo raggiunti dalla sua grazia.

All’inferno, l’uomo è invece totalmente avulso da questo Corpo, pur conservando una fondamentale ordinazione a esso: il dannato continua a essere creato a immagine del Salvatore e a glorificare con il suo stesso essere colui che rinnega e bestemmia con la sua volontà; continua ad avere un’assoluta necessità di incorporarsi in colui dal quale si mantiene avulso nel suo odio ostinato.

E poiché è il nostro legame con Gesù a consentirci di essere veramente uniti tra noi, colui che è all’inferno è disperatamente solo. È separato dagli altri; dovunque vada, è un intruso. Mentre la sua natura resta una natura sociale, anzi resta chiamata a una comunione soprannaturale (perché la vocazione di Dio è senza pentimenti e rimane anche su chi l’ha rifiutata, accrescendone la disperazione), egli è tagliato fuori da qualunque convivenza d’amore, da qualunque amicizia. Anche per questo aspetto il dannato è quindi una natura che si contraddice.

Ma questa avulsione da Dio e dal Regno di Dio non è l’unica ragione di sofferenza nell’inferno, anche se è la principale. La Scrittura – in parte già l’abbiamo visto – parla frequentemente di «fuoco». È possibile intendere questo fuoco solo come una immagine che rappresenta il grande dolore di chi è perduto per sempre? La cosa è sotto il profilo strettamente esegetico del tutto improbabile.

In primo luogo non abbiamo notizia dell’uso di una tale metafora per indicare una pena puramente interiore. Inoltre tale interpretazione non sembra dare sufficientemente conto né della frequenza del termine, né del senso preciso di alcuni passi in particolare (cfr. Mt 25,41, dove il fuoco è detto «preparato» per i cattivi; Mt 13,40-42, dove il fuoco è l’unico elemento parabolico conservato anche nella spiegazione).

Ovviamente non è necessario ritenere che il fuoco infernale abbia la stessa natura del nostro. Sarà sufficiente pensare a esso come a un elemento materiale estrinseco che, in qualunque modo, influisca tormentosamente sul dannato. Ritroviamo qui in un punto particolare il generale mistero che regge l’attuale ordine di provvidenza. Il destino umano sembra governato dal principio della «trasnaturazione»: come lo spirito del giusto è divinizzato con la grazia e il corpo è spiritualizzato con la risurrezione, così la dannazione proietta l’uomo in opposta direzione, materializzandone per così dire lo spirito e sottomettendo lo spirito così materializzato alla schiavitù della materia.

Ci sono veramente dei dannati?

Non è possibile pensare che tutti si salvino? Non basta ammettere l’esistenza dell’inferno? Bisogna proprio pensare anche che ci stia effettivamente qualcuno?

La dottrina rivelata, che ci obbliga a credere nella possibilità di dannarci, evita di darci qualche indicazione numerica circa i dannati. Anzi, rigorosamente parlando, non ci impone neppure di ritenere per fede che qualche uomo di fatto ci vada. Tuttavia affermare che l’inferno sia perfettamente vuoto è asserzione infondata, incauta e superficiale.

In primo luogo non si vede in forza di quali argomentazioni si possa sostenere come positivamente probabile questa previsione. Non avendo nessun argomento «a posteriori» (per il quale, in mancanza di una Rivelazione, ci vorrebbe una esplorazione diretta), è fatale che un simile atteggiamento si appoggi, più o meno consapevolmente, su argomenti «a priori» (come la misericordia di Dio, l’impossibilità di compiere un vero peccato mortale ecc.). Ora gli argomenti «a priori», se provassero, proverebbero non solo la non esistenza ma anche la impossibilità. Il che sarebbe incompatibile con la dottrina rivelata.

In secondo luogo, la Rivelazione ci parla della effettiva riprovazione eterna dei demoni. Sicché non si eliminerebbe neppure il disagio psicologico di pensare a un essere personale prigioniero di una condizione così crudele. E dal momento che la Rivelazione richiama tanto spesso l’idea del castigo eterno, sarà meglio affidarsi a questa divina pedagogia, senza vanificarla con supposizioni che, per quel che ne sappiamo noi, non hanno fondamento.

Non dobbiamo mai dimenticare che chi ci ha parlato con più chiarezza dell’inferno, della sua pena, della sua eternità, è stato Gesù Cristo, cioè colui che più di ogni altro ha conosciuto e rivelato il cuore misericordioso del Padre e più di ogni altro ha avuto amore e compassione per gli uomini. Certo la dannazione resta una realtà misteriosa e incomprensibile. «Sarà soltanto quando saremo passati dall’altra parte che si risolveranno gli ultimi problemi, che cesserà per noi lo “scandalo”, che la bontà divina ci apparirà infinita, non soltanto in tutto ciò che essa crea, ma anche nella pazienza che le fa tollerare la rivolta delle sue creature libere.

Finché vivremo, il pensiero dell’inferno ci sconvolgerà: è una spina nel nostro cuore, che ci fa tremare di fronte ai giudizi di Dio, ci fa invocare una fede più pura, ci fa supplicare perché siano forzate le nostre volontà ribelli, perché nessuno tra gli uomini resista alle premure amorose di quella bontà infinita di cui l’apostolo scrive che è follia prenderla alla leggera (Gal 6,7)» (Ch. Journet, Il male: saggio teologico, Torino 1963, p. 246). L’inferno insomma è un pensiero insopportabile. Ma l’esistenza umana non ha un lieto fine immancabile, come nei vecchi film americani.

E il paradiso? E il purgatorio?

La risurrezione corporea è l’aspetto più appariscente ed esterno di una condizione nuova dell’umanità, che trova la sua radice e insieme la sua dimensione più profonda in un rapporto nuovo con Dio, che eccede l’ambito puramente creaturale. Gesù sembra alludervi, secondo il vangelo di Giovanni, proprio nella sua prima manifestazione, la mattina di Pasqua: «Io salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro» (Gv 20,17).

L’elemento più importante dello stato di gloria verso cui siamo incamminati sarà appunto una comunione con il Padre così forte e saziante da superare ogni attesa e ogni immaginazione. Se già la risurrezione è un evento che va oltre ogni capacità di comprensione, il possesso di Dio trascende assolutamente ogni prospettiva e pone in luce ancora più intensa la generosità del piano divino e la grandezza del destino che ci è stato assegnato.

In che cosa consisterà questa intimità con il Padre? Sarà senza dubbio una unione d’amore, e come tale ha già le sue premesse nella vita di grazia. La carità infatti – che ci assimila a Cristo nella sua perfetta adesione al Padre – è la costante che accomuna lo stato del giusto durante il cammino terrestre e la sua condizione finale, ed è ciò che ci consente di essere già adesso nella «vita eterna», secondo l’insegnamento di Giovanni. Perciò san Paolo dice: «La carità non avrà mai fine» (1 Cor 13,8).

La differenza sta nel fatto che l’amore del cristiano sulla terra nasce da una conoscenza che è sì soprannaturale e divinizzante, ma è velata e indiretta; nasce cioè dall’atto di fede, che è la radice e il fondamento di tutta la vita battesimale. Invece l’amore dell’uomo glorificato scaturirà dalla visione immediata di Dio. Dio che, secondo l’insegnamento biblico, è l’Invisibile e l’Inaccessibile, sarà contemplato senza intermediari: «La nostra conoscenza è imperfetta e imperfetta la nostra profezia. Ma quando verrà ciò che è perfetto, quello che è imperfetto scomparirà.

Quand’ero bambino, parlavo da bambino, ragionavo da bambino. Ma, divenuto uomo, ciò che ero da bambino l’ho abbandonato. Ora vediamo come in uno specchio, in maniera confusa, ma allora vedremo a faccia a faccia. Ora conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente, come anch’io sono conosciuto» (1 Cor 13,9-12). La contemplazione diretta di Dio porrà nella massima evidenza il nostro stato di creature divinizzate e di figli che entrano in possesso della loro eredità.

E come il battesimo inizia in noi la presenza di una vita e di una ricchezza «ecclesiali», così la suprema fioritura di questa vita ci troverà partecipi di una «città santa», di un «popolo nuovo», della «Chiesa escatologica», insomma: «Vidi la città santa, la nuova Gerusalemme, scendere dal cielo, da Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo. Udii una voce potente che usciva dal trono: Ecco la dimora di Dio con gli uomini! Egli dimorerà tra di loro ed essi saranno il suo popolo ed egli sarà il Dio-con-loro. E tergerà ogni lacrima dai loro occhi: non ci sarà più la morte, né lutto, né lamento, né affanno, perché le cose di prima sono passate» (Ap 21,2-4). Vedremo dunque Dio «a faccia a faccia» e sarà una conoscenza ben diversa da quella che oggi ci è consentita.

Quanto al purgatorio, è una cosa, da un certo punto di vista, molto semplice. Nel disegno di Dio bisogna purificarsi, non basta dire: io ho sbagliato. Sono però da considerarsi errate le tendenze della pietà popolare e di una certa teologia che ha interpretato il purgatorio co me un piccolo inferno. Il clima del purgatorio è la serenità. Le anime sono in grazia di Dio.

Il cardinale Schuster diceva che il purgatorio è come un corso di esercizi spirituali: uno riflette, pensa, vede le cose sbagliate che ha fatto, gli dispiace, si purifica. Mi piace pensare che il nostro purgatorio, il purgatorio di ciascuno, sia quello di vedere tutte le stupidaggini che abbiamo fatto nella vita. Mi è congeniale in questo senso la descrizione dantesca delle anime «che vanno a farsi belle».

La fine del mondo

Le narrazioni del Nuovo Testamento circa l’ultimo giorno parlano tutte di uno sconvolgimento cosmico terrificante. Citiamo per esempio la seconda lettera di Pietro: «II giorno del Signore verrà come un ladro; allora i cicli con fragore passeranno, gli elementi consumati dal calore si dissolveranno e la terra con quanto c’è in essa sarà distrutta» (2 Pt 3,10) (cfr. anche Mt 24,29; Ap 6,12-14). Ma è difficile assegnare un contenuto preciso a queste descrizioni, che appartengono al genere letterario apocalittico e non devono essere prese alla lettera.

Quanto alla data, è sempre stata oggetto di curiosità viva e morbosa in tutte le epoche della storia cristiana. San Paolo aveva già bisogno di ammonire severamente su questo punto la comunità di Tessalonica, che nella convinzione della imminente fine aveva a buon conto smesso di lavorare. In particolare, l’apostolo raccomanda – e non solo ai Tessalonicesi, visto che anche ai nostri tempi ogni tanto questo stato d’animo rinasce – che non ci si debba attenere a rivelazioni private o ad annunci divini o a lettere apostoliche che dichiarano prossimo il giorno del Signore (2 Ts 2,2).

Se c’è una cosa chiara nella Rivelazione, è la non conoscibilità della data: il Padre se l’è riservata come un segreto geloso e ogni notizia che circola a questo proposito non può certo essere considerata di provenienza divina: «Quanto a quel giorno o a quell’ora, nessuno li conosce, neanche gli angeli del ciclo, e neppure il Figlio, ma solo il Padre» (Mc 14,32).

Resta da vedere se la Rivelazione ci indichi chiaramente dei segni premonitori della fine. Il segno che più ha colpito la fantasia popolare è la venuta di uno speciale nemico di Gesù che l’apostolo Giovanni chiama appunto Anticristo (1 Gv 2,18) e che san Paolo qualifica come l’Uomo del peccato, il Figlio della perdizione, l’Avversario, l’Iniquo (2 Ts [Tes] 2,3-10). Egli si manifesterà negli ultimi tempi e sarà distrutto dall’alito della bocca del Signore e dallo splendore della sua venuta (2 Ts 2,8).

Ma se la comparsa di questo misterioso personaggio è certa, la sua natura è discussa, e gli uomini di tutte le epoche non hanno mancato di riconoscerlo in qualche abominato contemporaneo. Già san Giovanni, dicendo che «gli anticristi sono molti» (1 Gv 2,18), pone le premesse per una interpretazione collettivistica, che riconosca questo avversario di Dio in tutte le forze del male agenti lungo la storia, le quali si scateneranno con particolare violenza prima della loro finale eliminazione. In connessione con l’«Uomo di iniquità», san Paolo parla anche di «apostasia» che dovrà colpire i cristiani, senza offrirci però nessuna notizia particolare (2 Ts 2,1).

Nel discorso escatologico, poi, Gesù ha preannunciato l’universale predicazione del vangelo in tutto il mondo abitato, e solo dopo, ha detto, «verrà la fine» (Mt 24,14}. Ma poiché il contesto sembra riferirsi piuttosto alla distruzione di Gerusalemme, anche questa profezia deve considerarsi compiuta con la missione apostolica in tutto il mondo greco-romano. Infine san Paolo predice in termini abbastanza espliciti la conversione della nazione giudaica, che avrebbe dovuto essere la prima a entrare nel Regno e che invece sarà l’ultima, secondo un oscuro e sapiente piano di provvidenza (Rm 11, 25-36). Ma non ci dice nulla sulla vera natura e sulle modalità di questo ritorno.

Come si vede, nessuno di questi segni è tale da togliere o sminuire il carattere di «sorpresa», così ripetutamente attribuito dal Libro Sacro all’ultimo giorno della nostra storia.

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Giacomo Biffi è arcivescovo emerito di Bologna. E’ autore di numerose pubblicazioni a carattere teologico e catechistico; fra le più recenti ricordiamo: Le cose di lassù. Esercizi spirituali con Benedetto XVI (2007); Memorie e digressioni di un italiano cardinale (2007); Corso inusuale di catechesi (2007); Pecore e pastori. Riflessioni sul gregge di Cristo (2008); Lo spirito della verità. Riflessioni sull’evento pentecostale (2009)