Tra i sussurri e le grida la verità della storia

ragioni_coverL’Osservatore Romano lunedì-martedì 27-28 luglio 2009

di Roberto Pertici

(Università di Bergamo)

Un problema percorre molti saggi compresi nel volume In difesa di Pio XII. Le ragioni della storia (a cura di Giovanni Maria Vian, Venezia, Marsilio, 2009, pagine 168, euro 13): il mutamento di giudizio sulla figura di Pio XII, sul suo atteggiamento durante il secondo conflitto mondiale e di fronte allo sterminio degli ebrei europei, che si verificò intorno al 1960.

Il punto di svolta è costituito dalla rappresentazione berlinese di Der Stellvertreter di Rolf Hochhuth, il 20 febbraio 1963: il dramma sarebbe stato in seguito messo in scena a Londra il 25 settembre, a New York il 26 febbraio 1964 e a Roma il 13 febbraio 1965 e poi pubblicato un po’ in tutte le lingue.

Fino ad allora — si ripete — i giudizi erano stati generalmente positivi, spesso molto positivi, anche da parte dei principali esponenti dell’ebraismo internazionale e dello Stato d’Israele. È vero: chi, per fare solo un esempio, ripercorra i dibattiti dell’Assemblea costituente italiana, si imbatte di continuo in ampi riconoscimenti all’operato della Chiesa cattolica negli ultimi anni del fascismo, in quelli della guerra e poi dell’occupazione nazista: «Perché in Italia c’è la pace religiosa? — si chiedeva forse il massimo esponente del laicismo italiano di allora, l’azionista Piero Calamandrei nel suo discorso del 20 marzo 1947 contro l’articolo 7 —

Perché a un certo momento, negli anni della maggiore oppressione ci siamo accorti che l’unico giornale nel quale si poteva ancora trovare qualche accenno di libertà, della nostra libertà, della libertà comune a tutti gli uomini liberi, era “L’Osservatore Romano”; perché abbiamo sperimentato che chi comprava “L’Osservatore Romano” era esposto ad essere bastonato; perché una voce libera si trovava negli “Acta diurna” dell’amico Gonella; perché, quando sono cominciate le persecuzioni razziali, la Chiesa si è schierata contro gli oppressori (Approvazioni) in difesa degli oppressi; perché quando i tedeschi ricercavano i nostri figliuoli per torturarli e fucilarli, essi, qualunque fosse il loro partito, hanno trovato rifugio — ve lo attesta un babbo — nelle canoniche e nei conventi».

Tuttavia già in quegli anni si erano introdotte note dissonanti: molto attiva in tal senso fu la propaganda sovietica, che aveva iniziato a produrre decine di opuscoli contro la politica vaticana degli anni Venti e Trenta e durante il conflitto appena trascorso, presentandola tutta in blocco come connivente con i fascismi e poi in qualche modo complice della progettata egemonia nazista.

Sembra che la maggior parte delle tesi poi drammatizzate ne Il vicario fossero rinvenute da Hochhuth nel volume dello storico sovietico Mikhail Marcovich Scheinmann, Der Vatikan im zweiten Weltkrieg, pubblicato in russo dall’Istituto storico dell’Accademia sovietica delle scienze e tradotto poi in tedesco (1954) e anche inglese (1955). Scheinmann non era ignoto al pubblico italiano: la sua opera precedente, Il Vaticano tra due guerre, era stata pubblicata dalle Edizioni di cultura sociale — una delle case editrici del Pci — nel 1951, con una prefazione dello storico Giorgio Candeloro, che allora era militante comunista.

A cosa era dovuta questa massiccia campagna antivaticana? I dirigenti dell’Urss avvertivano nell’anticomunismo di Pio XII uno dei principali ostacoli alla loro politica, al tempo stesso minacciosa e suadente, verso l’Europa occidentale; ma sicuramente c’era anche dell’altro.

Nel suo saggio, Paolo Mieli parla di «cattiva coscienza», cioè del tentativo da parte della dirigenza sovietica di occultare le proprie gravi responsabilità di fronte alla politica di sterminio portata avanti dai nazisti, in primo luogo nell’Europa orientale.

È ormai stato documentato che in tutti i discorsi pubblici da lui pronunziati durante la guerra, Stalin citò gli ebrei una sola volta, ignorando in modo sistematico le violenze dei nazisti nei loro confronti. Nei quasi due anni che vanno dall’invasione tedesca della Polonia all’inizio dell’operazione Barbarossa nel giugno del 1941, la stampa sovietica — in questo periodo l’Urss era praticamente alleata con Hitler — evitò qualsiasi resoconto su ciò che stava accadendo agli ebrei nella Polonia occupata dai nazisti. In questo modo gli ebrei sovietici restarono nella più completa ignoranza sul destino che sarebbe toccato loro in sorte e la natura specifica della violenza razziale — anche nel momento in cui dilagava sul territorio sovietico — fu minimizzata.

Di recente un acuto storico inglese come Michael Burleigh ha sottolineato la trascuratezza della storiografia nei confronti delle risposte sovietiche alla Shoah, se paragonata alla vastità della letteratura dedicata alle nazioni neutrali e alle democrazie occidentali — e, possiamo aggiungere, alla Santa Sede. Ancora Mieli aggiunge che la «leggenda nera» di Pio XII non è nata nell’ambiente ebraico, ma in quello anglosassone e protestante: anch’esso aveva tardato a prendere coscienza di quanto stava accadendo in Europa.

Il cosiddetto telegramma Riegner dell’8 agosto 1942, che forniva le prime informazioni — sia pure in modo ancora ipotetico — sulla «soluzione finale» fu accolto con grande scetticismo dall’establishment americano, che solo nel dicembre successivo si decise a una prima dichiarazione nel merito.

Ma mi è capitato di leggere di recente l’autobiografia di uno dei più diretti collaboratori di John Fitzgerald Kennedy negli anni della sua presidenza, lo storico Arthur M. Schlesinger jr., che conferma tali incomprensioni: l’Office of Strategic Service, presso cui lavorava dopo il 1943 in qualità di analista politico, si pose il problema di cosa fosse la «soluzione finale», senza arrivare a vere conclusioni e limitandosi ad una considerazione in termini di semplice «persecuzione» e non di «sterminio»: «Forse — ricorda Schlesinger — eravamo talmente assorbiti dalla sordida minaccia della guerra, che non ci focalizzammo su questo inesprimibile abominio. È anche possibile che l’idea di uno sterminio di massa fosse così al di là della normale capacità di comprensione degli americani di impedirci istintivamente di credere alla sua esistenza».

Se ormai è abbastanza noto il ruolo che ha svolto del denunziare i cosiddetti «silenzi» di Pio XII una serie di cattolici «inquieti» nei primi anni del dopoguerra — esiste in merito un saggio di Giovanni Maria Vian che documenta le posizioni di Mounier e di Mauriac in Francia, in Italia di Carlo Bo — va ricordato che tali temi emersero largamente anche nelle grandi polemiche anticlericali che si svilupparono in Italia negli ultimi anni del pontificato pacelliano: le ritroviamo, per esempio, nel noto volume di Ernesto Rossi, Il manganello e l’aspersorio del 1957.

Ma perché questi «sussurri» diventarono «grida» dopo il 1963? Il dramma di Hochhuth è di lettura impervia e, se rappresentato integralmente, di una durata sterminata — in Italia, Gian Maria Volonté dovette operare numerosi tagli per renderlo digeribile. In un dibattito parlamentare del marzo del 1965, un laico come il liberale Giovanni Malagodi ebbe a definirlo «un dramma teatrale grossolano nella sua natura». Come mai allora il suo impatto fu così devastante? Perché nel frattempo si era verificato un decisivo mutamento di sfondo culturale, che avrebbe condizionato tutto il dibattito successivo.

Non c’è dubbio che il processo Eichmann, svoltosi negli anni immediatamente precedenti, aveva riproposto di fronte a tutta l’opinione pubblica internazionale — specialmente alle generazioni che non avevano conosciuto la guerra — la tragedia dello sterminio e quindi dato una nuova centralità alla Shoah. Ma soprattutto si stava allora affermando nei Paesi dell’Europa occidentale e negli Usa una cultura che possiamo definire — con mille virgolette — «progressista», che tracciava una determinata linea di progresso nella storia, individuando nel contempo le forze che premevano in quella direzione e quelle che vi facevano resistenza.

Questa nuova cultura si basava essenzialmente su un giudizio intorno alla storia contemporanea, che possiamo così sintetizzare: tutto il vecchio mondo è confluito nei fascismi; la loro liquidazione definitiva comporta anche una resa dei conti con quei valori e con quelle strutture «tradizionali» che ad essi hanno dato appoggio o, comunque, ne hanno favorito l’ascesa. In questo contesto Il vicario di Hochhuth finiva per non riguardare soltanto Pio XII: esso metteva in discussione il ruolo svolto dalla Chiesa cattolica nell’intera storia del Novecento, contribuendo potentemente a mutare l’opinione fino ad allora prevalente.

Negli stessi anni — ci sono in merito osservazioni importanti nei saggi di Andrea Riccardi e dello stesso Vian — un’operazione parallela a questa veniva svolta da alcuni ambienti che potremmo chiamare — anche qui le virgolette sono d’obbligo — di «progressismo cattolico»: il problema dei «silenzi» di Pio XII rientrava nella più generale questione costituita — a giudizio di questi ambienti — dal favore che la Chiesa avrebbe accordato ai movimenti fascisti.

Esso non poteva essere considerato — si sosteneva — come un fatto accidentale, senza ragioni lontane. Ne emergeva una visione critica della storia della Chiesa in età moderna, nella quale si cominciava a vedere essenzialmente un limite: l’istituzione ecclesiastica si sarebbe posta generalmente dalla parte della «reazione», per cui le sue illusioni rispetto al fascismo altro non sarebbero state che la conclusione di un lungo processo.

Questo errore corrispondeva, nelle sue radici ultime, a un difetto teologico che risaliva alla riforma cattolica e al concilio di Trento: da qui la necessità di una complessiva rifondazione teologica ed ecclesiale e le speranze nel concilio Vaticano II. Anche su queste basi nasce quell’«ermeneutica della discontinuità» nella valutazione del concilio, di cui tanto si è discusso in questi ultimi anni. Insomma la posta in gioco nei dibattiti su Pio XII è — come si vede — assai rilevante: s’intende perché da allora la bibliografia sulla sua figura sia diventata sterminata e difficilmente controllabile da qualunque studioso.

Quale contributo fornisce, allora, questo volume? Innanzitutto sarebbe fuor di luogo chiedergli nuova documentazione o prospettive di ricerca radicalmente innovative: si tratta — come ha dichiarato il suo curatore — di una raccolta di testi di alta divulgazione pubblicati precedentemente su «L’Osservatore Romano» e poi spesso riscritti o rielaborati dai diversi autori — a essi sono aggiunti alcuni importanti interventi di Benedetto XVI sulla figura di Papa Pacelli e sul suo ruolo nella storia del Novecento.

Ciò non toglie che ne emergano tutta una serie di suggestioni degne di nota: nell’attività storiografica, il corretto ragionamento è altrettanto importante del momento della ricerca documentaria. Il saggio di Andrea Riccardi offre un’ampia riflessione sulle varie fasi dell’attività e del magistero di Eugenio Pacelli prima e poi di Pio XII, accennando a un tema da lui sviluppato anche altrove — per esempio nell’introduzione al suo ultimo libro L’inverno più lungo. 1943-44: Pio XII, gli ebrei e i nazisti a Roma — e che a me pare assai rilevante nel nostro discorso: quello della debolezza «politica» della Chiesa in un mondo di Stati, lacerato dai nazionalismi.

Una Chiesa solo apparentemente forte, ma politicamente non è mai tale, poiché non controlla nessun territorio e deve fare i conti con poteri in loco, spesso di carattere autoritario o totalitario. Questa — per lo storico — è la sua realtà nel lungo periodo, oltre i miti in un senso o nell’altro.

Chi ragiona della politica di Pio XII dal 1939 al 1945 non può prescindere da questo sfondo: deve condurre un’analisi differenziata dei vari contesti europei, in relazione ai vari episcopati, alle personalità dei nunzi e alla natura dei governi di fronte ai quali ebbe a trovarsi l’azione della Santa Sede.

Mentre per il Vaticano fu praticamente impossibile esercitare una qualche forma di influenza laddove i nazisti avevano un dominio diretto — quindi in Olanda, in Belgio, nella Francia occupata, in Polonia, in Ucraina, nella Russia conquistata, oltre che naturalmente in Germania — in alcuni degli Stati satelliti del Terzo Reich — specie se dichiaratamente confessionali — e in alcuni degli Stati alleati di Hitler, i suoi interventi un qualche risultato lo ottennero: talora riuscirono a posporre o a ritardare la deportazione di centinaia di migliaia di ebrei una parte dei quali nel frattempo poté essere salvata.

Nella Slovacchia governata dal discusso monsignor Jozef Tiso, fra l’ottobre 1942 e l’autunno 1944 la deportazione venne sospesa per le continue pressioni del nunzio Giuseppe Burzio e della segreteria di Stato vaticana: si tratta di un caso pressoché unico nella storia della Shoah. Discriminati ma non deportati furono anche gli ebrei ungheresi, almeno finché restò al governo il protestante Miklós Horthy (cioè sino al 23 marzo 1944) e anche qui è nota l’azione svolta, prima e dopo quella data, dal nunzio monsignor Angelo Rotta.

Minore smalto ebbe probabilmente l’intervento della Santa Sede nella Francia di Vichy, ma resta il fatto che l’ebraismo francese — con quello italiano — è stato uno di quelli che percentualmente sono stati meno devastati dalla persecuzione nazista e che questo fu dovuto a un «contesto», in cui la presenza ecclesiastica ebbe un notevole peso.

È merito di una serie di contributi quello di ricercare un approccio «totale» alla figura di Pio XII, la cui attività e il cui pensiero non possono essere limitati agli anni del secondo conflitto mondiale, ma valutati in tutta la loro complessità, dai primi passi del giovane monsignore romano fino alla fine degli anni Cinquanta — una prospettiva aperta da Riccardi negli anni Ottanta e continuata, per esempio, da Philippe Chenaux nella sua biografia del 2003.

Così l’arcivescovo Rino Fisichella cerca di sintetizzare la risposta pacelliana alle sfide della «modernità», nella consapevolezza che essa non è un valore in sé, ma appunto una sfida a cui rispondere in modo articolato e consapevole di una tradizione, che non può essere dismessa. La «cultura» — compatta ed enciclopedica — di Pio XII è saggiata da diverse prospettive dall’arcivescovo Gianfranco Ravasi, che ricorda — fra i tanti spunti del suo saggio — il discorso del 6 dicembre 1953 all’Unione dei giuristi cattolici italiani, in cui offrì una teorizzazione della tolleranza religiosa, che prelude in qualche modo ai documenti conciliari.

Il cardinale Tarcisio Bertone ripercorre l’azione diplomatica di Pacelli nunzio, segretario di Stato e romano pontefice. Anche qui mi limito a un’osservazione: Bertone sottolinea l’importanza del viaggio negli Stati Uniti che il cardinale Pacelli compì nell’autunno del 1936 (Carissimo Cardinali suo Transatlantico Panamerico Eugenio Pacelli feliciter redenti: questa fu la dedica che Pio XI gli fece al suo ritorno).

Nonostante la massa documentaria messa a disposizione dal volume di Ennio Di Nolfo del 1978, forse non si è ancora messa del tutto a fuoco l’importanza del precoce vincolo fra Pacelli e gli Usa — Chenaux parla di «alleanza morale» fra la Santa Sede e gli Stati Uniti nel decennio successivo. Non è un problema indifferente al nostro discorso: gli Usa di Roosevelt sono un altro mondo rispetto alla Germania di Hitler e — direi — all’Europa continentale per lo più in mano a Stati autoritari.

Qualcosa cambia nelle coordinate di fondo del cardinale romano, nella sua complessiva visione dei problemi mondiali. Il segretario di Stato ricavò una forte impressione dalla realtà americana, dal suo «dinamismo» e dalle sue potenzialità: cominciò a prender coscienza di un modello di società diverso da quello tedesco, con cui aveva avuto, da sempre, profonda familiarità.

Dopo la guerra, Pio XII non divenne — lo si ripete anche in questo volume —il «cappellano dell’Occidente», ma indubbiamente fu una delle voce più notevoli del vario anticomunismo europeo. Anche a questo proposito credo che ci si debba liberare da un certo anti-anticomunismo, residuo culturale degli anni Sessanta e Settanta.

L’anticomunismo — come d’altronde l’antifascismo — fu un movimento estremamente variegato nei temi, nei punti di riferimento culturale e nelle prospettive politiche: esso quindi deve essere disaggregato e valutato nelle sue varie componenti. Ma riprendendo il titolo di un noto libro di John Lewis Gaddis, We now know: dopo l’apertura degli archivi sovietici, è difficile imputare — per fare solo un esempio — ai vescovi tedeschi di avere fortemente sostenuto la politica atlantica ed europeista di Adenauer, resistendo alle sirene neutraliste e pacifiste di Stalin — e ciò in piena sintonia con le indicazioni del Papa. Infine questo volume testimonia la possibilità di un fecondo incontro fra la cultura cattolica e quella ebraica anche su questi temi spinosi.

Particolarmente toccanti sono le pagine di Saul Israel che vi vengono ripubblicate: si tratta di riflessioni e ricordi dell’«ebreo di Salonicco», come lo chiamava Arturo Carlo Jemolo, nate nel convento di Sant’Antonio in via Merulana nell’aprile del 1944, dove riuscì a salvarsi dalla persecuzione nazista.

Ancora Israel aveva rievocato, in un saggio apparso su «Studium», nell’ottobre 1950, la figura di Giulio Salvadori e il suo rapporto aperto e simpatetico con la tradizione ebraica: il poeta dell’«umile Italia» fa parte di una linea di filosemitismo, che — sia pure minoritaria — è presente nel cattolicesimo italiano degli ultimi due secoli e che deve essere ricuperata e adeguatamente valutata.

Si è cominciato a farlo col recente volume di Valerio De Cesaris, Pro Judaeis, ma molte figure devono essere ancora recuperate: senza questo retroterra, è difficile capire fino in fondo lo «Spiritualmente siamo tutti semiti» del lombardo e manzoniano Achille Ratti.

 E nel 1939 l’ebreo Emanuel Celler scrisse al Congresso

L’impegno della Santa Sede e di Pio XII per la giustizia e la pace nel mondo ebbe significativi riconoscimenti da parte ebraica anche prima dello scoppio della seconda guerra mondiale. «Pio XII si sta attivando per portare la pace in un mondo minacciato dalla guerra. Egli ci ha teso una mano di amicizia. Afferriamola e ristabiliamo quindi le relazioni diplomatiche».

Con questi toni inequivocabili Emanuel Celler, membro del Congresso statunitense e rappresentante della comunità ebraica di New York, si rivolgeva al segretario di Stato americano Cordell Hull in una lettera del 24 luglio del 1939. Lo ha ricordato, in un’intervista rilasciata ad Amedeo Lomonaco della Radio Vaticana, don Giovanni Caputa vicedirettore dell’Istituto teologico salesiano Ratisbonne di Gerusalemme nonché segretario della delegazione vaticana nella Commissione bilaterale Santa Sede – Israele.

Nel documento risaltano l’importanza della religione «nel preservare la democrazia contro le spietate incursioni di fascismo, nazismo e comunismo» e l’alto valore riposto dalla Santa Sede in valori quali la giustizia e la carità. La lettera di Celler caldeggia anche il ristabilimento delle relazioni diplomatiche tra la Sede apostolica e gli Stati Uniti; relazioni che erano state stabilite il 15 dicembre 1784 sotto Pio VI, ed erano quindi state interrotte con la presa di Roma del 20 settembre 1870. Significativa qui risulta anche l’asserzione di Celler sull’antisemitismo che egli sa non essere mai stato condiviso dai «rappresentanti della Chiesa cattolica».

(raffaele alessandrini)