I malintesi sul dialogo interreligioso

Ilaria MoraliZENIT il mondo visto da Roma – Servizio quotidiano

18 e 19 gennaio 2005

Intervista con Ilaria Morali, specialista in Teologia della Grazia

ROMA, martedì, 18 gennaio 2005 (ZENIT.org).- Il concetto di dialogo con le altre religioni necessita di alcuni chiarimenti, afferma a ZENIT la teologa Ilaria Morali. Specialista in Teologia della Grazia, docente ordinaria di Teologia Dogmatica presso la Facoltà di Teologia della Università Pontificia Gregoriana, la Morali tiene corsi sulla salvezza, le religioni non cristiane e il dialogo inter-religioso.

In questa intervista concessa a ZENIT, la teologa spiega gli insegnamenti emersi dal Concilio Vaticano II sul dialogo con le altre religioni e fa delle distinzioni fra quelli che sono i documenti dottrinali e i testi pastorali.

La Morali, una cattolica laica, attribuisce una particolare importanza alla dichiarazione Dominus Iesus , pubblicata dalla Congregazione per la Dottrina della Fede nel 2000 per affermare “l’unicità e l’universalità salvifica di Gesù Cristo e della Chiesa”.

La prima volta che il termine “dialogo” entra in un documento del Magistero è il 19 settembre del 1964, 40 anni fa. Da quel momento in poi possiamo dire che inizia una dottrina del dialogo?

Vorrei rispondere in due tempi: dapprima con alcune precisazioni di carattere storico, successivamente entrando nel merito stesso della sua domanda. Le precisazioni: L’Enciclica Ecclesiam Suam di Paolo VI in realtà è stata promulgata il 6 agosto 1964 e distribuita ai Padri che partecipavano al Concilio Vaticano II il successivo 15 settembre. Si badi bene: noi oggi quando parliamo di dialogo intendiamo quasi esclusivamente il dialogo inter-religioso, ma in una visione più completa ed equilibrata, qual è quella propostaci da Paolo VI, esso costituisce solo un aspetto del dialogo Chiesa-mondo.

In rapporto al dialogo inter-religioso, l’intervento di Paolo VI si colloca quindi in un momento cruciale tra l’istituzione del Segretariato per i non cristiani avvenuta nel maggio 1964 (ora noto come Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso), e la promulgazione della Costituzione Dogmatica sulla Chiesa, Lumen Gentium (21 novembre 1964). Un anno prima dell’uscita della Dichiarazione Nostra Aetate (28 ottobre 1965) e del Decreto Ad Gentes (7 dicembre 1965). La Lumen Gentium è dunque il primo documento magisteriale a presentare un intero numero dedicato ai non cristiani (n.16).

Possiamo perciò dire – e con ciò entro nel cuore della sua domanda – che una dottrina del dialogo prende corpo nei suoi principi essenziali con l’ Ecclesiam Suam promulgata quando il testo di LG 16 era ormai nella fase finale della sua redazione. Esiste perciò un rapporto privilegiato tra l’insegnamento sul dialogo, proposto da Paolo VI, e la dottrina di LG 16 sui non cristiani.

Per capire la nozione magisteriale di dialogo in Paolo VI ricorderei in breve almeno tre punti importanti:

– Paolo VI ritiene che alla riflessione sul dialogo si debba premettere quella sulla coscienza della Chiesa. Il fedele deve cioè essere consapevole dell’elevazione ricevuta nel battesimo. Dimenticare tale dignità acquisita per grazia significa perdere di vista la propria identità.
– Il paradigma di ogni dialogo che la Chiesa intrattiene col mondo, quindi anche quello inter-religioso, è il «colloquium salutis» instaurato da Dio in Cristo con l’umanità. La Chiesa deve ispirarsi a questo modello nell’accostarsi al mondo.
– Questo interesse si traduce in una preoccupazione apostolica, in un’azione missionaria: dialogo è appunto il nome che Paolo VI attribuisce all’interiore impulso di carità, che tende a farsi esteriore dono di carità. Questa che è storicamente la prima definizione di dialogo da parte del Magistero è tra l’altro collocata dal Pontefice dopo la citazione di Mt 28, 19 sul mandato missionario.

In definitiva, penso veramente che quarant’anni fa sia iniziata ad esistere una ‘dottrina’ del dialogo. Dottrina nel senso di un ‘insegnamento normativo’ del Magistero che fissa precisi paletti alla definizione e pratica del dialogo, dimenticati i quali si rischia di entrare in una visione del dialogo estranea agli intendimenti con i quali si è deciso di inserirla nel vocabolario ecclesiale.

In questo senso, cosa va ricordato del Concilio Vaticano II?

Molti i punti che potrei toccare per rispondere a questa sua domanda. Per brevità mi limito a menzionarne tre:

1. La riflessione conciliare di LG 16 gravita attorno all’affermazione che i non cristiani possono conseguire la salvezza eterna e che tale salvezza si attua mediante la grazia che opera nelle persone. In questo numero vi è un’attenta descrizione dell’azione di Dio nell’intimo della coscienza degli uomini che non conoscono il Vangelo.

Non posso addentrarmi nei particolari di questo testo, ma tengo a ricordare che non vi è alcun cenno alle religioni come mediazioni di Grazia o vie di salvezza. Aggiungo che LG 16, con questa sua lettura resterà (lo dimostrano molto bene gli Atti ufficiali del Concilio) il costante riferimento nella stesura degli altri documenti che in seguito toccheranno ancora il tema dei non cristiani: la Dichiarazione Nostra Aetate e il Decreto Ad Gentes.

2. Si aggiunge un’ultima osservazione, relativa al valore di Nostra Aetate. Non reputo casuale che in una sua relazione ufficiale su NA, (ancora rinvenibile negli Atti del Concilio) il Cardinal Bea spiegasse a chi pensava già di attribuire a NA il valore di un documento dottrinale, che la Dichiarazione mirava solo a dare delle indicazioni di ordine pratico alla specifica relazione tra Chiesa e membri di altre religioni («normae praticae et pastorales ad agendum cum non-Christianis»).

Negli intendimenti del Concilio, NA è concepita come un’appendice pratica alle linee dettate da LG 16 e più in generale dall’Ecclesiologia conciliare sancita in quel documento. Chi oggi ancora tende tanto in ambito ecclesiale che teologico a dimenticare LG 16 ed ad attribuire alla Dichiarazione Nostra Aetate un valore dottrinale commette a mio avviso una grande ingenuità ed anche un errore storico.

3. Circa poi un giudizio sul ruolo delle religioni, il Concilio parla di ‘preparazioni evangeliche’ in rapporto ad un ‘qualcosa di buono e di vero’ che si può trovare nelle persone, e non di rado nelle iniziative religiose. In nessuna sua pagina si parla esplicitamente di religioni come vie di salvezza.

Dal punto di vista storico-teologico, il termine patristico di ‘preparazioni evangeliche’ utilizzato dal Concilio in LG e AG è mutuato da quel filone della teologia del Novecento che definiva le religioni appunto come preparazioni al Vangelo, contrapponendosi alla tesi delle religioni come vie di salvezza. In un mio studio di prossima pubblicazione, ho mostrato come, alla luce degli Atti conciliari, sia evidente che Concilio non ha in alcun modo voluto assecondare quest’ultima tesi.

Qualcuno potrebbe obiettarmi che questa lettura del Vaticano II è contraddetta già dal fatto stesso dell’Istituzione del Segretariato per i non cristiani. Con esso la Chiesa riconoscerebbe alle religioni un ruolo salvifico e paritario. Replico ricordando un dettaglio storico molto importante: il 29 settembre 1964, quindi dopo pochi giorni dalla distribuzione dell’Enciclica ai Padri conciliari, costoro ricevettero una Nota ufficiale ove si spiegava – cito – «ciò che non è e non deve essere» il Segretariato dei non cristiani.

Questa nota sostanzialmente affermava:

– che il Segretariato «non è un organo del Concilio», poiché «opera in un ambiente di non-cristiani», i quali «non hanno motivi validi a giustificare la loro presenza al Concilio…» ;
– il Segretariato non tende «a trattare problemi dottrinali, né tanto meno ad occuparsi del ministero della predicazione e della grazia, compito dei Missionari, bensì a stabilire contatti con i non-Cristiani, su questioni di carattere generale».
Infine si ammoniva anche sui «pericoli che minacciano, se non si sta bene attenti, l’attività di coloro che lavorano nel senso del Segretariato per i non-Cristiani»: disfattismo e indifferentismo.

«Per indifferentismo non intendiamo la freddezza o l’incredulità di certuni nei riguardi della fede cristiana, ma piuttosto l’attitudine di coloro per cui tutte le religioni sono uguali; in ognuna di esse vedono altrettante strade che conducono in cima alla montagna. Perciò, dicono essi, purché l’ospite arrivi all’appuntamento, non ci si deve inquietare della strada che percorre. Per quanto riguarda il sincretismo, basta conoscere un po’ le religioni dell’estremo Oriente per rendersi conto della forza di tale tendenza; vi è come naturale. Tutte le credenze conosciute si uniscono e si fondono in una sola, purché presentino alcuni aspetti secondari comuni. Il fenomeno è talmente forte e generale che è passato come principio nella scienza delle religioni comparate. Crediamo opportuno aprire bene gli occhi su questi pericoli, giacché averli intravisti chiaramente vuol dire averli vinti già a metà». (cfr. AS III/I, 30-35 versio italica)

Mi si perdoni la lunghezza della citazione, ma essa contribuisce a fugare la tentazione di interpretazioni improprie. Questa Nota è importante anche per un altro motivo: essa spiega indirettamente perché la dichiarazione NA non sia stata redatta dal Segretariato e ci ricorda altrettanto implicitamente che i documenti del Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso non sono di natura dottrinale, ma prettamente pratica e pastorale.

Alla luce di quanto appena detto possiamo perciò affermare che, nella visione del Concilio Vaticano II, il dialogo inter-religioso ha un ruolo eminentemente pastorale e pratico, ciò vale anche per i documenti emessi dal Pontificio Consiglio. Il dialogo è una mozione che viene dalla coscienza del cristiano e nasce dal desiderio di comunicare il dono inaspettatamente ricevuto in Cristo: il dono di esser stati costituiti figli di Dio.

Esso ha, negli intendimenti della Chiesa, anche una funzione squisitamente umana e mondana, quella di creare le premesse per una collaborazione internazionale volta al superamento dei conflitti e alla soluzione dei problemi. Ciò che sta avvenendo in questo momento nel Sud Est asiatico è per certi versi una forma di dialogo basata sul valore comune ad ogni popolo della salvaguardia della vita.

Perché il dialogo inter-religioso non può essere assimilato a ciò che avviene in ambito ecumenico?

La ragione è piuttosto semplice, anche sulla base dei precedenti chiarimenti: il dialogo ecumenico avviene in un contesto intra-cristiano, tra credenti di confessioni diverse ma uniti nella fede in Gesù Cristo. Questo tipo di dialogo mira o dovrebbe mirare a giungere alla ricomposizione dell’unità dei cristiani (non ancora esistente) nell’unità cattolica (già esistente nella Chiesa cattolica).

Il dialogo inter-religioso è una relazione che si instaura tra cristiani cattolici e membri di altre religioni. Non c’è un’unità di certi elementi di fede come base di partenza per questo tipo di relazioni. La sovrapposizione tra dialogo inter-religioso e dialogo ecumenico è per altro una tentazione molto diffusa, anche legata alla poca chiarezza di idee in seno alle nostre comunità. Si dovrebbe invece far capire la distinzione tra le due prassi.

In ogni caso, una condizione che costituisce un comune presupposto delle due forme di dialogo è quella indicata da Paolo VI: la coscienza della propria identità. Se come cattolici dimenticassimo la coscienza della nostra identità davanti ad un fratello protestante incorreremmo nello stesso errore di quel fedele che volendo dialogare con un musulmano è disposto a relativizzare il proprio credo.

Un amico musulmano recentemente mi diceva: “Noi vogliamo dialogare con cattolici tutti di un pezzo, non con cattolici a metà. Dal mio punto di vista di musulmano, un cattolico che rinunci a qualche aspetto fondamentale della propria fede per fare dialogo, sarebbe né più né meno come un cattivo musulmano che non osserva il Corano. Il dialogo si fa se si ha il coraggio della propria identità. Come potremmo conoscere realmente la vostra fede se negate ad esempio l’unicità di Cristo?”

Mi sembra una considerazione molto sensata che sarebbe utile ribadire anche all’interno di taluni movimenti cattolici che si ergono a fautori di dialogo inter-religioso.

Nono sarebbe, dunque, meglio parlare di “colloquio” (nel senso di colloquium latino) invece che di dialogo?

Il testo latino dell’enciclica parla di colloquium, termine reso nelle traduzioni del documento e nei discorsi in lingua italiana di Paolo VI sull’Enciclica col termine dialogo. A posteriori, io penso che sarebbe stato più opportuno e prudente che si fosse mantenuta la parola originaria, non solo perché il termine dialogo ha conosciuto nella storia una lunga gestazione di significati ed applicazioni molto diversi ed ambigui, ma anche perché oggi è una parola dall’uso inflazionato, usata sovente in politica, in filosofia, in sociologia ecc., molte volte per relativizzare la verità o negarla.

Si dialoga – è l’opinione di molti – perché nessuno può avere la pretesa di conoscere la verità. Trasposto questo ragionamento in ambito cristiano, il rischio concreto e tangibile in molte pubblicazioni e discorsi, è di relativizzare il valore unico della verità della salvezza in Gesù Cristo. Non è questo l’insegnamento del Magistero.

Lei distingue, come già espresso nella Dominus Iesus (2000), due piani di dialogo, il personale e il dottrinale. In che cosa consistono e perché sono stati mal accolti all’indomani della pubblicazione di questa dichiarazione?

Vorrei innanzi tutto fare una premessa notando che, allo stato attuale, non esiste un dialogo Cristianesimo-religioni non cristiane. Non ne esiste la possibilità per il fatto stesso che né l’Induismo, né il Buddismo, né l’Islam costituiscono ciascuno un’unità presieduta da un’autorità di riferimento.

Esistono buddismi, islam, induismi molto diversi tra loro, sebbene accomunati da alcuni elementi distintivi. Si farebbe un torto a questa diversità, talora radicale, considerando sotto un’unica denominazione indistinta una determinata religione. Esiste invece la possibilità di confrontarsi con singoli membri appartenenti all’una o all’altra tradizione facenti capo ad una determinata religione. Io non credo perciò che convegni inter-religiosi su larga scala siano la vera immagine del dialogo inter-religioso.

Quindi, quand’è in sostanza che si instaura un dialogo inter-religioso?

Il dialogo si costruisce in un contatto personale, in un clima di intimità e di simpatia, non in un’adunata oceanica. Questo è ciò che ho imparato incontrando cattolici che lavorano nell’ambito del dialogo trovandomi io stessa in qualche circostanza a confrontarmi con credenti di altre religioni.

Detto questo, un confronto tra cristiani e membri di altre religioni può avvenire su due piani:

– temi politici, sociali, politici, ad esempio quando ci si interroga sul ruolo che le religioni giocano in un processo di pace e di umanizzazione del mondo;
– temi relativi alle dottrine religiose. Ad esempio, il contenuto della salvezza secondo le rispettive dottrine religiose.

E’ in questo punto che la Dominus Iesus introduce l’idea che se, sul piano delle persone, in quanto persone, i partner del dialogo detengono tutti la stessa dignità, non si può dire lo stesso sul piano delle dottrine. Tra messaggio cristiano e messaggio non cristiano esiste, se siamo cattolici, un necessario divario.

Un esempio può forse aiutare. Alcuni anni fa, trovandomi con alcuni amici in casa di un anziano bonzo giapponese, dopo che lungamente avevamo confrontato la salvezza proposta nel Buddismo della Terra Pura con quella di Cristo, egli ci disse: “Io sono e resterò buddista, ma devo ammettere che il contenuto della salvezza proposta da Cristo è di livello qualitativamente superiore a quella proposta dalla mia Tradizione. La elevazione che viene proposta all’uomo dalla Redenzione di Cristo è ben al di sopra di quella che si delinea nel Buddismo. Cristo mi pone delle domande cui difficilmente sono in grado di rispondere in base alla mia tradizione”.

In questi giorni, ho sentito la testimonianza di un missionario in Indonesia. Egli ricordava come alla radio i cronisti musulmani affermino che il cataclisma del 26 dicembre è da recepirsi come un castigo di Dio. Nella visione cristiana, Dio è un Padre misericordioso e i disastri naturali sono concepiti come espressione di una natura non ancora totalmente domata dall’uomo. Il missionario raccontava come a questa spiegazione alcuni amici musulmani si fossero sentiti quasi rincuorati. Ancora una volta, la differenza non è a livello delle persone ma delle dottrine.

Il fatto che la Dominus Iesus sia stata mal accolta da certi ambienti del mondo cattolico non deve far meraviglia. E’ stato un fatto fisiologico: non vi sarebbe stata ragione di scrivere un tale documento se ampi settori del cattolicesimo odierno non avessero perso di vista la bellezza e grandezza del messaggio cristiano. La Dominus Iesus riprende, in un certo senso, lo stesso monito di Paolo VI nella Ecclesiam Suam quando mette in guardia i fedeli dalla tentazione di perdere il senso ed il valore del dono ricevuto col battesimo e la fede cattolica.

Dietro al rigetto per i contenuti della Dominus Iesus, si cela più in generale il rifiuto per l’autorità dottrinale del Magistero, per il valore normativo della Tradizione, per il principio dell’unicità della salvezza in Cristo. Tutti capisaldi del cattolicesimo. Il dialogo inter-religioso non può mai esser inteso come un’azione mediante la quale il cristiano verrebbe a conoscenza di aspetti della Rivelazione o, addirittura, di altre rivelazioni divine parallele a quella cristiana.

Chi afferma questo non ha solo in mente una definizione non cattolica di dialogo che esula da quella tracciata mirabilmente dal Magistero di Paolo VI, ma non riconosce alla Rivelazione in Cristo quel carattere di unicità che invece è al cuore stesso della Fede cristiana.

A mio avviso, la Congregazione per la Dottrina della Fede ha compiuto un gesto coraggioso, anche a costo di una certa impopolarità, tornando a puntualizzare principi che non possono essere accantonati. Come credente, del resto, se io perdessi di vista chi sono e cosa ho ricevuto per Grazia, potrei dare vita a mille iniziative di dialogo, nessuna delle quali però rispecchierebbe la concezione cattolica.

Questo deve indurci a riflettere se, a distanza di quarant’anni dall’Ecclesiam Suam, non sia venuto il tempo di recuperare la prima parte dell’insegnamento della Ecclesiam Suam sulla coscienza dell’identità cristiana. Nel protenderci verso l’altro, abbiamo perso un poco il baricentro della nostra vita. E’ mia ferma convinzione che dobbiamo ripristinare questo equilibrio in noi e nelle nostre comunità per dare poi più vigore e senso alle nostre iniziative e ai nostri ‘colloqui’ con persone di altre religioni.