Romolo Murri l’ambiguo cattolico

Romolo_MurriPubblicato su Il Secolo del 2 novembre 1995

Ricostruire l’iter e le motivazioni che portarono un sacerdote cattolico a percorrere sentieri autonomi ci sembra utile non solo per definire i termini della questione cattolica, sempre aperta in Italia, ma anche per eliminare gli equivoci di una storiografia che demonizza fatti e periodi storici che hanno invece nella continuità della storia le loro radici.

di Giuseppe A.Spataro

Ricostruire l’iter e le motivazioni che portarono un sacerdote cattolico a percorrere sentieri autonomi per giungere alla riaffermazione del date a Cesare e dei diritti dello Stato, fino ad abbracciare con convinzione la causa del fascismo, ci sembra utile non solo per definire i termini della questione cattolica, sempre aperta in Italia, ma anche per eliminare gli equivoci di una storiografia che, sulla scorta di rancori personali o di miopi preclusioni, teorizzando impossibili parentesi e mali assoluti, demonizza fatti e periodi storici che hanno invece nella continuità della storia le loro radici.

Parliamo di Don Romolo Murri, nato a Montesanpietrangeli, nelle Marche, il 27 agosto del 1870. Aveva compiuto gli studi teologici a Roma, ammesso per concorso al Collegio Caprinica, vi era stato ordinato sacerdote nel 1893. Nello stesso anno si era iscritto alla facoltà di Lettere dell’Università di Roma e, in quell’ambiente arroventato da violente dispute culturali e politiche, iniziò la sua attività propagandistica e il suo impegno sociale, che lo fece incorrere, quale fondatore della Democrazia Cristiana e poi della Lega Democratica Nazionale, nella scomunica papale in seguito all’enciclica Pascendi contro il modernismo.

Tuttavia il Murri era convinto che la condanna non lo riguardasse. Non si identificava infatti nell’immanentismo filosofico condannato dall’Enciclica, era anzi un seguace studioso profondo del tomismo, che Leone XIII aveva dichiarato filosofia ufficiale della Chiesa, e non si professava lontanamente immanentista, a meno di credere immanentista lo stesso San Tommaso per la sua dottrina dell’analogia entis. Nella Lettera ad un amico immanentista egli spiegava infatti: «Caro X, mi sorprende che ti sorprenda il mio atteggiamento. Io voglio rimanere nella casa paterna, nella tradizione viva, intendo dire, nel pensiero cristiano…».

Che cosa era nel suo intento quella Democrazia cristiana, il cui nome stesso era aborrito da S.S. Pio X, se non actio benefica in populum, come riconosce Pietro Scoppola, un’azione benefica nello spirito della Rerum Novarum? Perciò aveva preso posizione contro lo Stato liberale per i lavoratori, costretti a scioperare per l’inadeguatezza dei salari, gettando così le basi di un’organizzazione sindacale cristiana. E’ questa la sua Democrazia cristiana, a cui aveva dato vita in opposizione alla politica conservatrice dell’Opera dei Congressi, e per la quale rivendicava un’autonomia che permettesse di cooperare senza pastoie clericali al bene della nazione. Per il nuovo Papa, Pio X, ciò equivaleva a un tradimento e a una legittimazione di quella che per il Vaticano restava l’usurpazione sabauda.

Il Murri spiegherà più tardi quali erano i reali termini della situazione e come «…l’attività pubblica dei cattolici, dal 1870, quando il barone D’Ondes Reggio di Palermo si dimise da deputato perché l’ordine era venuto ai cattolici di raccogliersi nell’astensione, a questi primi anni di attività del P.P., era fondata sul presupposto che, di fronte alla Rivoluzione impersonata nello Stato usurpatore, le legittime ragioni della Chiesa e del cattolicesimo facessero blocco, in totale, insanabile antitesi con la nuova Italia. Chi non era con essi era contro di essi dall’altra parte della trincea». (Fede e fascismo 1924). Ecco dunque individuato ciò che tratteneva il Vaticano da riconoscere il Regno d’Italia così come s’era formato intorno alla Casa Savoia con Roma capitale: era il principio di legittimità, codificato nei paragrafi LXI, LXII, LXII del Sillabo, a cui fa ripetutamente riferimento l’enciclica Pascendi.

Nel riconoscere superato quel legittimismo, implicante una anacronistica concezione patrimoniale dello Stato, e nel rivendicare di conseguenza l’autonomia per un partito di cattolici che non fosse guidato per le redini dal Vaticano, in questo e in nient’altro consisteva il peccato di modernismo di don Romolo Murri. Ed egli legittimamente rivendica a suo merito la mutata situazione in Italia alla vigilia della 1 Guerra Mondiale: «Fra le cause, almeno visibilmente attive ma più gravi e tenaci, della debolezza del nuovo Stato e di così lenti progressi dello spirito unitario del Paese, va posta l’ostilità dei cattolici verso di quello, l’ostentata assenza dei principali rappresentanti del cattolicesimo dalla vita pubblica, la forza che dal clericalismo veniva, specie nelle masse, agli istinti di pigrizia e di reazione conservatrice.

La guerra trovò una mutazione profonda già avvenuta, per contrasti di straordinaria vivacità; e i cattolici, pronti ormai, in gran parte, a far loro, nella guerra e dopo, la causa della nazione, e ad entrare alacremente nelle competizioni civili e sociali. Questo aveva fatto la Democrazia cristiana murriana» (da Fede e fascismo).

Che cosa è dunque questa Democrazia cristiana, il cui nome stesso era aborrito da S.S. Pio X? E’ una democrazia sociale che sulla scorta del Toniolo (anche se qualche polemica ci fu tra i due!) possiamo dire «rifluisce nell’ultimo risultato a prevalente vantaggio delle classi inferiori». Essa non implica il concetto immanentistico di sovranità popolare, già condannato dal Sillabo e dall’enciclica Diuturnum illud di Leone XIII.

Apparirà invece, con raccapriccio di Civiltà Cattolica, nel manifesto-programma del Partito popolare di don Sturzo. «In uomini cattolici di professione come i sottoscrittori dell’appello, e più con un segretario politico sacerdote, l’allusione al concetto, che è poi uno scherzo liberalesco, del popolo sovrano ed al concetto che ne conseguiva, di principio dell’autorità come forza ed esponente, fa qualche stupore», scriveva Civiltà Cattolica del 15 febbraio 1919.

Quello del Murri fu uno sviluppo conseguente, senza censure né logiche né temporali. Sintomatico dello spostamento dei suoi interessi verso una partecipazione sempre più attiva alla vita della comunità nazionale è il suo studio su Camillo di Cavour, edito da Formaggini nel 1915, ripubblicato ne ’26 e infine da Bietti nel ’39. Siamo così alla ! Guerra Mondiale ed esce coi tipi di Bemporad La Croce e la Spada, e poi nel ’16 Guerra e Religione.

Proseguendo nella sua bibliografia abbiamo Da Udine a Caporetto, La conquista ideale dello Stato, sui Quaderni diretti da Dino Grandi, Socializzazione, edito da Mondatori nel ’19. Poi Il papato e l’Italia, del ’22 , Scuola e Politica, nella biblioteca popolare di pedagogia, diretta da Lombardo Radice. Infine Fede e fascismo, che offre spunti interessanti di attualità per quel che riguarda la questione cattolica: «Fra il Ppi e la Deocrazia cristiana storica c’è quindi una derivazione diretta di uomini e di vicende, ma c’è anche una differenza profonda, essenziale, che non permette confusioni di responsabilità, essendo il primo sorto proprio per l’abbandono esplicito di quell’ulteriore momento dialettico che pose, o rivelò, il contrasto, insanabile ancora per parecchio tempo, fra la mentalità cattolica e lo spirito di revisione critica del passato e di laicità religiosa ed autonomia spirituale chiamato poi, con termine equivoco e prettamente polemico, modernismo.

Il Pp è venuto quando democratici cristiani e cattolici liberali o di destra, e la stessa S. Sede, vedendo la necessità di mobilitare, in soccorso dell’ordine, tutte le forze cattoliche, hanno cercato nella aconfessionalità di un partito il mezzo più opportuno per scindere le responsabilità della Chiesa da quelle dei cattolici che si aprivano la via al Parlamento e al Governo. L’autonomia dei popolari non era l’autonomia dello Stato, in cui essi entravano. Una aconfessionalità ambigua e reticente, interpretata i assai vario modo e che di fatto manteneva il P.p. – partito di cattolici e di clero – in una delicata situazione di dipendenza dal potere ecclesiastico, sorreggeva una posizione grandemente precaria, destinata a sciogliersi al primo mutare dell’ambiente politico in cui era sorta».

Il Murri denuncia l’equivoco di quel P.p., sorto, è vero, dal saldo nucleo centrale della Democrazia cristiana, che gli diede, tra l’altro, il segretario politico e più che la metà dei cento deputati del suo gruppo, ma anche dal rinnegamento di parte essenziale del programma, su una base di aconfessionalità che «è bensì negli statuti, nel programma pratico e concreto (l’ispirazione cristiana della vita rimase campata in aria), ma non è nella dottrina centrale, nel programma intiero; poiché il concetto che il partito, e in particolar modo don Sturzo, si fa dello Stato, della organizzazione sociale, del cittadino medesimo, dipende dal concetto dominante della natura, del posto della funzione della Chiesa nella vita; argomento questo sul quale i popolari non possono avere alcun criterio proprio, alcuna autonomia, perché essi sono cattolici e aconfessionali: cioè cattolici che si vietano di interloquire in merito a quella confessione religiosa che è poi loro e che essi bandiscono così, formalmente, dalla vita pubblica, nell’atto stesso in cui ne fanno, a parole, la loro suprema ispiratrice nel foro interiore…».