Feto malformato: che fare? Intervista a Giuseppe Noia

Giuseppe Noia

prof. Giuseppe Noia

La storia di Claudia. La testimonianza del professor Noia.

La responsabilità dei consulenti pre-parto.

* * *

Claudia venne qui, da sola, nel 1992, a 18 settimane di gravidanza e mi disse:

– “Professor Noia, varie persone mi hanno fatto il suo nome, perchè lei mi può dire se questo bambino ha i reni o no.”- “Va bene” – rispondo – “facciamo alcuni esami”.

E lei: “Fate tutto il necessario, perché io devo decidere”.

Fatti gli esami, il risultato era chiaro:

– “I colleghi che l’hanno inviata da noi avevano ragione, la mancanza di tutti e due i reni è confermata”.

E lei: “Che sarà di questo bambino?”.

– “Crescerà dentro di lei, lei si legherà a lui col suo amore, ma il bambino, non avendo la possibilità di urinare, non svilupperà il sistema che porta alla maturazione dei polmoni. Come conseguenza, dopo la nascita il bambino vivrà solo alcune ore”.

Claudia: “Allora, se è così, vado a fare l’aborto volontario”.

Ribatto: “La legge 194 mi permette di fare un’opera di dissuasione, per cui le vorrei offrire un’opzione diversa, soprattutto dal punto di vista medico- psicologico”.

– “In che senso?”.

– “Ha mai sentito parlare della sindrome post-abortiva? È una sindrome grave che colpisce le donne che scelgono l’interruzione di gravidanza”.

– “E allora cosa mi propone?”.

– “Le propongo di accompagnare il bambino”.

– “Ma cosa significa?”.

– “Lei fa le cose che fanno tutte le altre mamme, le visite, i controlli, gli esami”.

Lei: “Ma si rende conto di quello che mi chiede?. Lei mi propone di accompagnare una creatura a cui io mi legherò moltissimo, pur sapendo che la perderò… È una cosa sovrumana”.

– “Non è sovrumana, anzi è estremamente umana. Se per esempio venisse un ematologo e le dicesse che purtroppo il suo bambino di tre anni è inguaribile e tra qualche mese morirà, lei lo curerebbe e accompagnerebbe, non è vero?”.

Claudia: “Ma in quel caso….”

Io: “Cosa cambia se ha tre anni o tre mesi?”.

Lei: “Vorrei evitare che questo bambino soffra”.

Io: “La prima sofferenza è quella di togliergli la vita. Ma soprattutto di togliergli l’amore, perché lei soffrirà se accompagna il bambino, ma soffrirà in modo molto maggiore se lo uccide. Con la differenza che nel primo caso lei soffre accompagnandolo, ma poi il dolore si stempera nella consapevolezza di aver amato suo figlio fino alla fine, e questo le farà un bene che non può immaginare. Ricordi che le parlo in nome di esperienze che ho conosciuto personalmente.Nell’altro caso, lei avrà distrutto suo figlio, il suo progetto, sarà quasi come una separazione da una parte di sé stessa, per questo poi arriva la depressione”.

Claudia: “No, non ce la faccio. Non ce la faccio”.

E se ne va a fare l’interruzione.

Si ripresenta dopo nove anni:

– “Si ricorda di me?”.

– “Il viso credo di sì, ma noi vediamo centinaia di persone a settimana…”.

Claudia: “Sono quella donna che anni fa se ne andò un po’ irritata con lei perché, per il caso di genesia renale della mia bambina, mi propose l’accompagnamento invece dell’aborto. Me ne andai irritata perché mi sembrava, inizialmente, che lei volesse coartare la mia scelta di autodeterminazione come donna, impedendomi di scegliere in libertà, per una vita in fondo inutile e che avrebbe avuto gravi sofferenze”.

– “Innanzitutto qui non si obbliga nessuno, si propone, tanto è vero che lei poi ha fatto l’interruzione di gravidanza, è stata una scelta sua. Ho voluto evidenziare i danni, non solo dal punto di vista etico, che magari tengo per me, ma anche dal punto di vista scientifico-psicologico”.

– “E aveva ragione”.

Allora mi fermo. Era partita quasi attaccando…

– “Ho sperimentato sulla mia pelle cosa significa la sindrome post-abortiva. Ci ho messo nove anni per ripetere una gravidanza. E ogni volta che ci riprovavo ripensavo a quella bambina che avevo ucciso e mi bloccavo. Ho avuto anche un aborto spontaneo – il rifiuto psicologico, il sentirsi inadeguata da parte della madre può produrre aborti spontanei -, ma adesso sono di nuovo incinta”.

– “Va bé, lasci stare il passato signora e stia serena, senza arrovellarsi. So che lei soffre soprattutto per non sapere dov’è la sua bambina e per non avergli potuto dare un nome”.

– “Le due domande che mi faccio sono come sarebbe stata e dov’è adesso”.

– “Signora, la sua bambina è nel suo cuore, starà sempre con lei”.

Ma lei ribatte: “Sì, ma adesso sono incinta e ho di nuovo una bambina senza reni”.

Seguono due lunghissimi minuti di silenzio. Claudia percepisce il mio stato di disagio.

– “Professore, lei ha parlato nove anni fa, adesso parlo io. Il mio pregiudizio culturale mi ha fatto rifiutare una proposta eticamente e medicalmente corretta. Pensavo che lei non parlasse come medico, ma come cattolico, per propormi la sua visione della vita e togliermi libertà e autodeterminazione. Niente di più falso. Lei parlava in maniera corretta, sia su base giuridica che su base medica. E questo mio errore l’ho pagato sulla mia pelle. Ma adesso non voglio sbagliare di nuovo, voglio accompagnare la mia bambina. Però ad una condizione: che sia lei ad accompagnare tutti e due”.

– “Signora, qui io sono proprio l’accompagnatore ufficiale”.

Ridiamo un po’ per stemperare la tensione.

– “Professore, voglio venire al suo studio privato, però”.

– “Signora, stia tranquilla, la tratterò ugualmente bene anche qui, solo che non paga”.

– “Non mi interessa il problema di pagare. Al suo studio c’è più privacy”.

– “Allora mi permetta di non farla pagare anche se viene allo studio”.

– “Professore, lei non ha capito niente; io alla mia bambina devo dare tutta la dignità che le avrei dato se avesse avuto i reni. Quindi voglio venire a fare le visite, pagare le ecografie, tutto quello che c’è da fare normalmente. Perché se non dò io a mia figlia senza reni la dignità che le spetta come essere umano, in questo mondo di morte chi vuole che gliela dia?”.

Ammutolisco.

Nei mesi successivi Claudia viene allo studio, fa tutte le visite, partorisce Alice, che dopo quattro ore vola in cielo.

– “Professore, devo ringraziarla per aver accompagnato me e la mia bambina, proprio come volevo. Sono tornata da lei grazie alla mia bambina precedente, che mi ha guarito il cuore. Soprattutto, professore, la voglio ringraziare perché aiutandomi ad accompagnare Alice in questi nove mesi mi ha permesso di riscattare nove anni della mia vita”. Claudia, molto serena, ha già il desiderio di iniziare una terza storia, per cui la avviso che prima è necessario fare una valutazione genetica della probabilità che si ripeta il problema. Scopriamo che la probabilità è del 25 per cento.

Tempo dopo nasce Sofia, che sta benissimo.

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Il professor Giuseppe Noia è responsabile del Centro di diagnosi e terapia prenatale dell’Università cattolica del Sacro Cuore di Roma, un day hospital dove affluiscono quasi 1500 persone all’anno, l’80 per cento con gravidanze ad alto rischio.

Professore, cosa pensa di test e consulenze prenatali?

Dicono che la rosolia fa nascere un bambino con cardiopatie e cecità. È vero, ma pochi aggiungono che questo avviene solo se la madre contrae la rosolia prima di 14 settimane, e comunque non succede nel 100 per cento dei casi! Si capisce bene allora come mai qui da noi su 284 casi che stavano per essere abortiti ne abbiamo salvati 250. Prendiamo, per esempio, i bambini cosiddetti idrocefali: chi fa diagnosi prenatale dovrebbe sapere che una quota di questi bambini muoiono o stanno malissimo, ma ben l’82 per cento stanno bene. Non si può dire solo: suo figlio sarà una larva. Questa è la differenza culturale tra informazione e conoscenza. La prima è superficiale, la seconda è profonda e, creando consapevolezza, aiuta nella scelta di ciò che vale.

Per i genitori è un grosso pensiero sapere se il figlio sarà sano o no.

Proprio per questo gli operatori del prenatale devono essere persone con preparazione scientificamente alta, esperienza di casi reali, e conoscenza di come vanno le cose se non si abortisce. Capaci quindi di non amplificare il rischio che i genitori già sentono naturalmente come stress. Invece, l’80 per cento dei ginecologi del nord America ha affermato che è meglio morire che avere un handicap: cosa vuole che consiglino alla donna durante la consulenza? Le diranno che è meglio abortire piuttosto che rischiare un handicap che, aggiungo io, magari non ci sarà mai. Tra l’altro fare l’amniocentesi aumenta del 200 per cento l’ansia della donna, uno stress che viene a cadere di solito tra 12 e 21 settimane, proprio in quelle settimane in cui si sta formando il talamo fetale, cioè la cosa più importante del sistema nervoso dei bambini in utero. E ci sono una marea di studi che dicono che gli stress materni hanno ripercussioni sul feto.

Dove sono i centri per accompagnare i feti terminali?

In America ce ne sono 45. In Europa purtroppo solo due: in Polonia e qui, al Gemelli di Roma. D’altra parte basta pensare che negli Usa e Canada per diagnosi di Down vengono abortiti tra il 14 e il 18 per cento dei feti. In Italia, dati dell’Emilia Romagna, siamo invece all’86 per cento.

Avete creato una rete di famiglie?

Sì, spesso queste famiglie sperimentano una grande solitudine, anche tra parenti ed amici, fino a consumarsi in una vera e propria disperazione. Quando invece trovano qualcuno che condivide quello che passano, qualcuno che li capisce, allora risorgono, al punto tale che nel 50 per cento dei casi si aprono di nuovo alla vita già nei mesi successivi. Al contrario nei casi di feti malformati abortiti, i tempi medi di riapertura alla vita sono cinque o dieci anni. Questo perché in un caso lo uccidono, in un altro lo amano. E poi una volta all’anno facciamo incontrare le famiglie con i medici, in modo che questi ultimi si rendano conto di come stanno veramente le cose, altrimenti la scienza è solo autocelebrazione.