Il peccato originale dell’epoca moderna

Del NoceIl Sabato, 29.9.1990, n. 39. e Il Sabato, 6.10.1990, n. 40

(relazione su Del Noce al Meeting di Rimini 1990)

Secondo Augusto Del Noce c’è un tratto comune in tutto il cristianesimo moderno – moderato, tradizionalista o progressista che sia. Ed è la separazione tra natura e grazia. Del Noce per spiegare questa separazione risale a Cartesio: nel suo pensiero convivono un agostinismo dell’interiorità, privato della grazia, con un naturalismo di fatto, in cui non c’è più traccia di peccato. Una convivenza a prima vista paradossale data l’opposizione tra sant’Agostino e Pelagio. «Ma è questo» scrive Del Noce «il problema del pensiero cattolico contemporaneo».

di Massimo BORGHESI

Il miglior modo per rendere omaggio a questa straordinaria figura che era il professor Del Noce, è ripercorrere il suo pensiero sul problema politico dei cattolici. E’ in fondo questo che costituisce il filo rosso di tutta la sua riflessione, dagli esordi e, in particolare, dal dopoguerra in avanti.

Questa è stata infatti la sua preoccupazione dominante, quella di individuare le condizioni ideali per una presenza dei cattolici dentro la società tale da non essere subordinata sul piano culturale ad altre posizioni, tale cioè da non essere distrutta nella sua identità, nella sua novità, nella sua peculiarità. In questo ripensamento di una presenza dei cattolici dentro la società, e dentro la società italiana in particolare, sta anche la peculiarità e la solitudine di Augusto Del Noce nel contesto culturale dell’Italia del dopoguerra, solitudine quanto meno fino a quindici anni orsono, quando è avvenuto l’incontro tra Del Noce e Comunione e Liberazione. Fino a quel momento l’espressione di «pensatore solitario» non è un’etichetta ma descrive la sua realtà personale.

PENSATORE SOLITARIO

Perché pensatore solitario? Innanzitutto per la sua formazione, per la sua problematica. Del Noce si forma culturalmente negli anni trenta. Ma la sua formazione non è di tipo idealistico, non è passato attraverso Croce e Gentile, presso cui invece la quasi totalità dell’intellighentia italiana si è formata. Il Del Noce che si forma nella Torino degli anni trenta va a pescare nel pensiero francese, cattolico soprattutto, e già in lui si profila una traiettoria diversa rispetto a quella di tanta parte dell’intellighentia italiana.

Quindi, negli anni trenta Del Noce approda, caso raro tra i cattolici d’allora, ad una posizione antifascista. Ed è un antifascismo cattolico il suo, mentre nella Torino degli anni trenta vi erano sì degli antifascisti, ma in campo laico, vicini a Gobetti, a “Giustizia e Libertà”.

I cattolici allora si diceva che erano «afascisti», cioè non aderivano al fascismo, ma non si poteva parlare di un antifascismo come opposizione ideale al fascismo in senso proprio. Egli è tra i primi lettori italiani di Umanesimo integrale di Maritain, un’opera che avrà influenza soprattutto nel secondo dopoguerra e che lui legge già nel ’36 restandone molto colpito. Approda ad un cristianesimo di sinistra nel ’42-’43, anche se in termini molto critici, alle posizioni di quelli che poi saranno chiamati i «cattolici comunisti», per poi rompere con questa posizione proprio durante la Resistenza.

E anche qui sta uno dei suoi paradossi: Del Noce rompe idealmente con l’antifascismo come ideologia, se così si può dire, proprio durante il periodo della Resistenza, cioè in quel periodo in cui la maggior parte anche di quelli che erano stati fascisti passavano all’altra sponda. E rompe perché per lui, essenzialmente, antifascismo vuol dire non violenza.

Scrive sul Popolo d’Italia nel 1945: «Il post fascismo deve essere non un fascismo in senso contrario (antifascismo), ma il contrario del fascismo, (dunque libertà e non violenza)» (Il Popolo d’Italia, 30 novembre 1945). Una posizione che poi manterrà costante: non basta essere «anti» un’altra posizione per esserne liberi: chi si muove semplicemente «in opposizione a» dimostra di essere nonostante tutto subalterno a quella posizione. Sono scelte queste che indubbiamente accentuano la sua solitudine, come a dire che egli si trova sempre nel campo sbagliato, cioè nel campo che non gli permette di raccogliere i frutti della posizione precedente.

Quando la sua posizione va al potere egli si trova dall’altra parte e quindi necessariamente isolato. Scriverà in un appunto di diario il 31 agosto del 1983: “Ho cercato in tutta la mia vita (74 anni e ormai venti giorni) di rifiutare ogni complicità con il male, pure evitando per ragioni religiose e per nessuna di ogni altra natura, la via del suicidio. Per ciò negli anni venti sono stato l’antifascista assolutamente risoluto, e per ciò condannato all’autodistruzione, che non aveva aderito a nessuno dei movimenti che allora esistevano (“Giustizia e Libertà”, comunisti, gruppo di Ginzburg o anche quello di Capitini); e l’autodistruzione aumentò quando mi separai dall’antifascismo. Il rifiuto della complicità con il male coincise per me con la “fuga senza fine” davanti a quello che mi appariva il male, la progressiva distruzione di quanto restava del Sacrum Imperium. La fedeltà all’impegno dell’agosto 1916 prima che per me iniziasse la scuola».

Una condizione di solitudine che si conferma nel dopoguerra nella sua duplice opposizione all’azionismo, alla mentalità del Partito d’Azione del tempo, e al marxismo su un altro versante. La mentalità del Partito d’Azione, cioè quella mentalità laicista per la quale antifascismo coincideva con anticattolicesimo, per la quale essere antifascisti era la stessa cosa che essere contro la Chiesa perchè essa era espressione delle forze reazionarie, espressione dell’antimoderno, forze dalle quali l’Italia doveva liberarsi per essere democratica, moderna.

E dunque, opposizione al marxismo, teorizzata in una serie di saggi che prenderanno inizio dal 1946 e che culmineranno in quell’opera capitale per intendere il nostro tempo: Il problema dell’ateismo, un volume edito nel ’64 da Il Mulino, in cui Del Noce raccoglieva i suoi saggi sul marxismo, dando di esso una interpretazione acuta, profonda. Uno dei pochissimi cattolici che realmente dimostrava di conoscere il marxismo anche sul piano filosofico, che aveva letto i testi e non semplicemente orecchiato, che conosceva Marx, ma anche Lenin, e tutta la grande letteratura marxista.

Ebbene, per Del Noce l’ateismo è elemento connesso al marxismo in maniera necessaria, non come molti cattolici diranno poi, per cui il momento ateo sarebbe accidentale e potrebbe benissimo essere separato da questo. Del Noce dimostrava proprio come il rapporto organico che il comunismo di Marx intratteneva con il momento ateo era la causa del fallimento stesso del marxismo là dove esso si era realizzato. In altre parole, la realizzazione pratica del marxismo coincide con la sconfessione dei suoi ideali, il comunismo promette la liberazione integrale ma realizza il massimo della schiavitù: questo è quello che Del Noce chiama, con una espressione tratta da Giambattista Vico, «l’eterogenesi dei fini». Cioè: ci si promette una cosa, un ideale altissimo, elevato, però nella prassi si realizza l’esatto opposto. Questo accadeva proprio in forza della premessa atea che distruggeva ogni umanesimo possibile.

LA DEBOLEZZA DEI CATTOLICI.

E’ indicativo come Del Noce sia uno dei pochissimi intellettuali cattolici che si è occupato del momento politico, del momento storico, con una riflessione sulle forze ideali operanti dentro la società e sulla loro incidenza e significato per una presenza cristiana. La maggior parte, non tutti evidentemente, degli intellettuali cattolici si sono caratterizzati nel secondo dopoguerra per una totale astrattezza e disinteresse per la realtà storica, evidenziando in questo un tipo di pensiero che sembra non essere più capace di incontrare la realtà.

Dall’altra parte, sul piano politico, la presenza della Democrazia Cristiana la quale ha avuto contatto con la realtà, punto fermo di essa, è però così fragile, così debole sul piano culturale. Del Noce diceva che la debolezza dei cattolici è che essi non hanno una interpretazione della storia contemporanea, per cui quando entrano nella storia sono succubi e prendono da altri le visioni della storia, ed è questo che li rende anche deboli sul piano di una presenza come tale.

Quella debolezza che la DC manifesta poi nel suo oscillare soprattutto a partire dagli anni sessanta in avanti, ma le premesse esistevano già prima – tra un laicismo di fatto e un clericalismo di tendenza. In un articolo del 1970 dedicato a Giacomo Noventa, un pensatore che egli aveva molto caro, Del Noce fa una riflessione interessante sulla Democrazia Cristiana osservando come essa «per l’assenza di revisione ideale, ha costantemente insieme attenuato il suo carattere cattolico e aumentato il suo carattere clericale.

Tanto meno cattolica, quanto più clericale. Di principi non vi si parla più, se non qualche volta in termini retorici, e in ogni caso in un discorso che deve essere ristretto al minimo, mentre la politica effettuale viene svolta in termini di tecniche sociologiche o di tatticismi. E se clericalismo vuol dire politicizzazione del clero coincidente con la debolezza della religione e la perdita di autorità morale del clero stesso, mai forse il fenomeno si è presentato in forme così accentuate e religiosamente così pericolose».

Concludeva Del Noce: «ne risulta che dal punto di vista religioso v’è oggi bisogno come non mai di un anticlericalismo di tipo dantesco» (Giacomo Noventa: dagli errori della cultura alle difficoltà in politica, in L’Europa, n.4, 7 febbraio 1970). E come è interessante questa annotazione in lui… Un vuoto culturale che crea la tipica situazione che si realizzerà nel dopoguerra e che lui vedeva: i cattolici hanno il potere politico, i laici hanno il potere culturale.

In particolare quel Partito d’Azione che si scioglierà come neve al sole nell’immediato dopoguerra, sconfitto sul piano politico, prenderà sempre più consistenza sul piano culturale, nei mass-media, fino a diventare forza egemone con il risultato che anche il partito dei cattolici alla fin fine diventa strumento di una egemonia culturale che adesso è avversa. I laici, in altre parole, avrebbero perfettamente compreso la grande lezione di Gramsci per cui per avere realmente il potere politico nelle nazioni democratiche occorre innanzitutto una egemonia culturale. Quando una egemonia culturale, a opera di una casta di intellettuali, ad opera dei mass-media, è saldamente nelle mani, anche il potere politico diventa, ultimamente, questione di poco.

LA LETTURA DELLA STORIA.

Questa subordinazione da parte dei cattolici consisteva per Del Noce in una falsa accettazione della storia contemporanea: quella per la quale -ed era diventato un luogo comune- il fascismo costituisce il male del secolo. Attenzione, il fascismo, non il secolarismo, non la perdita, la cancellazione di Dio dentro la società tra otto e novecento, cancellazione che si esprime poi concretamente e drammaticamente nei fenomeni totalitari che accompagnano tutta la storia del nostro secolo.

E il fascismo da questo punto di vista è una delle espressioni, assieme al nazismo, al marxismo sovietico, eccetera, della società secolarizzata, cioè di quella società che viene costruendosi facendo a meno di Dio. No dunque, non il secolarismo, ma una delle sue espressioni, diventa il male in assoluto, nella interpretazione, in fondo illuministica, che trionferà nel dopoguerra e di cui il Partito d’Azione era un pò il paladino, il fascismo diventa la reazione al «moderno» donde l’incontro necessario tra la Chiesa e il fascismo come tale.

Accettata dai cattolici, sia pure con alcune distinzioni, una visione di questo tipo portava a pensare una riforma della Chiesa tale da separarla radicalmente da tutta la Chiesa della Controriforma, dalla Chiesa moderna, e portava soprattutto a distinguere i cattolici tra coloro che sono progressisti, cioè antifascisti e democratici, e coloro che sarebbero invece integralisti, cioè autoritari e reazionari.

Vedete allora come da una interpretazione della storia contemporanea basata sull’antitesi fascismo-antifascismo, una interpretazione errata secondo Del Noce, si perveniva poi ad una divisione nell’ambito cattolico per la quale il nemico «esterno», come diceva lui, viene sostituito al nemico interno. In tal modo, una interpretazione scorretta rendeva i cattolici «colpevoli», cioè bisognosi di giustificazione di fronte al moderno, in tal modo le catastrofi del XX secolo non sono più il risultato della secolarizzazione, dell’ateismo, della distruzione di Dio nel cuore dell’uomo, così come le grandi encicliche pontificie affermavano nell’arco di tutto il nostro secolo, ma conseguenza ultima dell’antimoderno cattolico.

Ed è un paradosso: i cattolici infatti, esclusi ormai da più di un secolo, dalle vicende della vita nazionale ed europea, venivano resi responsabili di fatti di cui in realtà non avevano alcuna responsabilità.

Diceva Del Noce in un suo scritto che nella formazione di Mussolini si possono trovare tutti gli elementi possibili di una cultura laica, ma non uno solo della cultura cattolica. Ebbene, ora proprio i cattolici dovevano giustificarsi di fronte ai pensatori moderni della realtà del fascismo, quasi che fosse stata la Chiesa la responsabile dello stesso fascismo, mentre, dice Del Noce, il fascismo come tale non è un fenomeno antimoderno, ma è un fenomeno tipico della modernità. In questo senso il fascismo fu un errore della cultura e non contro la cultura (come voleva Benedetto Croce), di quella cultura «moderna», laica e immanentistica che caratterizza l’Italia postunitaria.

I saggi, acuti e profondi, che Del Noce dedicò a colui che fu il massimo pensatore italiano tra le due guerre e, insieme, massimo interprete del fascismo: Giovanni Gentile (Appunti sul primo Gentile e la genesi dell’attualismo; Gentile e la poligonia giobertiana; L’idea di Risorgimento come categoria filosofica in Giovanni Gentile), documentano una chiara continuità, un filo rosso che lega l’«ideologia italiana» nelle sue fasi prefascista, fascista e postfascista. Era quella ideologia allora, contrassegnata da un deciso no al cattolicesimo, che era chiamata a giustificarsi e non il pensiero cattolico, di per sé estraneo alla genesi, alla formazione del fascismo. L’incomprensione di questo punto nodale, da parte dei cattolici, consentiva non solo alla cultura laica di autoassolversi ma produceva nei primi, proprio nel momento in cui accedevano al potere politico, una decisa subordinazione culturale.

DE GASPERI: L’UTOPISTA DEL PASSATO.

E da quella analisi discende pure il giudizio che Del Noce dava negli anni ’50 su De Gasperi. Egli si ritrova in quegli anni vicino alla posizione di De Gasperi, la appoggia anche culturalmente sui giornali. Per lui De Gasperi voleva dire concretamente l’incontro tra il cattolicesimo e la parte più sana della tradizione liberale, anche in funzione antiazionista, in funzione anticomunista. Questo giudizio positivo è mantenuto fino al terzo Convegno Nazionale di Studi della Democrazia Cristiana (S.Pellegrino Terme, 1963).

Lì Del Noce svolge una relazione molto profonda dal titolo Il problema ideologico nella politica dei cattolici italiani -una relazione, oggi, letteralmente introvabile anche presso la sede della Democrazia Cristiana-: ebbene, qui il giudizio su De Gasperi si modifica con l’andare del processo storico. Nel dicembre ’63 Del Noce fa una postilla ad un suo articolo precedente (L’intuizione di De Gasperi, Il Mulino, luglio 1957) dicendo: «Non voglio con ciò passare ad una mitizzazione della posizione di De Gasperi, che ripeterebbe puntualmente la mitizzazione di Giolitti operata da Croce (…). Anch’egli era un “utopista del passato”, credendo proprio in ciò di essere realista. Pensava ad una diretta continuità con la realtà storica prefascista ottenuta attraverso l’eliminazione da essa di quel contrasto tra guelfi e ghibellini -quale arcaicità di termini!- che avrebbero reso possibile il fascismo (ma le origini del fascismo sono del tutto diverse anche se seppe inserirsi in quel contrasto, e avvalersene per i suoi fini). Vagheggiava, insomma, un ritorno a quell’«età dei distinti» [il periodo descritto da Croce nella sua “Storia d’Italia dal 1871 al 1915” nel quale ferrea era la distinzione tra politica, filosofia, religione, di cui mi sembra di aver provato, nella mia comunicazione di S.Pellegrino, l’impossibilità. Bisogna quindi distinguere nel degasperismo due facce; e l’enucleazione del suo momento positivo non può non accompagnarsi alla rescissione di altri aspetti» (in Il problema ideologico nella politica dei cattolici italiani, Bottega d’Erasmo, Torino 1964, bozze)

Cioè: cosa diceva Del Noce? La politica di De Gasperi è stata efficace indubbiamente nel suo contesto storico: De Gasperi pensava il cristianesimo come lievito e fermento per una collaborazione sui valori comuni mediante i quali era possibile incontrarsi anche con i laici, con quei laici ancora vicini a un patrimonio culturale cristiano, e tuttavia la sua preoccupazione di non fare entrare il fattore religioso dentro il contesto politico la si può spiegare solo come retaggio di un altro tempo.

Per De Gasperi, nel contesto del dopoguerra, marcato significativamente da quella rinascita religiosa di cui abbiamo detto, era facile un terreno d’intesa coi laici su alcuni valori comuni riconosciuti tali. Ricordiamoci che nel ’43 Benedetto Croce scriveva che “non possiamo non dirci cristiani”, il laico Croce… Anche i laici più avveduti cioè, riconoscevano nel patrimonio culturale cristiano un terreno laico su cui si poteva discutere, confrontarsi. Ma questo periodo storico si stava concludendo, come a dire che si concludeva anche l’età degasperiana.

De Gasperi, cioè, presuppone ancora l’unità morale della nazione, presuppone quelli che oggi si direbbero “i valori comuni”, un tessuto etico comune per il quale è possibile mettere tra parentesi la fede, ed è possibile collaborare serenamente con tutti poiché i valori su cui si collabora sono sostanzialmente quelli propri della tradizione cristiana.

Ma il progresso della secolarizzazione è quel fatto nuovo di cui Del Noce si avvedeva drammaticamente e che veniva sbriciolando questo tessuto etico e con ciò stesso rimetteva in discussione anche una prassi politica.

LA CRISI DEI «VALORI COMUNI».

La percezione della novità degli anni ’60 mostra, secondo Del Noce, l’inadeguatezza di tanta parte della DC e di tanta parte di mondo cattolico di fronte al fenomeno nuovo della secolarizzazione che distrugge le vecchie certezze. Dice in un articolo pubblicato su Il Sabato del 1986 (25 ottobre): «Se si potesse pensare oggi alla esistenza di una morale comune in cui convenissero credenti e non credenti, e la divergenza dei partiti, nell’orizzonte di questa morale comune, fosse limitata alla proposta dei mezzi più atti all’elevazione delle masse popolari, la DC sarebbe un partito pienamente adeguato.

Del resto la convergenza in una stessa morale di cattolici, di liberali, di socialdemocratici, di repubblicani, non era l’idea base del centrismo degasperiano? Ma se in De Gasperi ammiriamo l’unità tra la capacità dello statista, la fede religiosa e l’alta moralità, non ci sentiremmo di affermare fosse particolarmente sensibile a ciò che si muoveva nel sottosuolo delle coscienze europee e che poi esplose. Il margine di morale comune si è ormai estremamente ristretto, si sta formando la società più sconsacrata che la storia abbia mai conosciuto e il popolo cristiano l’avverte».

In due articoli di grande interesse pubblicati sul Giornale d’Italia del 31 agosto e del 1 settembre 1973 Del Noce diceva testualmente: «E’ inutile richiamarsi alle parole di De Gasperi di evitare come essenziale il mutamento della lotta politica in guerra di religione. Gli anni di De Gasperi sono immensamente lontani: egli poteva pensare di allearsi con i partiti classici dell’Italia laicista in quanto la loro morale sul piano del valore assegnato ai comandamenti non differiva da quella cattolica (non per nulla era presidente della Repubblica Luigi Einaudi che in un celebre saggio del ’36 aveva sostenuto l’impossibilità di una società ordinata che non fosse fondata sull’osservanza dei comandamenti)».

E aggiungeva: «c’è un punto su cui oggi le forze che detengono potere si accordano: che nell’Italia del secondo dopoguerra si sarebbe raggiunta la pace religiosa e che sia indispensabile mantenerla. Ne conviene la pubblicistica borghese ed è noto quanto vi insista uno dei suoi più letti portavoce, Indro Montanelli.

Ne conviene il partito comunista e Berlinguer si distingue nel sottolinearla. Secondo un giudizio molto diffuso, la lotta per la libertà e la democrazia coinciderebbe con la lotta contro gli integrismi, sia quello cattolico, sia quello comunista». Ma, aggiungeva Del Noce, di fatto l’Occidente dal ’60 in poi conosce il massimo della persecuzione incruenta della religione. La pace religiosa, nel senso che comunemente le si è attribuito, è oggi, per Del Noce, il sepolcro della religione e non soltanto della religione positiva ma di ogni ideale che vuole esser chiamato tale. E specificava ancora, in termini di grande interesse, come questa persecuzione non cruenta avviene mediante la persuasione, i mass-media, separata dall’idea di verità.

«E’ straordinario osservare come uomini di indubbia cultura asseriscano che non c’è persecuzione perché manca la coercizione fisica e in apparenza anche quella morale. E’ da rispondere che la persecuzione contro la religione non può essere realmente efficace se non lascia al soggetto l’impressione di aver scelto liberamente. E’ quel che aveva già perfettamente inteso l’imperatore Giuliano l’Apostata. La vera persecuzione contro la religione deve perciò appoggiarsi sulla persuasione: si intende, su una “persuasione” disgiunta dall’«evidenza».

E’ impossibile infatti distinguere qualitativamente, quando manchi il riferimento all’idea di verità, tra persuasione e violenza». E qui citava in maniera significativa un intervento di Paolo VI dove si diceva che non c’è libertà se non si è realmente padroni di se stessi. E, aggiungeva, Paolo VI, “non è la religione che soffoca la libertà, è piuttosto la mancanza di libertà che soffoca la religione, impedisce cioè quell’orientamento razionale e morale e vitale che nelle sue superiori e naturali esigenze tenderebbe al mondo religioso”.

E qui allora, aggiungeva Del Noce a mo’ di commento, che si trova definito quello che è il carattere veramente nuovo della situazione presente. La «persecuzione psicologica della religione si è fatta inscindibile dalla persecuzione della ragione» e dalla limitazione della libertà, perché l’unica libertà che posso legittimamente rivendicare non è già quella che oggi viene detta libertà d’espressione, ma la libertà della ragione.

E poi, da ultimo, in questo articolo veramente straordinario citava ancora la connessione tra il potere politico e la «repubblica delle lettere», come lui la chiamava, e diceva: «ora, se i cattolici hanno nella Repubblica italiana, parzialmente almeno, il potere politico, quello spirituale è invece esercitato da una Repubblica della cultura e delle lettere che lo somministra con i suoi premi e le sue sanzioni, spesso delegando alla loro distribuzione, perché la beffa risulti completa, intellettuali cattolici».

LA SCRISTIANIZZAZIONE E IL SEPARATISMO.

Questa posizione doveva quindi essere confermata a distanza di anni, nel 1983. Del Noce, ritornando su questo tema della scristianizzazione, prendeva lo spunto da una frase di Gramsci. Diceva Gramsci: «Tutti hanno la vaga intuizione che facendo del cattolicesimo una norma di vita sbagliano, tanto è vero che nessuno si attiene al cattolicesimo come norma di vita, pur dichiarandosi cattolico. Un cattolico integrale, che cioè applicasse in ogni atto della sua vita le norme cattoliche sembrerebbe un mostro, ciò che è, a pensarci, la critica più rigorosa del cattolicesimo e la più perentoria».

Del Noce prendeva molto sul serio queste parole: come a dire che uno che oggi volesse essere integralmente cattolico dentro il mondo moderno apparirebbe una figura anomala, bizzarra, e con ciò stesso si autoconfuterebbe perché si autodimostra come sorpassato dalla storia. E aggiunge Del Noce: «in questo processo di scristianizzazione che è avvenuto senza odio anticristiano, il cristianesimo è sembrato condannato non dalla scienza, ma dalla storia.

Si conviene che è stato vero (nel senso storicistico della verità) in passati periodi della storia: ma oggi non lo è più. La storia, nel cui processo ha avuto una funzione essenziale, lo ha oltrepassato. La vita dei cattolici, anche di coloro che più sinceramente sono persuasi di esserlo, è in partita doppia; è confinata nella sfera di un privato, i cui termini sempre più si restringono; i cattolici non sono tali perché non possono esserlo; in quanto soggetti attivi della storia» (I nuovi e i vecchi zar al capolinea dell’ateismo, Il Sabato, 18 giugno 1983).

E tale impossibilità di agire nella storia dipende dalla «attitudine che direi separatistica che si esplica in varie forme e che non dipende dall’assenza di fervore religioso, ma da una interpretazione della storia. Separatismo che si intende spesso superare, ma non ci si riesce» (ibidem).

Così dunque Del Noce individuava nel separatismo tra la vita privata e la vita pubblica il vero tarlo che erode e rende evanescente, inconsistente la fede dei cattolici. E questo separatismo, lui diceva, per lo più praticamente accettato come ovvio, lo si può definire come un silenzio sul fine ultimo in nome della concretezza dei problemi empirici. Separatismo che viene teorizzato in nome della esistenza dei valori comuni per cui non è importante dirsi cristiani, bensì collaborare su quei valori comuni.

Tutto questo, diceva Del Noce, nell’illusione che esistano valori comuni oltre agli «utilitari», cioè ai valori di immediata utilità. Si pensa spesso a una morale autonoma: questa posizione tipica del mondo cristiano borghese non è più valida dopo la critica che le è stata mossa dal marxismo.

CARTESIO E PELAGIO.

Del Noce aveva studiato con molta profondità questo problema del cristianesimo moderno in un suo studio di grande penetrazione filosofica dedicato a Cartesio, il primo grande pensatore moderno, dal titolo Riforma cattolica e filosofia moderna del ’65, edito da Il Mulino, dove dice testualmente: «La definizione esatta del separatismo cartesiano è il problema centrale del pensiero cattolico contemporaneo» (pag.427). Perché per lui questa separazione della vita del cristiano tra la fede e le opere, tra fede e ragione, tra vita pubblica e privata è proprio ciò che caratterizza larga parte del cristianesimo moderno già nei suoi inizi, e costituisce il suo punto debole.

Egli definirà il pensiero cartesiano come la sintesi di agostinismo e di pelagianesimo, come a dire di una filosofia che insiste sulla interiorità della coscienza unita però ad una concezione della vita per la quale la grazia non ha nessun peso. Come in Pelagio la grazia non salva e non interviene, non è efficace realmente nella vita dell’uomo, così questo cristianesimo moderno è tutto spirituale all’interno ma, come dire, è totalmente profano all’esterno.

Ne Il problema politico dei cattolici, un volumetto che raccoglie due scritti del ’67, dirà che il limite più grande del progressismo cattolico è di bloccare di fatto un processo di conversione. A un certo punto fa una annotazione di grande interesse. Dice: «Posta la radice religiosa dei conflitti contemporanei, il nostro tempo può venir definito come un’età di conversione.

Ora i progressisti cattolici fanno centro del loro pensiero l’apologetica, alla maniera del resto tradizionale dei modernisti; ma avviene che il tipo modernistico di apologetica blocchi le conversioni religiose anziché aiutarle; quando addirittura non porti, e ciò avviene molto spesso, a conversioni a rovescio» (Il progressismo cattolico, in: Augusto Del Noce, Il problema politico dei cattolici, Uipc, Roma 1967, pagina 58).

DEL NOCE E COMUNIONE E LIBERAZIONE.

Abbiamo parlato dello sviluppo del pensiero di Del Noce in questi anni, l’età degasperiana si chiude ma ciò significa un ulteriore accentuarsi della solitudine di Del Noce. Tra la fine di quel modello degasperiano che in un certo periodo gli sembrava foriero di grandi speranze e il progressismo cattolico di quegli anni, Del Noce non ha più spazio né ascolto. Dopo il Convegno di Lucca della DC del ’67, bisogna arrivare al Convegno degli educatori del Movimento Popolare, tenuto a Rimini nel ’76, perché Del Noce ritorni in un palcoscenico pubblico con quella relazione che allora tenne su “La pedagogia della secolarizzazione e il conflitto delle culture”.

Avviene l’incontro con Comunione e Liberazione, un incontro che è segnato sin dall’inizio da una grande speranza, dall’intuizione che qualcosa di nuovo è accaduto nel panorama ecclesiale, culturale e politico in Italia. In un articolo del 1979, in una intervista a Walter Tobagi sul Corriere della Sera (Tra Marx e il capitale rispunta la fede, 3 marzo 1979), Del Noce cita per ben tre volte il nome di CL, lasciando profilare che ancora per lui non tutto è chiaro e però tutte le volte che cita CL la cita come segno di una grande speranza, come segno dell’avvenire, come l’unico segnale che gli si apre in prospettiva per la società italiana.

Nel 1986 scrive su Il Sabato: «Per CL la crisi è crisi di secolarizzazione» (Chi non si ferma al disincanto, 5 dicembre 1986), e questo era per lui il punto nodale, il punto d’incontro. Un’interpretazione della crisi presente che diventa spiegabile a partire dal fenomeno della secolarizzazione, cioè dalla distruzione sistematica della fede cristiana. «Il confronto verte dunque sulla diversa interpretazione della crisi. Se cercassi di condensare in una formula il tratto essenziale di CL a questo riguardo, parlerei di un “disincanto della rivoluzione” che non si accompagna però affatto ad una adesione alla mentalità borghese» (ibidem).

CL cioè non subisce il fascino della rivoluzione perché è come se l’avesse compiuta in se stessa a partire dalla fede, e soprattutto è come se avesse una visione chiara della storia contemporanea per la quale tutto ciò che parte dalla premessa della negazione di Dio e di Cristo, è condannato inesorabilmente, al di là delle intenzioni migliori e più alte, ad una sconfitta. Ancora, in un articolo del 1988 dice: «per intendere Comunione e Liberazione, di quel che propriamente è suo, occorre comprendere che essa concresce con la maggiore espansione della scristianizzazione che si è avuta nella storia d’Italia» (Il Sabato, 17 settembre 1988).

CL comprende che non si tratta semplicemente di anticlericalismo -questo è un fenomeno del passato-, non si tratta neppure di assenza di interesse religioso, «perché invece è grande l’attenzione per le discipline occulte, per la magia, per quanto sa di gnosi, di misticismo eterodosso, di religione orientale» (ibidem). Non si tratta nemmeno di ateismo ed è significativo che Del Noce dica questo, lui che aveva studiato il fenomeno dell’ateismo in maniera sistematica, ma si tratta piuttosto di indifferenza, di una indifferenza che nasce da un giudizio storico, quello per il quale il cristianesimo è un fatto del passato e non costituisce più una possibilità per il presente come tale.

Aggiunge: «se certamente c’è in CL una ripresa dell’aspetto più profondamente tradizionale, la comprensione cattolica della storia, ciò avviene però per una sensibilità tutta nuova ai caratteri di novità della storia presente» (ibidem).

In questo senso esatto, nell’articolo che gli dedicherà dopo la morte, comparso su Repubblica, Angelo Bolaffi, alla domanda sul perché di questo interesse per Comunione e Liberazione cita questa risposta di Del Noce: «solo CL è realmente estranea allo schieramento azionista che culturalmente e politicamente ha gestito il postfascismo» (Il suo mito era Rosmini, Repubblica, 31 dicembre 1989). Perché per CL, il passato da questo punto di vista era proprio il moderno nella sua crisi.

E ancora, in uno degli ultimi articoli comparso su Il Tempo, Del Noce diceva, con una intuizione veramente nuova dal suo punto di vista, «non si tratta di difendere un passato», lui, lui così preoccupato di difendere i valori più autentici della tradizione cristiana, questo diceva, «per CL si tratta del cristianesimo incontrato a partire dal presente» (Davvero CL si è guastata nel crescere?, Il Tempo, 3 marzo 1989).

Così, anzitutto, Del Noce non è più un pensatore solitario, e questo indubbiamente, sul piano personale, esistenziale, gli deve aver fatto grande piacere. Si può comprendere, in maniera significativa, quando usciranno quegli articoli su Il Sabato dedicati ai Tredici anni della nostra storia, che tanta bagarre dovranno suscitare sulla stampa italiana con attacchi a non finire. Ebbene, Del Noce in un articolo che comparirà in mezzo agli altri, esordiva: «Gli articoli di Socci e Fontolan mi hanno procurata la più gradita delle emozioni che un uomo della mia età possa provare: quella di sentirsi vicini i giovani su cui pure non ha esercitato un’influenza diretta» (Soffocare tra le verità impazzite, Il Sabato, 10 settembre 1987).

E ancora, non solo il pensatore solitario non era più tale, ma è come se la prospettiva mutasse, perché è come se il suo pensiero non fosse più semplicemente rivolto ad un passato da difendere, ma capace sempre più di delineare un futuro a partire dal presente. In secondo luogo, in questo rapporto con la realtà di CL, e in particolare con la collaborazione a Il Sabato, un altro punto veniva modificandosi, quanto meno dell’immagine, di quell’immagine non autentica, certamente falsa di Del Noce che i mass-media allora cercavano di consolidare, come una specie di De Maistre cattolico, l’immagine cioè di un grande pensatore, sì, ma conservatore, rivolto al passato e quindi, ultimamente, da relegare in un angolo, da non prendere in considerazione.

Si può dire che anche grazie all’impatto con CL questa immagine si fosse lentamente sbriciolata, tanto che la genesi non è più l’antimoderno, ma come un avvenimento presente, non più la semplice difesa di valori perduti, ma il riaccadere di qualcosa che lui stesso non aveva previsto in questa gratuità, in questa bellezza, in questa novità. In tal modo Del Noce veniva occupando, nella coscienza dell’Italia contemporanea, il posto lasciato vuoto da Pier Paolo Pasolini, se così si può dire.

Scrive nel febbraio del ’75 nel suo diario: «Le cose che Pasolini diceva erano veramente giuste: l’emergere dopo il sessanta del “potere reale” e la relativa sconfitta dei politici. Cominciava il totalitarismo (…). La nuova élite già definita. Gli strumenti neri e gli strumenti rossi (…). Il terrorismo nero uno strumento del consolidamento fascista divenuto totalitario sotto la maschera della permissività. La continuità fascismo-antifascismo. Il problema di quel totalitarismo che il fascismo non riuscì a realizzare perché si trovò davanti la vecchia Chiesa».

Come a dire tutti motivi che rendevano attuale la riflessione di Pasolini e che Del Noce ritrovava suoi, da ripensare e da riutilizzare. Ma, soprattutto, in Pasolini Del Noce ritrovava la consapevolezza della fine tanto del comunismo, quanto del mondo cattolico, due fini parallele e l’emergere, parallelamente, di un nuovo potere, «consumista» diceva Pasolini, «tecnocratico» dirà Del Noce, che usa di questi soggetti in crisi per un disegno complessivo che è suo.

Rimangono le etichette, ma dentro i corpi sono svuotati. In un articolo, sempre pubblicato su Il Sabato, del 1987, questa consapevolezza della fine del mondo cattolico Del Noce la esprime a partire da una data, ben precisa, il 12 maggio 1974, il giorno della sconfitta del referendum sul divorzio.

Diceva: «L’esito negativo del referendum sul divorzio, che non è da dimenticare, e la cui importanza si chiarisce sempre più ogni giorno che passa (…). Quella data ha segnato la fine della speranza di una nuova civiltà cristiana di cui il partito dei cattolici avrebbe dovuto essere l’organo; ha smentito quella che era stata la speranza del ’48. Dopo di allora la DC dovrà ancora, al più, rappresentare una relativa difesa di quel poco del costume cattolico che è ancora rimasto in Italia; e di fatto ha perso la coscienza della difesa che deve esercitare contro il “nuovo potere” (quel nuovo potere di cui parlava Pasolini). Ecco il paradosso: che Pasolini interprete del presente si è manifestato tanto più “cattolico” e capace di intendere il valore della passata filosofia della storia cattolica, della più gran parte delle guide autorizzate del pensiero politico dei cattolici» (ibidem).

E qui cita anche il suo dissenso nei confronti dei cattolici che si erano impegnati contro il divorzio. Diceva allora Del Noce, dopo aver fatto gli elogi della splendida figura di Gabrio Lombardi, però criticandone l’intuizione -non la persona, nobilissima-, l’intelligenza della situazione, diceva «ciò non dipende però dal rilievo dei gravi errori che furono commessi proprio perché si accettò la prospettiva della distinzione dei piani.

I cattolici contro il divorzio vollero fare della difesa della indissolubilità del matrimonio un principio laico, ma questo non era sostenibile, non era più sostenibile. L’indissolubilità del matrimonio ha significato all’interno di una metafisica religiosa e non si può trattarne come di un valore civile autonomo come allora fu fatto.

Il Parlamento aveva allora arbitrariamente legiferato sul divorzio tanto che nessun partito aveva posto tale questione nel suo programma elettorale, ma una volta che la legge era passata, ciò che ragionevolmente si poteva cercare era una sua modifica, e in questo senso io scrissi molti articoli sul Giornale d’Italia di allora e altrove. Partivo dalla considerazione di due tipi di unione, quella fondata sulla indissolubilità del matrimonio e quella sulla ripetizione del sì (…). Per il secondo tipo, che importava il divorzio, occorreva il riconoscimento legale. A parte certe differenze di linguaggio, la proposta coincideva con quella di Andreotti del ‘doppio statuto’».

LE LOTTE DEGLI ULTIMI ANNI.

Gli ultimi anni sono per Del Noce anni di grandi battaglie ideali. Dopo il disincanto verso tanta parte della DC, verso cui pure egli è rimasto legato fino all’ultimo per quello che questo partito aveva significato per i cattolici in Italia, gli ultimi fuochi. Del Noce era in prima fila nella famosa pattuglia degli “esterni” nel 1981, è eletto senatore democristiano, nel 1983 non sarà però rieletto perché il suo collegio elettorale era impossibile.

Ed ecco allora le grandi battaglie. La prima, la più dura, quella contro la segreteria De Mita, perché quella segreteria voleva dire, nel corso di quegli anni, una Democrazia Cristiana di fatto chiaramente subordinata alla nuova borghesia, a quel nuovo potere tecnocratico che andava sempre più imponendosi in Italia. E poi ancora le critiche e le risposte alla Civiltà Cattolica, ai gesuiti, sempre su questi punti nodali, sulla concezione di una presenza dei cristiani dentro la società.

E, in parallelo, le critiche verso il nuovo assetto e la nuova forma del Partito Comunista il quale finalmente si libera del paleocomunismo, ma per approdare paradossalmente nel terreno dell’avversario di sempre, la borghesia egemone. Ecco allora una concezione della realtà italiana per la quale il processo di secolarizzazione ormai rende tutti omologati, affini, per cui tutto si confonde, tutto è uguale, per cui le forze storiche ormai diventano etichette drammaticamente vuote e ciò che trionfa è un’ideologia borghese allo stato puro, quella che si chiama la «superideologia», cioè l’ideologia della società tecnocratica, il «positivismo integrale».

In una sua relazione letta a Pescara nel ’78 dice: «In realtà, dietro questo congedo dell’ideologia, dietro questa critica apparente del totalitarismo, si nasconde un totalitarismo di nuova natura, assai più aggiornato, assai più capace di dominio assoluto di quanto i modelli passati, Stalin e Hitler compresi, non fossero. Dico ‘si nasconde’, ma sarebbe meglio dire che oggi si dichiara abbastanza apertamente: è il superpartito tecnocratico che attraversa i partiti, che ha in possesso le sorgenti di informazione, che cura la propria apologia attraverso la carta degli intellettuali, che è equamente ripartito secondo le varie posizioni culturali e politiche, dai cattolici ai comunisti (…). Se ben si guarda, l’avversario che abbiamo oggi da affrontare è questo: e si vedano quanto siano inadeguate tutte le presenti posizioni culturali e politiche perché si sono formate contro avversari che erano diversi e sono lontani» (Relazione al V Convegno Internazionale di Studi della Fondazione Comunità, Pescara, 3 novembre 1988).

Come dire che le attuali forze politiche si scagliano contro avversari che non esistono più, non accorgendosi che il nemico è diventato un altro e stanno ancora lì a battagliare contro i fantasmi. Ma forse questi fantasmi servono al Potere, per rimanere in piedi ben granitico. Di qui la sua critica a quello che lui chiamava il «piano Scalfari»: vedeva Del Noce nel direttore di Repubblica il più intelligente interprete di questo processo di laicizzazione verso una società tecnocratica, totalmente desacralizzata.

Scalfari, dunque, che non punta più sui partiti laici tradizionali, perché son piccole cose di scarsa potenza politica, ma che invece gioca proprio sul Partito Comunista e sulla Democrazia Cristiana svuotandoli del loro contenuto ideale e facendone i soggetti che realizzano questo progetto di società borghese allo stato puro. Un paradosso: le chiese, comunista e cattolica, usate per realizzare questa società desacralizzata.

Il punto debole dei cattolici, diceva Del Noce, è il momento «rodaniano», così lo chiamava, cioè quella separazione tra la fede e la storia che caratterizza non solo la posizione cattolico-comunista ma anche gran parte della posizione cattolica come tale. Ai cattolici-comunisti Del Noce dedicherà uno studio di grande interesse proprio nel 1981. Di fronte a questa omologazione totale, Del Noce mostrava come era possibile una resistenza: parte della Democrazia Cristiana, anche il partito socialista, non erano certamente omologabili in questo progetto neoilluminista di conciliazione tra cattolici e comunisti.

Ne scriverà su Il Sabato e un editoriale di TrentaGiorni riprenderà questa distinzione per la quale il rapporto con i socialisti era meno pericoloso del progetto scalfariano. Ebbene, proprio questo sarà causa di una critica a lui rivolta da parte dell’Osservatore Romano (1 maggio 1987) che lo tacciava di «pragmatismo» nonché di favorire la «crisi delle ideologie in campo laico».

L’amarezza di Del Noce a tali osservazioni, per la sede in cui erano state espresse, è immaginabile e non ha bisogno di commenti. Una sua risposta all’articolo in questione, inedita, verrà pubblicata da Il Sabato (20 gennaio 1990) all’indomani della sua morte. Di fatto, per Del Noce, non era il problema del rapporto con i socialisti, del tasso di moralità, ma era il problema di sottrarsi a questo nuovo potere che usava dei soggetti in crisi. Su TrentaGiorni, a proposito del rapporto tra CL e i socialisti che fece tanto scandalo nel 1988, scriverà: «Il senso politico di CL è la ribellione a questa egemonia e su questo punto si è incontrata con i socialisti» (TrentaGiorni, ottobre 1988).

Un’egemonia che a lui, negli ultimi anni, appariva ormai estendersi a livello internazionale. Così la stessa distensione tra Est e Ovest, se per un aspetto è indubbiamente un fattore positivo, per un altro aspetto occorre però essere attenti perché quando uno si riposa è la volta che i problemi riesplodono. Ebbene, questa distensione ha una valenza positiva, ma può averne una negativa nella misura in cui può indicare proprio una concezione totale di quella società tecnocratica che è capace di servirsi parimenti di capitalismo e di comunismo in una prospettiva unitaria.

Gli articoli dedicati a Gorbaciov su Il Sabato negli ultimi anni sono indicativi. Attenzione -diceva Del Noce-, stiamo entrando in una nuova Yalta. Scriveva: «Siamo di fronte ad una silenziosa e impressionante “Yalta dei continenti”. La divisione avverrebbe tra il continente europeo e quello nordamericano attraverso un patto capace di garantire, come pochi altri, condizioni di non guerra (…). Ci sono i segni di un impero mondiale che somiglierebbe all’impero romano della tarda decadenza: il mondo diviso in un impero di oriente e un impero di occidente, una bipolarità che può ambire al predominio mondiale» (Il Sabato, 10 giugno 1989).

Colpisce tutto questo, in un uomo che aveva quasi ottant’anni, il realismo, la capacità di giudizio così critico e penetrante della situazione presente. Lo rileva Pier Aldo Rovatti, un filosofo, in un articolo su Repubblica all’indomani della morte: «A quasi ottant’anni, quando in genere le biografie dei filosofi convergono verso una fase di obsolescenza o di ormai svuotata ripetizione, Del Noce appariva invece straordinariamente presente, non solo per la sua attività, ma anche per l’attualità dei suoi interventi e delle sue ricerche» (“Il filosofo della crisi”, La Repubblica, 31 dicembre 1989). E detto da un pensatore laico, di sinistra, era un riconoscimento di tutto rispetto.

Un realismo in Del Noce connesso al cristianesimo come capacità di interpretare la storia presente, tale per cui la verità del cristianesimo emerge nel suo dar ragione della storia nella sua realtà. Donde il suo differenziarsi dall’idealismo cristiano corrente per cui non il cristianesimo deve giustificare la storia, ma esso deve piuttosto giustificarsi di fronte alla storia. Donde ancora il paradosso dell’unico filosofo della politica cattolico, per il quale l’essere cattolico non era un’etichetta, incompreso dai cattolici e viceversa tenuto in gran conto dai laici proprio perché in lui la crisi presente trova una sua reale comprensione, una comprensione che interrogava e metteva in discussione dal di dentro lo stesso pensiero laico che veniva così provocato in termini radicali.

Non a caso i riconoscimenti a Del Noce sono venuti tanti e fitti proprio da parte del pensiero laico e anche dal pensiero comunista e tra laici e comunisti ebbe amici. MondOperaio, la rivista del partito socialista, gli dedicherà più di un saggio, ed era un caso unico tra i pensatori cattolici, ma in maniera significativa l’attenzione gli verrà proprio, pur considerandolo un avversario, ma avversario di grande rispetto, da Repubblica, cioè dall’organo di informazione che lui considerava come il centro di quella visione ideologica della società che i cristiani erano chiamati a superare e criticare. Paolo Flores d’Arcais, un pensatore laico direttore di Micromega, in un inserto di Repubblica, dirà prima della sua morte: «Augusto Del Noce è oggi, in Italia, il massimo filosofo cattolico. L’unico forse» (‘Mercurio’ di Repubblica, 22 aprile 1989), e significativamente Micromega, la rivista dei socialisti di sinistra e comunisti del dialogo, pubblicherà parte del carteggio tra Del Noce e Bobbio.

E ancora lo stesso, già citato Pier Aldo Rovatti, diceva che Del Noce come figura intellettuale ha sempre goduto della stima e del rispetto anche di chi si trovava nel campo opposto. Era per gli avversari un pensatore intelligente, un filosofo di grande serietà, acuto, disponibile, con cui era gradevole cercare il dialogo e la cui opinione era comunque preziosa.

E infine Claudio Napoleoni -il pensatore di sinistra, il maggiore economista del partito comunista, che aveva collaborato con Rodano e di cui nel 1989 sono comparsi quegli scritti sulla laicità a cura di Editori Riuniti (Franco Rodano, Cercate ancora. Lettera sulla laicità e ultimi scritti, Roma 1989)- che proprio attraverso Del Noce ripenserà il proprio comunismo e approderà al cristianesimo riscoperto come fattore necessario per la liberazione anche politica dell’uomo contemporaneo dall’alienazione della società opulenta e tecnocratica.

Come dire, una serie di figure che, interpellate da quasi nessun pensatore cattolico contemporaneo, qui si trovano provocate nel vivo. Testimonianze significative, non retoriche, non retoriche perché Del Noce non fu mai un uomo di potere. Umilissimo: chi l’ha conosciuto lo ricorda nella sua straordinaria semplicità, in quella capacità che aveva di stupirsi come un bambino di fronte a quello che gli si diceva, e con quella capacità di domandare, di chiedere, di stupirsi ancora, di vedere i problemi con lo stesso interesse e con la stessa passione di un ragazzo di vent’anni.

Testimonianze significative, omaggio reale ad una persona il cui pensiero rimane certamente come una delle guide più preziose per orientarsi nel mondo contemporaneo.