Ma il genoma non realizzerà l’utopia della perfezione

genomaAvvenire, 6 luglio 2000

di Alfredo Cattabiani

In un recente articolo pubblicato su un quotidiano che si considera autorevole un giornalista, parlando del genoma, sosteneva tanto entusiasticamente quanto incautamente che grazie a questa scoperta si sarebbero potuti programmare in futuro uomini buoni eliminando i fattori genetici che contribuivano a formare criminali e malandrini.

Finalmente la scienza avrebbe potuto realizzare quell’utopia che le rivoluzioni del secolo XX non erano riuscite a compiere: la nascita di una società di persone tutte buone, solidali, non inclini al delitto. Insomma un nuovo Eden secolarizzato. È un’illusione che serpeggia da qualche secolo nella psiche di filosofi e scrittori, i quali respingono nevroticamente la tragica realtà della natura umana, capace di atti di eroica santità come di atroci abiezioni.

In tutte le tradizioni religiose invece si sottolinea che la condizione attuale dell’uomo è segnata dalla finitezza e dalla debolezza morale. Ogni tradizione spiega questa condizione in modo diverso, o come “caduta” nel mondo fenomenico, o come conseguenza di una colpa originaria che ha ferito l’umanità.

“Tutte le tradizioni orientali – scriveva Joseph de Maistre, di cui ho curato l’antologia Breviario della tradizione (Il Cerchio) – si iniziano con uno stato di perfezione e di luce, dirò anzi di luci soprannaturali; e la Grecia, la Grecia ingannatrice che nella storia ha tutto osato, ha reso omaggio a questa verità situando la propria età dell’oro all’origine delle cose”.

Per la Rivelazione cristiana questa colpa è il peccato originale, un peccato di superbia, come già aveva spiegato il libro del Siracide: “Inizio di tutti i peccati è la superbia”. Così fu il peccato di Lucifero nel tentativo di una impossibile autosufficienza ontologica; lo fu anche per Adamo ed Eva, come desiderio di una conoscenza pari a quella del Creatore: una tentazione che si ripropone costantemente nella storia del pensiero umano.

Dal rifiuto della fragilità dell’uomo sono nate le eresie moderne: in primo luogo la fede patetica nella bontà degli istinti non repressi dalla società, di cui fu primo teorizzatore Jean-Jacques Rousseau, e l’ottimismo anarchico nelle sue molteplici variazioni.

Giustamente Giacomo Noventa osservava che l’”origine di ogni errore consiste nell’idea di perfezione originaria dell’uomo”. Una seconda eresia secolarizza la escatologia cristiana in una dimensione solo terrena, sostenendo in una visione ingenuamente evoluzionista (ma non è forse ingenuo tutto l’evoluzionismo, come ha dimostrato fra gli altri Giuseppe Sermonti?) che l’uomo è ontologicamente perfettibile.

Invece la riaffermazione della caduta originaria permette di non evadere dalla realtà, di osservarla con sguardo lucido nella sua dialettica fra bene e male, eroismi e viltà, e di non soggiacere a un altro falso dogma dell’epoca: la convinzione che la storia dell’umanità sia una crescita inarrestabile dall’inferiore al superiore, dall’irrazionale al razionale, dall’imperfetto al perfetto.

(A.C. Valdera)