La fine della civiltà

Benedetto Croce«Quaderni della “Critica” diretti da B. Croce»,

novembre 1946, n. 6.

 di Benedetto Croce

Nel corso e al termine della seconda guerra mondiale si è fatta viva dappertutto la stringente inquietudine dì una fine che si prepara, e che potrebbe nei prossimi tempi attuarsi, della civiltà o, per designarla col nome della sua rappresentante storica e del suo simbolo, della civiltà europea. Qualche accenno ce ne fu già, dopo la prima guerra, nelle elucubrazioni, in verità poco persuasive, di apocalittici scrittori tedeschi, fabbricatori di paradossi, le quali per altro non si convertirono in un sentimento largamente diffuso, come accade ora.

Ed è un sentimento, in questa forma e in questa estensione, nuovo nei secoli della storia europea, nella quale lo stesso trapasso dal mondo grecoromano al medievale, nonostante le devastazioni e distruzioni dei barbari invasori, serbò un senso di continuità, cosi per effetto della persistente idea di Roma come per il cristianesimo che raccolse molte parti dell’eredità del mondo antico. La continuità fu reintegrata e più vivamente sentita agli inizi dell’età moderna, intensi di opere e di fiducia, per la formazione dei grandi stati, per le scoperte e conquiste di terre oltre l’oceano, per la cultura rapidamente crescente nei vari popoli d’Europa, per gli arditi spiriti innovatori in religione, in filosofia e in scienza; e, nel secolo decimottavo, si foggiò il suo mito nella teoria del progresso irrefrenabile e nella potenza della ragione riformatrice.

Nè il parziale fallimento di questa ideologia intellettualistica e delle facili speranze tolse la fede, che anzi l’afforzò, temperando o correggendo e fondamentalmente trasformando il radicalismo giacobino nella nuova visione e la congiunta pratica liberale, che sembrava aprire la via al progresso sicuro e graduale, rendendo superflue le pericolose rivoluzioni, apportatrici d’inevitabili rovine, e mantenendo nei popoli civili la persuasione dell’utilità comune della politica di pace. I superstiti dell’ultima generazione dell’Ottocento sono vissuti in questa che ora prende nome di grande illusione, ma che dette ad essi serenità e gioia di lavoro e lo sguardo rivolto a un avvenire che già vedevano libero da molti mali e difficoltà del presente e ricco di beni finora non posseduti.

Ma ora gli animi sono pervasi dalla tristezza, le menti dalla previsione del peggio, e l’impeto fidente, che il buon lavoro richiede, manca, e a stento lo sostituisce il penoso senso de! dovere, a cui non è dato sottrarsi.

Prendo anch’io a ragionare di questo argomento, non per accrescere timori nè per apportare sicurezze, e molto meno per conversare dilettantescamente intorno alle varie possibilità e probabilità e intrattenere le immaginazioni eccitandole e interessandole, come usano gli scrittori di giornali; ma unicamente nei riguardi della idea della storia, della quale giova ben meditare in ogni sua parte la logica, e della idea della forza morale che nella storia ha la sua realtà.

In tale riguardo è da avvertire che per decadenza e fine di una civiltà non s’intendono gli esaurimenti e superamenti e le sostituzioni che spontaneamente avvengono e che quotidianamente si preparano, onde alla civiltà greco-romana successe la cristiano-ecclesiastica e a questa la cristiano-laica o, particolareggiando, alla civiltà dell’umanesimo e della rinascenza quella dell’illuminismo e all’illuministica la liberale, l’ultima che sia nota all’osservatore storico, perchè in queste successioni, e attraverso questi rivolgimenti, la tradizione è serbata, e tutti ancor viviamo, pur con cangiate relazioni e proporzioni e prospettive e accentuazioni, dei pensieri e delle opere e dei sentimenti dei greci e dei romani e della chiesa medievale e dell’umanesimo e del rinascimento e dell’illuminismo, che sono parti attive della nostra anima, per modo che la privazione di alcune di esse sarebbe da noi risentita come una dolorosa o vergognosa mutilazione; e questo è il senso vivo del progresso, conservazione e innovazione ad una.

La fine della civiltà, di cui sì discorre, della civiltà in universale, è non l’elevamento ma la rottura della tradizione, l’instaurazione della barbarie, ed ha luogo quando gli spiriti inferiori e barbarici, che, pur tenuti a freno, sono in ogni società civile, riprendono vigore e, in ultimo, preponderanza e signoria. Allora questi, incapaci di risolvere in sè innalzandola a maggiore e miglior potenza la esistente civiltà, la scalzano, e non solo soverchiano e opprimono gli uomini che la rappresentano, ma si volgono a disfarne le opere che erano a loro strumenti di altre opere, e distruggono monumenti di bellezza, sistemi di pensieri, tutte le testimonianze del nobile passato, chiudendo scuole, disperdendo o bruciando musei e biblioteche e archivi, e facendo altre simili cose, come si è visto e si vede, o che questo accada per ignoranza e incuria, o per allegro spirito di distruzione, o per meditato proposito.

I rappresentanti della civiltà, e coloro che sarebbero disposti e volenterosi di continuarne o ripigliarne l’opera, sono posti in condizioni d’inferiorità e d’impotenza, ancorché l’animo loro resti indomito e non si accasci come chi si vede privo dei mezzi pratici del suo fare e deve ripiegarsi, disperando, su sè stesso in un modo di vivere che è semplice attesa della morte. Di ciò gli esempi non occorre cercarli nelle storie remote, perchè le offrono quelle dei giorni nostri in tanta copia che perfino se n’è in noi attutito l’orrore.

Ma se si vuole questi fatti dominarli con la mente, comprendendoli, e con la volontà fronteggiarli e combatterli, è necessario inibirsi l’inorridimento, non guardarli come innaturali e neppure come extramondani e dovuti all’opera malefica di una potenza nemica della vita, ma spiegarli come elementi della vita stessa e da questa ineliminabili.

I nostri vecchi storici, come Niccolò Machiavelli, sapevano e dicevano che le cose umane dipendono da due potenze, la Fortuna e la Virtù: che era un dire un po’semplice e tuttavia rispondente a realtà, se lo si viene approfondendo e in fine lo si determina nell’altra dualità, dell’impeto vitale e della creatività morale, del duplice ordine delle forze, le vitali od organiche e le morali, ciascuno dei quali ubbidisce alla sua legge che non è quella dell’altro ordine, ma nessuno dei due può far di meno dell’altro, nè è eterogeneo rispetto all’altro, e sebbene l’uno metaforicamente si dica materiale o naturale e l’altro spirituale, in verità sono l’uno e l’altro spirituali, componendo insieme l’unità spirituale, che è unità dinamica o dialettica, la quale ha in sè stessa e non fuori di sè stessa le sue distinzioni, e in sè stessa e non fuori di sè stessa le opposizioni con le quali si svolge la sua vita.

Possiamo noi forse biasimare e condannare i modi e le operazioni con le quali si è formato e si conserva e di volta in volta si riassetta, mercè di terremoti e di eruzioni vulcaniche e d’inondazioni e di diluvii, questo globo terráqueo, senza del quale nè la civiltà umana nè l’uomo stesso sarebbe? E possiamo noi biasimare e condannare i modi con cui si formano i grandi organismi dei popoli e dei loro stati, che sono guerre e distruzioni e conquiste e dominazioni del più forte per condizioni propizie che gli si sono offerte o per capacità che ha potuto con qualsiasi mezzo conducente accumulare?

Gli stessi dolori e strazi che le azioni che essi perseguono recano alle genti umane, o l’una all’altra gente umana, sono pur la condizione senza la quale non sorgerebbero al mondo virtù, bontà, sacrificio, eroismo, libertà, tutto quanto sulla terra amiamo come celeste, veneriamo come divino, e a cui essi offrono la materia che la nuova forma idealizza e supera; tutto quanto ci commuove e ci sublima nella poesia, sin dalla prima grande poesia della nostra civiltà europea, i canti omerici e le tragedie elleniche, cosi pieni di affanni e di orrori, nei quali si levano Ettore e Priamo ed Edipo ed Antigone; quanto ci rasserena di verità nei filosofemi di Eraclito, di Socrate, di Platone, di Aristotele, tutto ciò che teniamo stretto a noi come il tesoro delle nostre anime.

Questo tesoro che si aduna e si può perdere e si perde in parte o in tutto, non è meno perciò il nostro tesoro; e se vogliamo esso, dobbiamo accettare ciò su cui soltanto esso nasce. Almanaccare che l’elemento morale in noi operi da solo è pensiero sciocco, perchè, se così fosse, non avrebbe niente da operare; rinunziare alle leggi della vita per non passare attraverso i colpi e i rovesci che c’ infliggono i bisogni e le necessità delle cose che si dicono naturali e di quelle che si dicono attinenti al corpo dell’uomo, che è un corpo tra i corpi, sarebbe pensiero vile se non fosse assurdo, perchè la vita organica non aspetta il nostro permesso per affermarsi e farsi valere; pretendere che il corpo ubbidisca alle leggi della morale varrebbe tanto quanto pretendere che la morale ubbidisca alle leggi del corpo, e noi che consentiamo alla poesia la sua legge che non è quella della filosofia, e alla vita etica la sua che non è la legge della poesia nè della filosofia, non possiamo chiedere che la guerra e la politica e l’economia, che sono le leggi delle forze vitali dell’uomo, ubbidiscano a quelle della poesia, della filosofia e dell’etica.

Che più? Sono tanto autonome e originali queste sfere che il dovere etico comanda di regola ai singoli individui di servire fedelmente, senza più oltre domandare, i bisogni vitali dei complessi sociali o nazionali a cui essi appartengono, come al soldato di battersi per la sua bandiera senz’altro domandare: onde si vede che quegli uomini stessi di un popolo che hanno inflitto a un altro popolo dolori e distruzioni sono non solo dal loro popolo circondati di gratitudine e di riverenza, ma dallo stesso popolo che dall’azione loro ha sofferto giudicati uomini che hanno tenuto saldamente il posto a loro affidato dal destino e nei casi in cui vengono tacciati di disumanità, questa stessa taccia è giustificata solo quando coincide con quella di avida e d’impreveggente politica.

Che alle forze vitali dei popoli, da quelle che spinsero alle prei­storiche immigrazioni e alle storiche invasioni barbariche dei primi secoli dell’evo medio, e alle conquiste islamitiche, fino alle ultime a cui si è testé assistito e si assiste, sia dalla storia riconosciuto il diritto di attuarsi seminando sangue e desolazione, è cosa che non dà luogo a obiezione; e la stessa religione vieta di ribellarsi alla provvidenza del creatore del mondo, che ha creato il mondo come solo nel suo consiglio, ossìa logicamente, poteva, e perciò nel crearlo ha approvato come buona l’opera sua.

Discende da ciò con pari logica che la Fortuna interviene quando le piace e strappa le tele tessute dalla Virtù; e perciò, che le sorti della vita morale sono sempre in pericolo. È forse, questa indubbia verità, una novità? Certo è un pensiero che, se fosse tenuto presente a ogni nostro atto, se si atteggiasse ad esortazione e giaculatoria, non servirebbe e turberebbe inopportunamente l’azione, dìstraendola e infiacchendola, come i versetti di san Filippo Neri che una pia regina di Napoli mormorava continuamente tra sè e sè: «Sei sana, ricca e bella… E poi?», concludendo che era meglio stare in paradiso che sulla terra.

L’azione si riveste delle immagini che le giovano, e come chi ama non pensa che il solo amore possa e debba finire, cosi chi opera si compiace di vedere il corso delle cose accompagnarlo e favorirlo e rassicurarlo sul raggiungimento del suo fine e sulla durevolezza dell’opera sua, e intesse sopra di ciò un suo sogno.

Ma nell’alta educazione morale questa consapevolezza del pericolo è da coltivare per armare l’uomo nei duri cimenti a cui potrà trovarsi di fronte. E se il pessimista Leopardi con amaro sarcasmo invitava a guardare l’arida schiena dello sterminatore Vesuvio dove furono un tempo città famose da esso fulminate con l’ignea bocca e a meditare quanto l’amante natura abbia in cura il genere nostro, che con lieve moto di un istante annulla iu parte e può con altri di poco maggiori annullare in tutto, lo Hegel da questa possanza della natura accettava la dimostrazione che ogni finito, ogni possesso e ogni vita, perchè accidentale, è fuggevole e morituro, e dalla potenza dello stato la congiunta morale lezione della guerra, che restaura la sanità morale dei popoli facendo sperimentare l’indifferenza verso le sussistenti determinazioni finite e salvandoli cosi dall’impigrire e corrompersi nella troppo lunga pace o nella bramata pace perfetta, come il soffiar dei venti salva le acque dall’ imputridire.

In questa dimostrazione di fatto della vanità delle vanità, della mortalità di ogni finito, rimane intatta e rifulge nella sua forza infinita, contro la Fortuna, la Virtù, la virtù del pensiero, della fantasia, dell’azione pratica e morale, che, vinti i momentanei smarrimenti, ripiglia sempre in condizioni nuove il suo lavoro, raccoglie del passato quanto può, e nel fondo di sè stessa ritrova il passato, perchè l’uomo, formato dalla storia, non potrebbe mai esserne sostanzialmente distaccato senza dissolversi in quanto uomo, e l’atto di andare oltre il passato che si è posseduto è il senso vero di quel che si chiama il progresso e che si compie di continuo nell’uomo morale e per esso nelle umane società.

Altamente Massimo, vescovo di Torino, confortava i cittadini di Milano, ai quali Attila aveva abbattuto le case e bruciato le chiese, chiamandoli a considerare che Dio aveva concesso alle mani dei nemici «non civitatem quae in vobisest, sed habitacula civitatis, non ecclesiam suam, quae vera est ecclesia, sed receptacula ecclesiae», ed esso, il popolo milanese col suo vescovo, benché spaurito e mesto, «tamen in libertate perdurabat». Questa casa, questa chiesa ideale, che sola è reale, l’uomo possiede sempre, e in questa è la sola e degna umana vita. Che cosa altro si può dall’uomo domandare? La storia trova il suo senso nell’etica.

E nondimeno, se l’uomo accetta la morte e la desidera al termine della vita operosa, sembra che mal si rassegni al pensiero della fine della civiltà nella quale è nato, si è educato, ha lavorato ed ha amato e si è travagliato. Egli vorrebbe che quel mondo continuasse per coloro che gli sopravviveranno e per quelli che verranno dopo di lui.

Tutte le opere belle dovute agli uomini di genio, tutti i libri che contengono verità che gli stanno particolarmente a cuore, tutte le istitu­zioni che sperimentò a lui benefiche vorrebbe che avessero sicurezza di avvenire. La sollecitudine è tanto più comprensiva, l’angoscia tanto più tormentosa, quanto maggiore è il numero delle cose che la cultura gli consente di stringere al suo petto.

Vero è che la storia gli narra delle immani perdite di questa sorta che l’umanità ha fatto: delle opere insigni, greche e romane, di cui si sono salvati i soli titoli; di quelle di cui avanzano frammenti che suscitano un deserto desiderio; di quelle che come per miracolo ci pervennero in un unico codice; e poi delle pitture e delle statue e degli edifici che già splendettero sulla terra, e degli ordinamenti del diritto che solo tardi e a stento furono riconquìstati. Ma nelle tregue concesse dalle forze distruggitrici, nelle quali la civiltà tessè e ritessè la sua tela e che pur tra episodiche o parziali distruzioni durarono secoli e millennii, e con le quali si è potuto perfino mettere insieme una cosiddetta «storia universale», a cui è stato attribuito» un principio, un mezzo e una fine, cioè un terminale compimento di mondana od oltremondana perfezione, si è tessuta l’illusione che la civiltà umana sia la formazione a cui tende e in cui si esalta l’universo e che la natura le faccia da piedistallo.

E richiede uno sforzo penoso passare alla diversa visione della civiltà umana come il fiore che nasce sulle dure rocce e che un nembo avverso strappa e fa mo­rire, e del pregio suo che non è nell’eternità che non possiede, ma nella forza eterna e immortale dello spirito che può produrla sempre nuova e più intensa. E la nostra angoscia per la fine delie cose belle e dei monumenti del vero e dei forti e savii ordinamenti e costumi di vita, non è diversa da quella della perdita delle persone a noi care, che hanno ceduto al fato comune, e tuttavia noi irragionevolmente ci ribelliamo protestando contro questo fato, e con ciò unicamente atte­stiamo l’amore che per loro avemmo e che serbiamo oltre la morte e che come tale è forza sempre in noi beneficamente operosa.

Come ho detto, queste considerazioni non nascono da un intento pratico, quasi praeparatìo ad attendere rassegnati l’imminente paurosa barbarie di cui si riconfermi l’ineluttabilità, ma soltanto da una cura di orientamento teorico del pensiero storico, che ha la sua importanza. Praticamente, si sa quale sia il nostro dovere: combattere ciascuno di noi, nella sua cerchia e coi suoi mezzi, prò aris et focis, per le nostre chiese e le nostre case, difendendole fino all’estremo.

Andranno perdute? Resteranno in tutto o in parte? La domanda è oziosa, perchè la risposta non appartiene a nessuna delle due parti in lotta, ma al corso della lotta che le supera entrambe. Ma, anche nel caso peggiore, il partito da prendere non è dubbio, perchè è il solo che non abbassi la vita spirituale dell’uomo nella sua integrità a quella mutilata ed abietta del vivere pur che sia. Quel partito, come abbiamo già detto, è la coincidenza dello spettacolo della storia con la verità dell’etica.