Italiani dalla Crimea al gulag

italiani-CrimeaAvvenire, 25 ottobre 2007

Oltre un migliaio di discendenti di nostri connazionali, partiti nell’Ottocento dalla Puglia verso il Mar Nero, nel 1942 furono deportati da Stalin in Kazakistan come spie. Almeno 500 morirono già durante il viaggio. Un libro ne racconta per la prima volta la tragedia sconosciuta.

Solo uno su dieci è rientrato a Kerc, dove c’è una comunità «italiana» di 350 membri. Vivono da poveri e vorrebbero la nostra cittadinanza, ma non possono dimostrare le loro origini perché i sovietici hanno distrutto ogni documento. Tornare in patria? Sì, ma solo come badanti

di Roberto Beretta

Dev’esserci una specie di gemellaggio implicito tra l’Italia e la Crimea. Due terre che sembrano sorelle non solo per la conformazione peninsulare, che spinge la seconda all’interno del Mar Nero così come la prima si fa bagnare dal Mediterraneo; e nemmeno perché godono ambedue di un clima felice per le vigne.

Anche la storia ha accomunato il nostro Paese con l’attuale repubblica autonoma collegata all’Ucraina: cominciando dalle colonie mercantili fondatevi in età medievale da Venezia e soprattutto Genova e giungendo fino ai 15 mila bersaglieri inviati nel 1855 da Cavour, strano corpo di spedizione spedito fin laggiù più che altro per acquistare benemerenze «risorgimentali» presso gli alleati inglesi e francesi.

Ma la Crimea ha stretto anche un gemellaggio di sangue con l’Italia, dacché la minoranza italiana ivi residente fu perseguitata, deportata, sterminata in più riprese dal regime sovietico: una piccola e poco nota storia che ora viene documentata da Giulia Giacchetti Boico e Giulio Vignoli ne La tragedia sconosciuta degli italiani di Crimea (pp. 302, euro 15).

Una storia ancora «scomoda», se è vero – e lo è – che il saggio trilingue ha dovuto essere stampato in Ucraina e grazie a una sottoscrizione ed è reperibile solo rivolgendosi agli autori (0185/669510 oppure vignolirusso@libero.it).

La minoranza italiana in Crimea si era formata nell’Ottocento, grazie a due «ondate» migratorie provenienti soprattutto dalla Puglia intorno agli anni 1830 e 1870. Si trattava in maggioranza di contadini (le terre di Crimea passavano per fertili ed erano quasi incolte) e di marittimi: pescatori, addetti ai cantieri navali, marinai e piloti, particolarmente abili a guidare le navi nello stretto tra Mar Morto e Mar d’Azov, dove sorge il porto di Kerc. Fu questa la città prediletta dagli italiani, che nel 1840 vi costruirono anche una chiesa.

All’epoca della rivoluzione bolscevica, i nostri connazionali in Crimea erano da due a tremila (per la verità qualcuno arriva fino alla cifra di 5000) e costituivano il 2% della composita popolazione della penisola, all’epoca comunque in maggioranza tartara. Ma i guai per quegli italiani cominciarono poco dopo. A metà degli anni Venti ricevono la visita di vari connazionali comunisti fuoriusciti, tra i quali l’ex deputato Anselmo Marabini, il cognato di Togliatti Paolo Robotti e Giuliano Pajetta, fratello del più noto Giancarlo.

Costoro cominciano a far chiudere la chiesa, trasformandola in palestra e rispedendo in patria il parroco, poi fondano una cellula del Pci, quindi cercano di convincere i piccoli proprietari a riunirsi in un kolkhoz «italiano» intitolato a Sacco e Vanzetti. L’idea della collettivizzazione ovviamente non incontra affatto il gradimento degli interessati e comincia quindi un’attività di repressione, arresti ed epurazioni per convincere i più riottosi.

Qualcuno fiuta il pericolo e ne approfitta per tornare a casa: nel 1933 la percentuale di italiani sulla popolazione totale è già scesa all’1,3%. Chi scappa deve abbandonare le proprietà, ma almeno si salva la pelle. Sugli altri nel 1933 e nel 1937 si scatenano infatti le purghe staliniane: tra gli italiani di Crimea si verificano molti casi di persone arrestate, fucilate, deportate nei gulag siberiani e mai più tornate.

L’autrice del libro Giulia Boico ricorda ad esempio i 4 fratelli della nonna, dei quali due furono subito condannati a morte, due vennero deportati e solo uno riuscì a sopravvivere al lager. La seconda ondata di persecuzioni risale invece ai primi mesi del 1942, poco dopo la fine dell’occupazione tedesca di Kerc: il 29 gennaio i sovietici cominciano le deportazioni degli italiani, usando gli elenchi etnici compilati dai nazisti – che pare avessero scambiato i discendenti dei nostri connazionali per ebrei.

Ai fermati viene concessa un’ora e mezzo per radunare il bagaglio, poi vengono imbarcati e inviati sulla sponda orientale del Mar Nero, di lì in vagoni piombati fino a Baku, quindi attraversano il Mar Caspio infine di nuovo in treno raggiungono varie località del Kazakistan.

Il viaggio dura quasi due mesi e la maggior parte dei bambini e dei vecchi muoiono per la fame e il freddo; in generale si stima che almeno 500 italiani siano periti durante il trasferimento. «I cadaveri -scrivono Boico e Vignoli -vennero abbandonati nelle stazioni dove il convoglio sostava».

Per il resto il treno si fermava in mezzo alla steppa una volta al giorno, quando era concesso ai prigionieri di scendere nella neve per i bisogni fisiologici. Ma anche dopo l’arrivo alla meta la tortura non era finita.

I deportati vivevano in baracche e a lungo non ricevettero nessun tipo di vitto; dovevano arrangiarsi mangiando radici ed erbe commestibili raccolte nei boschi. Si sa di alcuni che vennero divorati dai lupi durante le uscite.

Ma non solo per questo le fughe erano quasi impossibili (pare che solo una donna sia riuscita a rimpatriare, usando i documenti di una russa morta); c’era anche una costante sorveglianza della polizia. Inoltre i deportati erano spesso arruolati per svolgere periodici lavori pesanti nella cosiddetta «armata del lavoro».

Il libro raccoglie la testimonianza di un reduce dalla colonia italiana in Crimea: fuggito fortunosamente da bambino con la madre, riuscì a tornare in patria con i resti dell’Armir nel 1943. E l’Italia, che pure all’epoca passava i mesi più duri della sua guerra, gli sembrò un paradiso in confronto alla Crimea: non si doveva mangiare solo grano bruciato e l’Opera Balilla gli diede persino un paio di scarpe, il primo della sua vita. Solo alla fine degli anni Cinquanta, dopo la morte di Stalin, alcuni italiani riuscirono a tornare a Kerc, un decimo dei deportati in tutto; nessuno riebbe le sue proprietà.

Oggi i discendenti di italiani in Crimea sarebbero ufficialmente circa 340 (altrettanti sono rimasti in Kazakistan), nel 1992 hanno costituito un’associazione e stanno lentamente restaurando la chiesa, che è l’unica cattolica della città e ha un parroco polacco; vivono molto poveramente e 47 di essi già negli anni Novanta hanno chiesto di riottenere la nostra cittadinanza, ma solo due ci sono riusciti perché per la maggioranza i documenti che attestano le loro origini italiane sono andati distrutti o sono stati confiscati a suo tempo dalle autorità sovietiche come «prove» di spionaggio.

D’altra parte – denunciano con forza gli autori del saggio – la nostra diplomazia dimostra assai scarsa solerzia nei loro confronti. E citano la storia di Eugenia Bassi: figlia di italiani di Kerc, oggi è tornata in Sardegna a fare la badante, ma come un’ucraina qualsiasi.

L’appello – Una minoranza senza diritti

«Noi non chiediamo soldi, ma dei diritti»: con queste parole Giulia Boico, rappresentante degli italiani a Kerc, conduce da anni la sua battaglia in favore della minoranza di nostri connazionali in Ucraina.

In particolare, i discendenti di italiani chiedono il riconoscimento dello status di deportati da parte della Repubblica ucraina e di quella di Crimea, riconoscimento finora rilasciato soltanto a tartari, tedeschi, bulgari, armeni e greci e senza il quale non si può recuperare la cittadinanza ucraina se non dopo un iter quasi impossibile e lungo 5 anni.

Oggi gli italiani non godono dunque degli stessi diritti delle altre minoranze perseguitate, tra cui quello di ricevere sussidi, di erigere monumenti commemorativi per i loro morti, di partecipare ufficialmente alla ricorrenza nazionale del «Giorno della memoria» ogni 18 maggio.

I reduci chiedono inoltre un intervento del nostro governo perché riconosca la cittadinanza ai discendenti italiani che la richiedono. Finora solo il Comune di Milano ha ricordato i «mille italiani» di Crimea, con una lapide inaugurata in un parco cittadino nel 2005.

(R. Be)

(A.C. Valdera)