Il triangolo della jihad africana

boko_haramLiberal, 13 febbraio 2008

di Justo Lacunza Balda
(Rettore emerito del Pontificio Istituto di Studi arabi e di Islamistica)

La guerra sembra il pane quotidiano del continente africano. Il Ciad è l’ultimo anello di una catena che si aggancia al Kenya e che attraversa altri Paesi – dal Niger alla Somalia – dove, per ora, è la guerriglia ad agire.

In Occidente molti sono tentati di analizzare quanto sta accadendo con un’unica lente: quella degli scontri tribali fingendo d’ignorare che le centinaia di morti e di sfollati, soprattutto nella capitale N’djamena, sono il pesante bilancio di un’operazione islamica che è appoggiata militarmente dal governo sudanese.

E che è parte di un disegno strategico: aprire in Africa – dopo l’Asia, con l’Afghanistan, e il più vicino oriente con l’Iraq – un nuovo fronte. Le autorità di Khartoum sono determinate a continuare la conquista islamica: la storia tragica del Darfur lo dimostra in modo palese con le incursioni dei Janjaweed o guerrieri jihadisti, gli stessi che adesso si spingono anche in Ciad.

Come è già successo in Kenya dove, qualche mese prima delle elezioni, gli islamisti si erano apertamente schierati con Odinga, leader dell’opposizione al governo. Qui il fondamentalismo islamico si è rafforzato anche con l’arrivo di migliaia di rifugiati somali, molti dei quali si affiancano alla corrente integralista che insegue l’egemonia dell’Islam in tutta la nazione africana.

Il militarismo islamico del Corno d’Africa ha già cambiato la storia del Kenya e di quella dell’Africa orientale. Uganda e Tanzania, e soprattutto Zanzibar, continuano a subire le scosse islamiste da parte dei leader musulmani che vedono gli eventi in Kenya, Sudan e Ciad come una vittoria della jihad islamica. È una conquista che non comincia adesso. Nel museo di El-Obeid si conserva ancora la bandiera verde che accompagnava al-Mahdi (1844-1885) nelle sue imprese guerriere. Sulla bandiera si può leggere il testo della professione di fede islamica. Proprio come nella bandiera dell’Arabia Saudita.

Il leggendario jihadista sudanese dichiarò guerra aperta all’impero britannico nel nome dell’Islam e lo spirito della jihad di al-Mahdi continua oggi ad alimentare le ambizioni egemoniche degli islamisti africani. C’è stato anche un altro guerriero musulmano, al-Hajj Omar (1797-1864), che organizzò le cosiddette “guerre sante” per islamizzare le tribù dell’Africa occidentale e assoggettare le popolazioni africane alla religione musulmana. Entrambi consideravano la jihad come la via maestra del Profeta per combattere le religioni africane e imporre con la forza l’Islam.

Quello che è cambiato è lo strumento della conquista: una volta erano gli eserciti, adesso c’è anche il terrorismo, con al Qaeda in prima linea. Oggi il continente africano è diventato il nuovo campo dell’islamizzazione da parte di quei movimenti (e degli Stati che li appoggiano) che considerano l’Africa una “preda musulmana” e che s’inseriscono nelle guerre civili o negli scontri tribali come succede anche in Nigeria, Somalia, Tanzania e Zanzibar.

Lo slogan «l’Africa è musulmana» vuole cancellare anche l’idea di “nazioni indipendenti” uscite dal colonialismo e contagia Paesi come Burundi, Costa d’Avorio, Ghana, Malawi, Rwanda e Zambia. Come Hamas e Hezbollah in Medio Oriente, i Talebani in Afghanistan e in Pakistan o la Jamiyya Islamiyya in Indonesia, anche le forze islamiste africane dichiarano la jihad, alimentano il sogno della conquista del potere, diffondo l’odio contro gli ebrei e la violenza contro i cristiani.

Tutto questo da all’Islam in Africa una impostazione militarista che non si conosceva all’inizio del periodo delle indipendenze nazionali. Bisogna dirlo molto chiaramente: quello che sta succedendo in Africa non è soltanto un fatto tribale, una questione etnica o una lotta per accaparrarsi le risorse naturali come i minerali o il petrolio, ma è una vera e propria islamizzazione.

La storia dell’espansione araba e delle conquiste musulmane si rinnova sul suolo africano. Come successe ai tempi delle campagne militari musulmane (al-maghazi) dopo la morte del Profeta a Medina nel 632. I califfi, chiamati i «ben guidati», in nome della jihad islamica, organizzarono le invasioni fuori dal territorio della Penisola Arabica e si lanciarono con gli eserciti contro le province asiatiche e africane dell’impero romano d’Oriente e contro l’impero persiano.

Fino al periodo della massima espansione del Califfato, la più grande istituzione politico-religiosa dell’Islam, e dell’impero arabo-islamico. Fu Kemal Ataturk (1881-1938), il fondatore della Turchia moderna, ad abolire il Califfato nel 1924, lasciando una ferita profonda nel mondo musulmano fino ai nostri giorni.

Percorrendo la storia musulmana ed esaminando rapidamente l’elenco delle terre conquistate dall’Islam sin dai primi venti anni, ci si rende conto di come gli arabi avevano teorizzato e realizzato una specie di trinomio dell’islamizzazione: invasione, espansione, insediamento. I difensori della nuova religione nata in Arabia conquistano la Palestina nel 634, Gerusalemme nel 639, Damasco nel 635 e la Siria nel 640. Fra il 637 e 651 le armate musulmane impongono la legge islamica, islamizzano le popolazioni e sconfiggono l’impero persiano.

E se questo non bastasse l’Egitto viene islamizzato dal 632 al 646. Sotto la dinastia degli Omayyadi, fondati da Muawiyya ibn Abu Sufyan, che aveva scelto Damasco come capitale dell’impero arabo musulmano, l’espansione islamica riprende a ritmo sostenuto, gli eserciti musulmani continuano la jihad dove prima c’erano antiche comunità cristiane.

Entro il 705 tutta l’Africa settentrionale viene conquistata, islamizzata ed è sotto dominazione degli arabi musulmani. Qualche anno dopo, nel 711, gli arabi inizieranno anche la conquista della Spagna sotto la guida del generale Jibal Tariq, che diede il nome a Gibilterra. Seguiranno lunghi anni d’insediamenti musulmani nel Mediterraneo, dal Portogallo alla Sicilia, alle coste mediorientali.

Ma c’è un altro filo conduttore nella storia dell’Islam: ogni buon musulmano deve diventare un sostenitore della causa islamica. La vera sfida di al Qaeda è questa: scuotere l’inerzia dei musulmani e indicare loro i tre fronti sui quali combattere, cioé quello degli americani, degli ebrei e dei cristiani. È questo che dicono tutti i documenti scritti e le dichiarazioni video dell’organizzazione di Osama bin Laden e che ripetono anche molti degli imam nelle moschee. Di questa ideologia ognuno da una sua interpretazione pratica: la jihad è combattimento, lotta, conquista che può essere realizzata con la propria impronta.

Che sia quella personale o quella della cellula alla quale si appartiene senza, necessariamente, l’esistenza di un’unica cabina di regia. Sapendo, tuttavia, di essere parte di una rete jihadista mondiale. Ecco perché c’è una grande varietà di forme, ma alla fine il concetto della jihad, in tutte le sue traduzioni concrete è sempre lo stesso.

E l’Africa non fa eccezione. Lo aveva già sottolineato Abdullah Saleh al-Farsy (1904-1982), pensatore e traduttore del Corano in lingua swahili negli anni Settanta: «la jihad si fa con la parola, con gli scritti e con la guerra». È in questa visione di un rilancio dell’espansione musulmana e della jihad che deve essere letto quello che sta accadendo nell’Africa contemporanea. Con un punto di svolta ben preciso: gli attentati di al Qaeda a Nairobi (Kenya) e Dar es Salam (Tanzania) nel 1998 contro le ambasciate degli Stati Uniti.

Da allora sono ormai passati dieci anni che hanno rafforzato ulteriormente l’integralismo islamico che si era già schierato contro l’Occidente ed anche contro la presenza della Chiesa cristiana nel continente. È interessante notare che già durante gli eventi tragici del 1994 in Rwanda, nessuna moschea o istituzione islamica fu mai attaccata mentre furono torturati e uccisi missionari cattolici e saccheggiate chiese cristiane.

E negli ultimi mesi gli attentati contro le missioni e i missionari si sono intensificati. Scontro di religioni? Non è la formula giusta, ma è un’altra prova che l’islamismo militante avanza dietro i conflitti e le guerre in corso in Africa. C’è ancora un concetto classico dell’Islam, nato ai primi tempi del Profeta, che torna di grande attualità per capire quello che sta accadendo: sono gli ansar – che possiamo tradurre come i “sostenitori, i vincitori” – a impostare tutto il discorso sulla jihad, l’espansione musulmana e il radicamento dell’Islam.

Il summit dell’Organizzazione della conferenza islamica (Oic) di quest’anno, per la seconda volta nella sua storia, si terrà a Dakar (la capitale del Senegal) tra un mese esatto: nei giorni 13 e 14 marzo. Questo non sembra davvero un caso: i moderni ansar si riuniranno proprio in Africa e 21 degli Stati membri dell’Oic, su 56, sono già africani. Ci sarebbe da augurarsi che da loro vengano almeno parole di moderazione. Ma non è detto che sarà così.

(A.C. Valdera)