Finché c’è tempo svegliati!

BanlieuLiberal, dicembre 2006/gennaio 2007

 Il mondo ha bisogno che il Vecchio continente recuperi la sua identità

di Michael Novak

Guardando la televisione dall’America, sembra che l’Europa abbia smarrito ancora una volta la propria strada e che stia per ripetere nel Ventunesimo secolo i gravi errori del Ventesimo. Le mie frequenti visite al Vecchio Continente non hanno dissipato tale timore ricorrente.

L’Europa sembra abbia un legame particolare con il collettivismo. In particolare Francia e Germania si rifiutano di trarre insegnamenti dal recente passato e hanno senz’altro un timore sdegnoso della libertà, soprattutto nell’iniziativa economica (basti considerare con quale disprezzo si rivolgono agli «anglosassoni»).

Per di più, le élites europee hanno fanno di tutto per inaridire ed eliminare il cristianesimo: esse hanno privato l’Europa della fede in Dio e hanno «ripulito» il continente appena in tempo per la rapida ascesa di una nuova fede: l’Islam. L’Islam è una fede prolifica di bambini, vitalità, passione e fiducia nella vittoria a lungo termine. Ciò che i musulmani del Diacissettesimo secolo non riuscirono a compiere a Vienna o nel Sedicesimo secolo a Malta o Lepanto, stanno iniziando a realizzarlo nell’Europa attuale, che si sta avvicinando irresistibilmente a diventare Eurabia.

Tutto questo è apparso evidente nella «Francia in fiamme», durante le notti tra il 26 ottobre e il 10 novembre 2005. In questo periodo, da un capo all’altro di oltre trecento città francesi, sono state date alle fiamme più di millecinquecento automobili ogni notte (persino nelle notti più «pacifiche» nel 2005 è stata incendiata una media di 60 automobili per notte).

Guardando le immagini televisive dei giovani coinvolti, mi ha colpito il fatto che essi non sembrassero poveri né «arrabbiati»: il loro abbigliamento era alla moda e costoso, sullo stile dei gangsta rappers a noi noti negli Stati Uniti, e i loro volti trasmettevano una certa esultanza. Ho appreso in seguito che questi giovani sono al soldo dello Stato, tramite indennità di disoccupazione: sono pagati per non lavorare.

Ciononostante, essi non guadagnano reputazione dallo Stato o dalla società: nei mercati occupazionali francesi, Hamid, Hassan e Abdul non sono ritenuti uguali a Pierre, Paul e André, e proprio ora capiscono che non potranno mai esserlo. È garantito loro alloggio, vitto e vestiario, per il resto sono lasciati vagare per il Paese.

Costoro notano negli occhi degli altri una considerazione inferiore rispetto alle persone colte, che hanno prospettive, iniziativa ed energia per contribuire alla gloria della Francia. I provvedimenti del governo francese hanno mostrato al mondo che il governo ha paura di questi giovani. Quando, in precedenza, questo stesso governo disse agli iracheni che l’Islam non è compatibile con la democrazia, ha detto in sostanza a questi giovani che anche la loro esistenza è incompatibile con la democrazia, perlomeno in Francia.

Nei volti di questi giovani si intuisce che essi sapevano che il governo francese e il popolo della Francia avevano paura di loro, e hanno gioito per questo. Essi ricorderanno questa lezione.

In tutti questi avvenimenti deplorevoli, notiamo come l’Europa abbia dimenticato ciò che la rese grande, sul piano della nobiltà d’animo e dei conseguimenti spirituali, del coraggio e della vittoria in battaglia. L’Europa ha smarrito la propria strada.

Quattro fonti di grandezza passata

L’illustre sociologo americano Rodney Stark ha appena pubblicato un libro intitolato The Victory of Reason, che tratta dei segreti che portarono allo straordinario impeto dell’Europa nel corso degli ultimi mille anni, che la rese superiore a tutte le altre civiltà nel grado e nella profondità dei propri talenti e delle proprie capacità.

Egli cita un recente saggio di alcuni studiosi cinesi: «Una delle cose che siamo stati chiamati a esaminare a fondo è stata la causa del successo, o meglio, della preminenza dell’Occidente in tutto il mondo. Abbiamo studiato tutto ciò che ci è stato possibile dal punto di vista storico, politico, economico e culturale. Inizialmente, pensavamo che fosse perché voi avevate armi più potenti rispetto a noi.

Poi pensammo che fosse perché avevate il miglior sistema politico. In seguito ci soffermammo sul vostro sistema economico. Tuttavia, nei vent’anni passati, abbiamo compreso che il cuore della vostra cultura è la vostra religione: il cristianesimo. Questo spiega perché l’Occidente è così potente. Le fondamenta morali cristiane della vita sociale e culturale hanno reso possibile l’emergere del capitalismo e successivamente la riuscita transizione alla politica democratica. Non abbiamo dubbi su questo (p. 232)».

Lo stesso Stark concorda pienamente con questa analisi e offre quattro motivazioni fondamentali in proposito. Secondo lui, ciò che la fede cristiana ha dato all’Europa non fu soltanto la sua concezione di unità come civiltà unica, ma questi quattro grandi doni di civilizzazione: la fede nella ragione, a cominciare dalla fede nel progresso nella teologia (ad esempio nel definire la Trinità, la natura e la persona); la fede nella creatività nella tecnologia e nell’innovazione organizzativa, come nei monasteri, che furono i primi centri di attività capitalista e di organizzazione transnazionale; la fede nell’uso della ragione e nella libertà in ambito politico e nella costruzione dello Stato, come nelle prime città medievali, non ultimo in Italia; la fede nell’applicazione della ragione al commercio, derivante dallo sviluppo del capitalismo all’interno di porti sicuri forniti da determinate giurisdizioni politiche, in particolare le città del Nord Italia.

Grazie a queste fedi particolari – nell’origine di ogni ragione nel logos; nelle virtù individuali tipiche degli animali razionali, inclini all’indagine, alla riflessione e alla scelta; nei lineamenti di unità civile sotto le leggi universali di natura e di Dio; e nella creatività pratica in ogni ambito – intorno all’anno 1500 l’Europa si trovò a beneficiare da sola, quando altri popoli non li possedevano ancora, di beni semplici come «lenti, camini, orologi attendibili» e «un sistema di notazione musicale».

Ciò che sorprese gli esploratori europei di quei primi secoli audaci, secondo Stark, fu l’assenza in altri Paesi dei sorprendenti progressi tecnologici che essi erano giunti ad accettare come veri. Le persone provenienti da Paesi lontani restavano attonite e meravigliate da questi stessi progressi. Ciò che Stark sottolinea, e che l’attuale generazione di europei sembra portata a dimenticare, è che quello che un tempo fece grande l’Europa proveniva, innanzi tutto, dallo spirito umano.

Più precisamente, proveniva da una visione della grandezza e delle possibilità dell’uomo, derivanti dal Creatore di tutte le cose: una visione intrisa di ragione, libertà e progresso, e anche del dramma del libero arbitrio, del rifiuto e del peccato. Anche coloro che non credono in un Dio simile possono vedere chiaramente come la fede ebraico-cristiana abbia innalzato l’Europa tra i continenti, ispirando una visione di caritas universale, di amicizia e di mutua assistenza tuttora presente, soprattutto nei confronti dei più indifesi. Non è necessario credere in Dio per comprendere con quale forza questa fede spalancò gli orizzonti del talento umano. Per vedere i suoi monumenti, basta guardarsi attorno.

È tuttavia evidente che nel Ventesimo secolo l’Europa si è opposta in maniera decisiva a questa fede, in favore della visione inferiore dell’Illuminismo, in cui si è gloriata eccessivamente. Il Ventesimo secolo ha bagnato il sogno della Ragione universale nello spargimento di sangue universale. Né il comunismo né il fascismo, che un tempo avevano appassionato centinaia di milioni di persone, hanno lasciato molti motivi di orgoglio dietro di sé. Al contrario, l’Europa soffre ancora di incubi, di sensi di colpa e di indegnità.

Per certi versi, è come se gli europei oggi portassero dei segni sulla schiena nei quali si legge: «Colpitemi ancora!». Dove nascono queste ripugnanze nei propri confronti? Quando ci si sente colpevoli e non c’è più alcun Dio, non si ha nessuno a cui confessarsi: resta soltanto un peso insopportabile. L’Europa, dopo il Ventesimo secolo, porta sulle spalle un fardello pesantissimo.

Attualmente, sembra che nel Vecchio Continente predominino due grandi passioni: la pace e la sicurezza. Tuttavia, non si può avere pace se non si è pronti alla guerra; così come non si può avere sicurezza senza essere disposti ad assumersi dei rischi. E pochi indizi lasciano presupporre che l’Europa sia disposta a realizzare queste due cose. D’altro canto, il Vecchio Continente ha ancora molti nobili sogni: questo fa parte della sua eredità. In passato, ciò è sempre costato caro all’America. Pertanto, spero mi scuserete per la franchezza con cui esprimo i miei timori più profondi.

La crisi demografica e la crisi dell’anima dell’Europa

Penso non sia necessario a questo punto esporre i vari aspetti della crisi demografica. Il punto fondamentale è che nell’immediato futuro ci saranno pochi giovani lavoratori che pagheranno i benefits di una vasta generazione di pensionati, che vivranno più a lungo e costeranno di più di qualunque altro gruppo di persone nella storia.

Un fatto ancor più grave da prendere in considerazione, in un’epoca che conta appena un figlio per coppia sposata (con molte coppie che non giungono al matrimonio né ad avere dei figli), è un’Italia in cui pressoché nessun bambino ha un fratello o una sorella, uno zio o una zia, o dei cugini. Mi chiedo se storicamente le famiglie italiane siano mai state così poco fertili e così spoglie, e se sia mai regnata in esse una solitudine tanto acuta… Dal punto di vista dello Stato, famiglie di questo tipo porteranno alla bancarotta fiscale, mentre dal punto di vista delle famiglie, tale solitudine comporterà carenze inimmaginabili sul piano umano.

Inoltre, dal punto di vista delle società civili, queste cifre si risolveranno in una morale debole e in minori risorse, mentre per gruppi etnici, religioni e civiltà rivali, appariranno come segni di debolezza. Se manca la volontà di auto-affermazione, la debolezza si arrende alla sorte.

Che cosa si cela dietro la perdita di volontà dell’Europa? Naturalmente, nel continente ci sono ancora sacche di volontà e rigogliose fonti di vita, ma i pesanti costi psicologici delle guerre e dei salassi e gli opprimenti sensi di colpa della seconda guerra mondiale stanno ancora facendo sentire il loro effetto. L’Europa ha vissuto degli incubi incredibili nel Ventesimo secolo: mai in precedenza erano morti così tanti esseri umani per beni così poco durevoli, o, meglio, per finalità così malevole e perverse.

Possiamo dire che il Ventesimo secolo scaturisca dall’Illuminismo e che lo stile di vita degli europei oggi sia illuministico? L’Illuminismo da solo può reggere le fondamenta di una civiltà e fornire motivazioni e ispirazioni? Si può sostenere che esso sia radicalmente ambiguo e che dipenda effettivamente dal fatto di pensare e vivere etsi Deus non daretur, come se Dio non esistesse?

Evidentemente, un’Europa che si regge esclusivamente sull’Illuminismo non può sopravvivere a lungo: l’Europa che registra un calo della popolazione è un’Europa basata su principi illuministici, ed è più razionale, più scientifica, meno religiosa, meno devota, più mondana e laica, più ricca, più consumistica, più universalmente prossima a vivere etsi Deus non daretur di quanto sia forse mai stata.

Gran parte della «crisi europea» si spiega come crisi dell’Illuminismo. Su questa base, una civiltà non può essere edificata, può solo struggersi come la cera. Infatti, il principio della cultura è il culto: se prescindono dall’adorazione a Dio, gli esseri umani non hanno la possibilità a livello pratico – qualsiasi cosa possa essere sostenuta sul piano teorico – di trascendersi, o quantomeno non nel modo necessario a sostenere una civiltà. Se gli esseri umani non hanno una visione di qualcosa di più grande delle loro stesse nature e che vada oltre i loro limiti, non possono essere tratti fuori da sé e non possono essere ispirati; né si eleveranno come i campanili gotici.

Vi sono naturalmente modi laici per interpretare il termine «trascendenza» in senso strettamente umano, intendendo con ciò la capacità insita negli esseri umani di infrangere i loro stessi record, di andare oltre ciò che è già stato raggiunto e conseguire nuovi obiettivi… Tuttavia, questo non è il tipo di trascendenza su cui si reggono le civiltà o a cui si ispirano le culture. Il vero tipo di trascendenza proviene dall’esterno, è una nuova forma di vita, una nuova natura umana, un elevarsi alla partecipazione al divino.

Questa trascendenza è nota a tutte le religioni ed è percepita da numerosi artisti: si tratta di una nuova dimensione dello spirito umano, che non scaturisce dalle capacità proprie dell’uomo, ma è data dall’esterno. È vissuta come un innalzamento, una novità, una visione e una vitalità che va oltre i poteri propri di ciascuno di raggiungere o di meritare qualcosa. Giunge come un dono. In altre parole, ci sono due tipi di trascendenza.

C’è la trascendenza delle persone laiche, che è e rimane sempre una trascendenza umana, all’interno della sfera delle potenzialità dell’uomo: questa trascendenza non ha bisogno di invocare alcun principio divino. Poi c’è la trascendenza di cui parlano le persone religiose: si tratta di una trascendenza che proviene dall’«alto», di un dono, di un talento o di un innalzamento che proviene da una fonte che può essere descritta solo come il «totalmente altro», una fonte che suscita timore e che è accompagnata da paura (tremendum), e la cui attrazione Platone descrisse come il bello e il bene.

Ci si sente in presenza di «altro», o, come ha sottolineato uno scrittore, del «totalmente altro»; ci si sente vicino come a un amico, nella consapevolezza che questo «altro» è buono e benevolente, ci accetta e ci invia dei cenni. Perciò ci si avvicina a esso con timore, adorazione e supplica. Si confronti un campanile gotico con un grandioso monumento che si innalza verso il cielo. Si possono vedere monumenti siffatti, concepiti come tributi agli uomini che li hanno costruiti, tecnologicamente straordinari e belli dal punto di vista artistico.

Tuttavia, un campanile gotico è qualcosa di più di questo: esso rimanda a qualcosa che va oltre se stesso, indica qualcuno che è «in alto» (non nel senso letterale del termine, naturalmente: esso in realtà indica verso l’interno, a qualcuno che è più grande di noi stessi, che ha una natura differente e superiore). Un campanile non è un vanto per i conseguimenti dell’uomo, quanto piuttosto un segno dell’accettazione dei limiti umani e dell’aspirazione al di là di questi.

Questo spiega perché un campanile gotico è così commovente, mentre un monumento anche più alto è semplicemente impressionante. Quest’ultimo è una sorta di vanteria, il primo è invece un segno di relazione. Il campanile gotico afferma che nell’universo è presente un’alterità, una responsabilità, un incontro.

Il monumento pare suggerire: «Chi prima di noi era in grado di far qualcosa di simile?». Si tratta di due differenti tipi di trascendenza. Soltanto il tipo di trascendenza che rimanda al divino può ispirare veramente una civiltà o una cultura. L’antica cultura cinese, che era terrena nella sua saggezza pratica confuciana, aspirava all’armonia con le stelle e con la volontà celeste. Questo significa che sono proprio le grandi religioni del mondo che hanno informato e ispirato le culture.

Una cultura esclusivamente laica oggi riduce gli esseri umani a creature del caso, li priva di qualsiasi finalità secondo la quale furono creati intenzionalmente e trasforma i principi morali universali in preferenze personali soggettive. Benché spesso promuova una vita altamente morale, una cultura laica non può motivare questo tipo di vita se non attraverso la preferenza, e nella pratica etica essa spesso prende a prestito concetti e persino una sensibilità formati da una precedente eredità religiosa.

I costumi sociali di una cultura laica oggi tendono dunque a dipendere da crediti morali accumulati in passato. Persino valori che si suppone siano laici come la compassione, la libertà, la fratellanza e l’uguaglianza sono in ultima analisi derivati dagli impegni morali ebraico-cristiani, non già dalla Grecia o da Roma o da una qualche fonte puramente filosofica.

Si potrebbe pensare pertanto che le culture laiche siano parassitiche rispetto a culture religiose precedenti; tuttavia, esse svolgono talvolta un ruolo creativo nel mettere in discussione i valori religiosi, portando così all’approfondimento, alla revisione o alla ritrattazione di concezioni passate. Un esempio significativo in tal senso è la lotta per la tolleranza religiosa, che portò a una più profonda comprensione delle basi filosofiche e religiose della libertà di religione.

Le dottrine dell’ebraismo e del cristianesimo hanno molto beneficiato di questa come di altre sfide lanciate dai pensatori laici, così come questi ultimi hanno preso a prestito molto dalle prime. La disputa tra credenti e non credenti è stata assai proficua per la civiltà occidentale nel suo complesso.

Come scrisse in passato il cardinale Ratzinger: «L’Onnipotente desidera essere adorato da uomini e donne liberi». Una delle regioni che mi portano a mettere in luce le profondità religiose della crisi dell’Europa attuale è che gran parte dei pensatori laici europei non ama riflettere su questo punto.

Questa crisi religiosa deve tuttavia essere affrontata, poiché sta diventando sempre più profonda e molti hanno dimenticato persino come riflettere su temi di questo tipo. Inoltre, non può passare sotto silenzio il fatto che quando, nel 1948, l’Europa volle difendersi dall’assorbimento nell’Unione Sovietica, si diresse verso i partiti cristiano-democratici e cristiano-socialisti.

In seguito, quasi a conti fatti, osservando da lontano le scene di sangue in Piazza Tien An Men in Cina, essa si è diretta verso la guida religiosa di sindacati non-violenti come Solidarnosc, a uomini di pace all’interno della Chiesa e ad attivisti per i diritti umani, per trovare una strada pacifica e democratica.

Se si prescinde dalle straordinarie capacità, dal carisma da santo e dalla bontà di Giovanni Paolo il Grande, risulta difficile spiegare come tra gli anni 1978 e 1991 siano stati raggiunti obiettivi tanto straordinari in tempi così rapidi e in modo così pacifico.

Il Papa iniziò il suo pontificato nel tardo autunno del 1978 dicendo che «i due rami» dell’Europa cristiana dovevano e potevano essere riuniti quanto prima. Queste parole apparvero oltremodo utopiche, e ricordo di aver avuto anch’io la medesima impressione la prima volta che le udii. Tuttavia, esse si sono avverate. Sulla base di queste straordinarie esperienze recenti, occorre concludere che ebraismo e cristianesimo sono ancora grandi forze latenti nell’anima dell’Europa: è come se l’Europa laica vivesse ancora del suo patrimonio morale ebraico e cristiano.

Per uno che proviene dall’America, è difficile comprendere per quale ragione coloro che hanno redatto la Costituzione dell’Unione europea non abbiano fatto un riferimento più esplicito al dinamismo dell’ebraismo e del cristianesimo all’interno dell’Europa. L’eredità ebraica e cristiana del Vecchio continente costituisce la sua forza originaria e rappresenta ancora oggi la sua forza più profonda e decisiva.

La vera minaccia che proviene dall’Islam (e quella falsa)

Ci sono però altri aspetti, più laici, nella crisi dell’Europa, sui quali intendo soffermare la mia attenzione. Il primo aspetto, sebbene il sottotitolo di questa sezione potrebbe indicare la religione, è in realtà una minaccia che investe la politica, l’intelligence, i diritti umani e la sfera militare.

È vero che il pensiero islamico tutt’oggi non distingue l’ambito religioso da quello politico, sia a livello analitico che sul piano pratico, come invece fanno gli occidentali. Oggi, ad esempio, noi italiani, francesi, tedeschi, americani non ci concepiamo come «crociati», sebbene un numero considerevole di musulmani scriva e parli secondo questa terminologia. Pur sapendo tanto quanto noi quanto laicista sia ad esempio la Francia, e i loro scrittori migliori spesso scrivano a tal proposito, taluni con ammirazione, talaltri con disapprovazione, questo non li esime dall’includere i francesi tra i «crociati».

Dal punto di vista di alcuni musulmani, l’Islam va considerato come un’unità, e la religione islamica non può essere affatto separata dal califfato islamico, che è unico, unito e universale, né dalla sua avanguardia militare.

Dal loro punto di vista, questa realtà unitaria si è battuta contro gli «infedeli» sin dal principio: l’Islam unitario – che riunisce in un’unica realtà politica, esercito e religione – è stato in guerra contro i «crociati» da quando questi ultimi hanno avuto dapprima l’audacia e il coraggio di resistere, dopo circa quattro secoli di ritirata, e poi la sfrontatezza di attaccare le roccaforti musulmane, da Costantinopoli a Gerusalemme ad Alessandria.

A partire dal 1099, infatti, i musulmani iniziarono a radunare le loro forze per un altro lungo attacco volto a sottomettere definitivamente l’Europa cristiana. Di città in città, in Medio Oriente, essi riuscirono nell’impresa, rafforzando il loro impero. Nell’attacco alle roccaforti cristiane, riuscirono ad arrivare fino alle porte di Budapest, ma furono sconfitti a Malta nel 1565, in una delle più grandi battaglie della storia, e a Lepanto nel 1571.

La loro avanzata via terra attraverso l’Ungheria giunse poi fino alle mura di Vienna, ma fu loro impedito di dividere l’Europa del Nord da quella del Sud grazie alla cavalleria di Jan Sobieski, che portava in prima linea il dipinto di Nostra Signora di Czestohowa. Era l’anno 1683, l’11 e 12 settembre, una data dall’alto valore simbolico, che gli americani ricorderanno a lungo.

Oggi noi, europei e americani, non riflettiamo molto su queste battaglie delle Crociate, che ci appaiono lontane e irrilevanti. Tuttavia, la popolazione musulmana d’Europa sta aumentando molto rapidamente, non soltanto attraverso l’immigrazione, ma anche in virtù delle numerose nascite all’interno delle famiglie.

Dal punto di vista demografico, la morale musulmana è molto elevata: è come se, a differenza degli europei, essi intendessero investire nel futuro con i loro corpi. In vari Stati europei ci sono importanti distretti politici in cui già predominano gli elettori islamici; in alcune città, il numero delle nuove moschee sta crescendo stabilmente, mentre il numero di chiese cristiane frequentate continua a diminuire (in parte per ragioni puramente demografiche, ma probabilmente anche a causa di diffuse lacune nella pratica religiosa).

Inoltre, pare che alcuni dei più ardenti terroristi ed estremisti politici tra i giovani musulmani radicali oggi crescano nelle città europee e siano immigranti musulmani di seconda o terza generazione. Mentre in passato vari musulmani si sono integrati nelle società, nei costumi e nei valori politici europei, oggi sembra che un numero maggiore non stia più compiendo alcuno sforzo in questa direzione, ma, al contrario, si stia contrapponendo a quella che alcuni definiscono la «decadenza morale» dei valori occidentali, altri le priorità politiche dei popoli dell’Occidente.

Fino a poco tempo fa, una delle aspettative delle democrazie occidentali era che tutti gli immigranti abbracciassero quanto prima i valori centrali, perlomeno quelli politici, dei loro Paesi ospitanti. Non è tuttora chiaro però che cosa succederà al funzionamento delle democrazie se gruppi piuttosto grandi di immigranti non intendono soddisfare questa aspettativa.

Secondo una forma volgare di multiculturalismo illuministico, si è presupposto che tutte le culture siano uguali ed essenzialmente compatibili tra loro sul piano delle preferenze morali e politiche, come se sotto la pelle, in fondo ai loro cuori, tutti i popoli fossero liberali universalisti. In una serie di circostanze, questa tesi si sta però dimostrando sbagliata.

Su questo fronte, per le popolazioni europee i pericoli a breve termine derivanti dal terrorismo interno potrebbero generare qualche preoccupazione, ma i pericoli a lungo termine legati ai musulmani europei che alimentano la leadership del terrorismo internazionale sono assai più certi e minacciosi. Essi sembrano essersi già insinuati: in quale misura, naturalmente, spetta ai servizi di intelligence monitorarlo.

Un aspetto ancora più importante è giungere a una comprensione realistica del grado di competizione benefica e di reale minaccia a lungo termine che l’Europa deve aspettarsi dalle popolazioni musulmane, alla luce della diffusa mancanza di opportunità economica e della chiusura degli sbocchi politici delle società del Medio Oriente durante i cinquant’anni passati.

Si tratta di un punto importante su cui riflettere, sulla base del forte interesse mostrato dall’Europa nell’avviare una dinamica nuova per operare in quest’area del mondo così vicina a essa. È inoltre necessario che gli europei giungano a una comprensione più nitida del forte astio e della violenta opposizione nei confronti della democrazia da parte di una piccola ma intensa fazione di estremisti che sostengono di essere islamici, ma per i quali il nome appropriato sarebbe islamo-fascisti, come quella guidata dal saudita Osama Bin Laden (posto che sia ancora vivo) e dal giordano Abu Musab al Zarqawi.

Qualunque cosa possano pensare gli europei dei dibattiti americani sull’islamo-fascismo e sulle economie politiche del Medio Oriente durante i decenni a venire, è di fondamentale importanza che si formino idee chiare. Gli aspetti religiosi di tali questioni possono essere separati analiticamente, ma solo fino a un certo punto, dagli aspetti politici ed economici.

Infatti, dei tre elementi della società – politici, economici e culturali – sono questi ultimi a essere maggiormente al centro della questione, anche se spesso non rappresentano il principale punto di partenza pratico. In questo caso, però, il risveglio della convinzione religiosa nel mondo musulmano pone in maggior risalto l’acuta debolezza dell’attuale cultura europea e il suo inaridimento in quel campo religioso che un tempo costituiva la fonte della superiorità della sua visione, della sua audacia e dei suoi conseguimenti pratici.

La crisi economica non si risolve demonizzando l’America

Benché mi sia soffermato principalmente sulla crisi spirituale dell’Europa odierna, soprattutto nella sua componente immaginaria e intellettuale, non posso concludere senza spendere qualche parola sulla recente abitudine europea di demonizzare gli Stati Uniti. Per certi versi, le élites culturali europee sono state a lungo fortemente sbilanciate a sinistra, e durante i lunghi e tetri anni della guerra fredda, la sinistra ha trovato efficaci motivi e interessi di propaganda in riferimento agli Stati Uniti.

Ricordo bene il disprezzo con cui veniva considerato Ronald Reagan dai giornalisti e radiocronisti europei durante i primi anni Novanta. Le visioni economiche della sinistra spiegano bene la particolare ostilità riservata dalle élites europee al pensiero economico anglosassone, in particolare le sue scuole provenienti dall’Austria con Friedrich von Hayek e Ludwig von Mises, con la loro enfasi posta sugli incentivi, sull’impresa, sul rischio, sulla flessibilità e sulla libertà.

Questi punti di riferimento si distanziano sensibilmente dall’enfasi posta da comunisti, socialisti, statalisti in generale e socialdemocratici sulla fissità, la sicurezza, i privilegi già ottenuti e sulla condanna del business, delle imprese e dell’eresia della creazione di ricchezza. Senza spingersi troppo lontano fino a sostenere che sperperare denaro è virtuoso, la sinistra europea anche oggi sembra credere che far denaro, creare ricchezza e profitti siano tutte cose riprovevoli. I suoi sistemi economici raramente portano denaro, ricchezza e profitti: ma la ristrettezza economica della sinistra rappresenta la sua stessa sconfitta.

Data la crisi demografica cui accennavo in precedenza, sarà essenziale per l’Europa nel prossimo futuro creare molta più nuova ricchezza di quanto sia mai stato richiesto prima d’ora alle sue economie, semplicemente per pagare i benefits alla moltitudine di pensionati in rapporto ai lavoratori presenti nei loro sistemi economici.

Le economie del Welfare sociale furono costruite sulla base di una proporzione di circa nove, o almeno sette, lavoratori per ogni pensionato: in Europa, questa proporzione si avvicinerà molto presto ai tre lavoratori per pensionato. Per di più, si prevede che gran parte dei pensionati vivrà in media non più fino al sessantacinquesimo compleanno, ma supererà addirittura gli ottantacinque anni.

Costoro esigeranno il versamento delle loro pensioni per molti più anni rispetto a quanto avessero immaginato i fautori del Welfare State dopo la seconda guerra mondiale. Inoltre, la loro assistenza sanitaria è diventata molto più sofisticata e di gran lunga più costosa rispetto a quanto si potesse immaginare cinquant’anni fa. In Europa, pertanto, è ora di mettere da parte il disprezzo per le economie che funzionano meglio rispetto a quella europea, perlomeno nel creare nuova occupazione per una forza lavoro in espansione e nel far crescere stabilmente lo standard di vita di tutti.

Anche gli Stati Uniti dovranno affrontare una crisi di questo tipo legata all’assistenza agli anziani, allorché la generazione del baby boom andrà in pensione. In ogni caso, nei prossimi trent’anni l’Europa capirà di aver disperatamente bisogno dell’alleanza con gli Stati Uniti, per una serie di ragioni, così come è del tutto evidente agli americani che nelle immense sfide che appaiono all’orizzonte nel Ventunesimo secolo, dalla Cina, all’India, al Medio Oriente, noi avremo disperatamente bisogno di un’alleanza con un’Europa forte e unita.

Questo spiega perché la prospettiva di una malattia nell’anima dell’Europa, e false illusioni circa la sua stessa ricchezza spirituale, ci preoccupano profondamente. Noi auspichiamo in tutti i modi e abbiamo bisogno che l’Europa torni a essere forte, quanto prima. Per questo la esortiamo a svegliarsi, perché il mondo ne ha bisogno.

(Traduzione di Alberto Rezzi)

(A.C. Valdera)