I samurai cristiani

samurai_cristianiArticolo pubblicato su Il Timone n° 27 del 2003

Una pagina di storia giapponese dimenticata

di Rino Cammilleri

In Occidente nessuno sa praticamente nulla della storia del cristianesimo giapponese (sebbene il cristianesimo giapponese coincida quasi interamente col cattolicesimo romano). A parte un lontano libro del 1959 di Jean Monsterleet edito dalle Paoline e uno di Ivan Morris (del 1975 ma tradotto in italiano da Guanda nel 1983), nessuno ha mai raccontato quel che andiamo a raccontare.

Nel primo libro citato (Storia della Chiesa in Giappone) vi si fa un cenno. Il secondo, che parla d’altro ( e dal titolo La nobiltà della sconfitta), vi dedica un capitolo (dal quale attingiamo in mancanza d’altro). Ma la storia dei samurai cristiani di Shimabara è una delle più eroiche di tutti i tempi e ancora oggi i giapponesi le tributano la cosiddetta simpatia hoganbijki, che i leali nipponici riservano al valore sfortunato.

Negli anni ’60 un famoso attore del teatro kabuki era convinto di essere la reincarnazione dell’eroe di quella vicenda, Amakusa Shiro, il samurai sedicenne a cui fu dedicata anche una canzone che nel decennio successivo scalò le classifiche. Nell’immaginario dei giovani, da quelle parti, Amakura Shiro tiene il posto che fu di Garibaldi per i nonni degli italiani e di Che Guevara per i “libertari” odierni.

Il cristianesimo sbarcò in Giappone nel 1549 con San Francesco Saverio, braccio destro di San Ignazio di Lojola. Non ancora quarantenne, questo gesuita aveva convertito da solo quasi un milione di persone in Oriente. Accompagnato da un interprete, predicava sulle piazze il Vangelo di Matteo, che aveva imparato a memoria in giapponese. La diffidenza iniziale si tramutò in curiosità quando un astante sputò in faccia al suo compagno. Questi si asciugò rimanendo impassibile.

Il fatto colpì i giapponesi, che apprezzavano moltissimo il dominio di sé. Col tempo, il santo si rese conto che erano i suoi abiti dimessi a destare disprezzo. Così si procurò un abito più degno e l’avventura cominciò. In pochi anni il cristianesimo in versione cattolica divenne una presenza di tutto rispetto in Giappone.

Il Kyushu era interamente cristiano con epicentri nelle città di Hiroshima e Nagasaki, e la cosa andava avanti con crescita esponenziale. Fino a quando certi trafficanti europei, protestanti, instillarono nei regnanti della dinastia Togukawa il sospetto che la penetrazione religiosa del cattolicesimo fosse solo il prodromo di qualcosa di peggio, dal punto di vista politico, da parte degli imperi spagnolo e portoghese.

Gli editti persecutori non tardarono e Nagasaki divenne famosa come “la collina dei martiri” per i roghi, le crocifissioni, le morti in acqua gelata e tutto quel che la fantasia orientale, maestra nell’infliggere tormenti, escogitava via via. I cristiani locali entrarono nelle catacombe e continuarono a venerare le loro icone camuffandole sotto immagini di divinità pagane: per esempio, la Madonna divenne la dea Amaterasu.

Nel 1640 il cristianesimo giapponese era ufficialmente estinto. Solo nel XIX secolo, sotto la minaccia delle cannoniere americane del commodoro Perry, il Giappone consentì a riaprirsi ai traffici occidentali e all’invio di missionari. Molti di questi rimasero stupiti di trovare ancora cristiani. E ancor più si stupirono quando questi li sottoposero ad un esame di “cattolicità”. Infatti, gli indigeni si erano tramandati di padre in figlio una perfetta distinzione tra cattolicesimo e protestantesimo.

Ma facciamo un passo indietro e torniamo a Nagasaki. A circa 70 Km dalla città sta una penisoletta, Shimabara, su cui sorgeva una fortezza chiamata Hara. Nel 1577, sfidando le leggi imperiali, il daimyo locale e tutta la cittadinanza avevano chiesto il battesimo. Erano seguiti 20 anni di mattanza e, alla fine, Shimabara era stata assegnata al nemico giurato del cristianesimo giapponese, Matsukura. Costui si ritrovò a signoreggiare una zona ostile (per questo avevano mandato proprio lui), diventata il punto di confluenza di tutti i cristiani perseguitati altrove. Soprattutto di ronin.

Veniva detto ronin un samurai che non aveva più un signore al cui servizio combattere. Sorta di cavalieri di ventura, vagavano alla ricerca di un ingaggio. Quelli di Shimabara erano rimasti disoccupati perché cristiani.

Ora la situazione da quelle parti era, si, pesante ma non solo per i credenti. In Giappone le tasse gravavano sui soli contadini ed erano una pletora: sulle porte, sulle mensole, su ogni fuoco, perfino sulle nascite e sulle morti. Il pagamento doveva venir effettuato in riso, cosa che rendeva la semicarestia perenne. Gli evasori venivano ricoperti da un mantello di fibra vegetale, il mino; poi, legate loro le braccia, si appiccava il fuoco, così che quei disgraziati, saltando e contorcendosi, erano costretti a prodursi nel mino odori, il “ballo del mino”.

La punizione colpiva anche le famiglie: mogli e figlie, denudate, venivano tenute immerse in acqua gelida fino alla morte. Nell’anno 1637 la fame era giunta a livelli insopportabili. Due capi di villaggio (soya, ex guerrieri ritiratisi dall’attività) provarono a protestare ma ebbero, uno, la moglie incinta uccisa col sistema dell’acqua; l’altro, la figlia esposta nuda e poi marchiata con ferri roventi. Il giorno precedente alla festa cristiana dell’Ascensione un contadino vide che attorno all’icona che venerava di nascosto si era materializzata una fastosa cornice.

Attratti dal miracolo parecchi cristiani si portarono nella sua casa. Ma la notizia si sparse e arrivarono le guardie. Tutti i presenti vennero presi e giustiziati. Era troppo. Il giorno dopo, i cristiani uscirono allo scoperto e piantarono al centro della piazza una grande bandiera bianca con una croce rossa sopra. Anche i pagani si unirono alla protesta perché per la mentalità giapponese le motivazioni religiose erano più nobili di quelle fiscali.

Quando il responsabile dell’ordine pubblico sopraggiunse finì linciato e scoppiò la rivolta. 200 ronin e parecchi shoya ripresero le armi e dilagarono per i villaggi. Elessero come loro capo il giovane Amakura Shiro (16 anni) per due motivi. Il primo era questo: era figlio di Masuda Yoshitsegu, grandissimo guerriero diventato famoso al tempo delle guerre che avevano dato il potere ai Togukawa; veniva chiamato col nome leggendario di Amakusa Jinbei. Masuda, che era cristiano, aveva disobbedito agli editti persecutori e si era messo a percorrere il Giappone predicando Cristo. Naturalmente nessuno osava affrontarlo.

Girava portandosi dietro il figlioletto dentro una specie di carrozzina di legno (la sua figura ha ispirato una serie di telefilm, dal titolo “Ronin” nei quali gli autori si sono ben guardati di omettere il suo cristianesimo e la sua missione di evangelizzazione, facendone piuttosto una sorta di viandante senza meta con azioni di giustiziere N.d.R.). Il secondo motivo che indicava Shiro come leader era una strana profezia: un gesuita, espulso dal Giappone 25 anni prima, aveva lasciato una specie di poesia diventata ben nota fra i cristiani giapponesi: in essa era predetto l’arrivo di un ragazzo ame no tsukai, “inviato dal cielo”, che avrebbe riscattato la fede in quelle terre. Infatti, il giovanissimo Shiro aveva seguito le orme paterne come predicatore.

Quando la faccenda si fece seria, il bakufu di Edo (la capitale imperiale, oggi chiamata Tokio) inviò le truppe al comando dello shogun Itakura Shigemasa. Poi fece arrestare e torturare la madre e le sorelle di Shiro. Appena la notizia dell’arrivo degli imperiali giunse al campo dei ribelli, Shiro chiese a tutti quelli che volevano resistere di seguirlo nel castello di Hara. Così, oltre 50.000 persone, con donne e bambini, si asserragliarono nella fortezza e attesero. Non c’era alternativa: le uniche armi a disposizione erano quelle leggere dei ronin, mentre il nemico aveva anche i cannoni.

Gli spalti si riempirono di crocifissi, di stendardi bianchi con la croce, di bandiere con S. Giacomo, S. Francesco, Maria e Gesù. Ogni 3 giorni Shiro riuniva tutti nella piazza d’armi e pronunciava un’esortazione religiosa da omoikiritaru Kirishitan (“cristiano devoto”) in vista del gosho (la vita eterna). Nel frattempo, i governativi incendiavano tutti i villaggi attorno e ne sterminavano gli abitanti.

Quando ebbero fatto terra bruciata attorno ad Hara, cominciò l’assedio vero e proprio. 100.000 soldati, agli ordini di vari signori (tra cui Matsukura), si accamparono attorno mentre venivano apprestate le torri d’assedio. Lo spettacolo era in stile: nel campo degli imperiali risse, duelli, uccisioni a causa delle rispettive rivalità di appartenenza feudale; in quello assediato si sentivano solo inni e preghiere corali.

I cristiani avrebbero potuto fare strage degli operai costretti dalle corvées obbligatorie a scavare ed erigere terrapieni. Invece si limitarono a far piovere nel campo nemico yabumi, frecce con fogli arrotolati attorno, ove spiegavano per iscritto le loro ragioni. Della pietà cristiana nei confronti dei poveracci forzati a lavorare sotto le mura cercarono di trarre profitto gli imperiali: circa 100 ninjutsukai (“uomini invisibili”, gli assassini di professione che il cinema ha mitizzato col nome di ninja) si introdussero, col favore delle tenebre, nel castello. Ma ne tornarono solo 2.

Non solo. In un paio di riprese gli assediati riuscirono, con sortite micidiali, a portare scompiglio nel campo avversario. A quel punto intervenne Matsudaira Nobutsuma, il luogotenente dell’imperatore, che guidò personalmente i rinforzi. Incredibilmente anche questo nuovo attacco venne respinto. L’infuriato Shigemasa allora ordinò l’attacco generale che volle condurre in prima fila. Finì ucciso insieme a 4.000 dei suoi uomini migliori.

Ormai la situazione era grottesca: un esercito sterminato non riusciva ad aver ragione di un pugno di contadini praticamente senza armi. Il disonore era assicurato e tutti gli occhi dell’arcipelago erano puntati su Shimabara. Per salvare la faccia l’imperatore concesse clemenza e il perdono a chi si fosse arreso. Aggiunse anche la promessa di una generosa distribuzione di riso. Ma quelli fecero sapere che volevano solo una cosa: poter professare liberamente la loro religione così come era permesso ai buddisti, ai taoisti, ai confuciani e agli shintoisti.

L’imperatore, che non poteva permettersi di rimangiarsi il suo editto contro il cristianesimo, fece tornare le trattative in alto mare. Già, il mare. Proprio da quella parte venne il pericolo. I mercanti olandesi, protestanti, furono ingiunti di fornire man forte agli imperiali se volevano continuare a commerciare con il Giappone. Fu così che il balivo Nicolaus Couckebaker mandò una nave a cannoneggiare Hara per due settimane di fila. Quando gli spalti furono completamente smantellati e gran parte delle mura erano crollate, vennero portate avanti la madre e le sorelle di Shiro. Era l’ultima offerta. Che fu rifiutata.

Partì l’assalto finale, che durò due giorni e due notti. Ormai quasi tutti i ronin erano morti e così gli shoya. Anche il cibo era finito da un pezzo. L’ultima resistenza fu disperata: i cristiani, anche le donne e i feriti, combatterono con quel che avevano sottomano, scodelle, bastoni, sedie. Nessuno sopravvisse. La spiaggia si ricoprì di 11.000 pali su cui stavano conficcate altrettante teste. Le rimanenti vennero ammassate su tre navi, insieme ai nasi tagliati delle donne, per essere portate come trofeo a Edo. Ma gli imperiali avevano perso oltre 70.000 uomini armati, addestrati e perfettamente equipaggiati.

La penisola venne colonizzata da confuciani e buddisti mentre il Giappone entrava nel sakoku, la chiusura di due secoli al mondo esterno. Purtroppo per Nagasaki (e Hiroshima) non sarebbe stato quello l’ultimo martirio.

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Il libro:

Rino Cammilleri Il crocifisso del samurai Rizzoli, 2009

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