Alle origini della cultura del Sessantotto

sessantottoL’Occidentale, 19 Agosto 2007

di Roberto Pertici

1. Vorrei proporre alcune riflessioni  su quel complesso movimento politico, culturale e sociale che investì il mondo occidentale alla fine degli anni Sessanta e che chiamiamo, per brevità, il Sessantotto. Le presento in forma consapevolmente schematica e semplificata, nel tentativo di individuare, in quei fenomeni, alcune linee di fondo, che mettano un po’ d’ordine nel loro carattere magmatico e variegato.

Farò riferimento soprattutto allo sfondo (in senso lato) culturale, nella convinzione che esso abbia giocato un ruolo preponderante. La “cultura” del Sessantotto ebbe una lunga incubazione che percorre tutto il decennio precedente: essa è una forma di «pensiero socializzato» (adotto il termine che Augustin Cochin coniò per descrivere il formarsi della mentalità rivoluzionaria nei decenni immediatamente precedenti la rivoluzione francese) e risultò da un processo complesso che andrebbe ricostruito con cura, analizzandone luoghi di formazione e canali di diffusione.

2. L’elemento unificante e caratterizzante quei movimenti è il prepotente riemergere della  “cultura della rivoluzione” o della “passione rivoluzionaria” (Furet), dell’idea, cioè, che l’unico modo veramente decisivo e risolutivo di mutamento politico-sociale sia quello che rompe radicalmente col passato: la Rivoluzione (con l’iniziale maiuscola) diventa così la soluzione del problema della storia.

Questa era stata l’eredità che la fase giacobina della grande rivoluzione aveva lasciata al secolo successivo, con la quale gran parte del pensiero storico-politico europeo si era confrontato fin verso il 1870. Ma  essa aveva percorso, come un fiume carsico, anche i settori più radicali della sinistra europea: Cantimori ricordava spesso che erano stati proprio alcuni discepoli di Filippo Buonarroti (eredi quindi del giacobinismo di Babeuf) a fondare la Società dei Giusti, poi Lega dei comunisti, cioè l’associazione londinese per cui Marx ed Engels avrebbero scritto alla fine del 1847 il Manifesto del partito comunista.

Fu proprio l’ondata rivoluzionaria del 1848 (soprattutto in Francia, ma non solo) che ne costituì l’effimero trionfo, ma anche il deciso fallimento. Dopo di allora, e per oltre mezzo secolo (se si prescinde dai bagliori della Comune parigina del 1871), l’«idea rivoluzionaria» va in sonno: succede l’epoca del «progresso moderato» (per i liberali) e del riformismo gradualistico (per i socialisti). La celebre prefazione alla ristampa delle Lotte di classe in Francia che Engels dettò nel 1895, poche settimane prima di  morire, ne è un po’ il testo programmatico. Il positivismo evoluzionistico ne costituisce la base teorica.

Con la sua crisi, ai primi del Novecento, riemerge la «passione rivoluzionaria»: chi la rilancia è Georges Sorel, il cui pensiero riveste – da questo punto di vista – un’importanza cruciale. Da lui si dipartono sia la cultura rivoluzionaria di sinistra (Lenin), sia quella di destra (Mussolini), come pure le varie «né si sinistra né di destra» (cfr. il libro di Zeev Sternhell).

Ancora Furet ha dimostrato come la rivoluzione d’ottobre provochi la ripresa del mito della rivoluzione francese e analizzato il circuito che si venne a creare fra le due rivoluzioni, sul piano simbolico  (la Marsigliese primo inno della Russia bolscevica) e su quello interpretativo (lo stalinismo come nuova forma di Terrore, il tema dell’accerchiamento capitalistico, la rivoluzione mangia i suoi figli, etc.).

Questa nuova, intensa ripresa dell’«idea rivoluzionaria» dura fino al 1935, al VII congresso del Komintern, quando essa viene messa in sordina a favore di una strategia di alleanze ampie e “democratiche” in funzione antifascista. La fine della guerra non modifica radicalmente questo sfondo (almeno in Europa occidentale), che dura fino al 1956, l’anno della grande crisi del comunismo internazionale.

Nel frattempo, però, nella cultura “borghese” degli anni Cinquanta si diffonde un clima culturale antitetico a quella cultura: le nuove scienze sociali, l’esperimento laburista, la tematica del Welfare State, l’inizio della golden age fanno parlare ormai dell’avvento definitivo di una “società affluente”, in cui le ideologie (il libro di Daniel Bell è del 1960, ma ne aveva parlato Aron già nel 1955) sono “finite”.

E’ in questa situazione che irrompe – dopo il 1960 – un forte e progressivo processo di “re-ideologizzazione”, che riporta prepotentemente a galla (per l’ultima volta, almeno per ora) l’«idea rivoluzionaria». Ne sono noti i temi più caratteristici: critica della democrazia “formale”, mito della democrazia diretta, critica delle deleghe, delle specializzazione funzionali (mandarini), disprezzo  del riformismo,  l’individuazione della violenza come il mezzo principale per costruire una società più giusta (teoria della «violenza progressiva»: si definivano «violenza strutturale» tutte le istituzioni sociali e politiche, e si considerava resistenza legittima qualsiasi azione violenta contro di esse). Cercheremo di accennarne più sotto le cause.

3. L’altro polo della cultura del ’68 è quella che potremmo chiamare l’«esplosione della soggettività», la superiorità assoluta attribuita al soggetto rispetto a ogni vincolo sociale di qualsiasi natura (familiare, nazionale, di classe). Parlo di “soggetto”: non di “persona” (concetto in cui è insita un elemento relazionale, con la trascendenza come con altri “tu”, e quindi una corrispondenza fra diritti e doveri), né di “individuo” (in cui la titolarità di diritti convive con la soggezione a una legge morale, autonoma ma non per questo meno esigente).

La “soggettività” sessantottina rinvia piuttosto a pulsioni, a “istinti”, a “bisogni”, il soddisfacimento dei quali diventa un “diritto”. E’ più difficile (almeno per me) tracciarne il prologo: probabilmente alle loro prime origini stanno elementi che provengono dal libertinismo settecentesco (Sade), dal pensiero di Fourier,  dalla volgarizzazione del freudismo, dal futurismo, dall’erotismo di alcune correnti letterarie novecentesche (il surrealismo francese), dalla critica della scuola di Francoforte al “sistema” che riduce a una sola dimensione l’uomo contemporaneo. Ma tutti questi spunti vengono, nel contesto degli anni Sessanta, mercificati dalla nascente industria culturale, massificati e trasformati in senso comune.

Bisogna insistere sulla forte differenza esistente fra la “libertà liberale” e questo “libertinismo” di massa, anche perché, nei decenni successivi, sono state compiute frequenti sovrapposizioni e connessioni improprie. La chiarì subito (nel 1969) un liberale come Nicola Matteucci, quando affermava che la «concezione [sessantottina] della libertà come mera spontaneità, come  possibilità  per  l’agire  istintivo   dell’uomo,   come   soddisfazione individuale dei bisogni, è agli antipodi della nostra recente tradizione di vivere civile […] e con la genuina tradizione del moderno liberalismo, quale può essere colta muovendosi fra un Kant e un Tocqueville, per indicare due pensatori fra loro profondamente lontani».

Il liberalismo classico «chiedeva  libertà  per  essere  se stessi; ma essere se stessi voleva dire creare valori di bellezza, di verità, di fede, non mera liberazione dell’istinto, il quale resta il sottofondo tenebroso contro il quale ci affermiamo come uomini liberi o liberati».

E’ importante accennare anche alla nuova etica diffusa, che derivava da questi atteggiamenti. Essa si contrapponeva radicalmente a quella classica e cristiana, che – pur con tutti gli appesantimenti e irrigidimenti ben noti – aveva prevalso fino a pochi decenni prima. Non voglio avventurarmi qui in terreni impervi: mi limito a condensarla nel celebre aforisma manzoniano per cui la vita  è destinata ad essere «per tutti un impiego del quale ognuno renderà conto» (Promessi sposi, cap. XXII).

Era questa concezione dell’esistenza come un mezzo, in vista di fini più ampi e impegnativi, che allora tramontò: tale era stata non solo per il cristiano, ma anche per il comunista e il fascista, per gli idealisti Croce e Gentile e per i loro avversari positivisti. Anche per il vecchio Sorel, per fare la rivoluzione era necessario un atteggiamento “ascetico”, la rinunzia, cioè, alle comodità della vita, all’ “integrazione”, come si sarebbe detto poi.

Si trattava di una prospettiva che imponeva il superamento e talora la negazione della propria vita individuale in nome dell’ “universale” (la patria, la famiglia, la classe, la Chiesa): negli anni Sessanta si diffuse la certezza che  quegli “universali”, sostanzialmente, altro non fossero che delle enormi  mistificazioni,  e quindi si cominciò a negare loro ogni diritto di richiedere al soggetto un impegno totale, che lo spingesse, cioè, a frenare (fino a soffocare) la sua naturale propensione al piacere, al soddisfacimento dei propri istinti e delle proprie più profonde tendenze.

Si condannò conseguentemente ogni pedagogia, ogni educazione che spingesse in tal senso (le pedagogie “repressive”) e se ne ammise solo una “permissiva”, che insegnasse che “l’obbedienza non è più una virtù”, lottasse contro ogni “condizionamento” e inducesse il soggetto a essere solo e totalmente se stesso: in tal modo anche la società – si assicurava –  sarebbe stata migliore.

In questo passaggio è il movimento femminista che ha svolto un ruolo di battistrada: alle sue argomentazioni e alla sua mentalità si sono ispirati un po’ tutti i “movimenti” successivi. Per esso l’istituzione da demistificare era la famiglia e, al suo interno, il “naturale” ruolo riproduttivo della donna (la sua responsabilità – si potrebbe dire – verso la specie), in nome del quale si riteneva che la donna fosse stata costantemente sacrificata nei suoi diritti più elementari. Da qui la polemica contro ogni forma di educazione  che riproducesse dei ruoli consolidati; da qui l’affermazione del diritto delle donne a disporre liberamente del proprio corpo, negando che la maternità costituisse per esse un destino naturale.

4. Se questi sono i due poli della svolta culturale degli anni Sessanta, che precipita – come s’è accennato – nelle convulsioni di fine decennio, bisogna subito aggiungere che essi seguono logiche non del tutto coincidenti:  tendono, cioè,  a discenderne tutta una serie di corollari che non si sovrappongono completamente. La logica della “rivoluzione”, se portata alle sue estreme conseguenze, nega l’individualità e le sue esigenze, o, tutt’al più, le rimanda a un mondo finalmente liberato dall’oppressione di classe (si pensi all’antropologia del terrorista degli anni Settanta).

La logica della “soggettività”, spinta ai suoi esiti ultimi, può portare alla chiusura nel “privato” (di cui magari si esalta la “politicità”), ma anche al rifugio nei paradisi artificiali o al viaggio in India o nel Tibet. La situazione – in modo forse un po’ didascalico – è efficacemente rappresentata  dall’ultima scena del recente film di Bernardo Bertolucci, The dreamers, in cui i tre protagonisti (siamo durante il maggio francese) fanno liberamente e felicemente l’amore, chiusi in un appartamento  (momento della liberazione individuale), ma, uscendone, compiono poi scelte opposte (ciascuna, a modo suo, coerente), che li dividono irreparabilmente.

I due fratelli francesi corrono allo scontro fisico con la polizia, contro cui gettano le Molotov di rito; l’americano piange disperato contro questa loro deriva: non era  nella violenza politica che doveva  sboccare il  disfrenamento dell’eros.

Questa bipolarità spiega la difficoltà di dare una visione complessiva del Sessantotto: così, a volta a volta, se ne fanno derivare (secondo i diversi approcci) lo sbocco terroristico e la politica dei diritti, la violenza politica e l’emancipazione femminile, la riscossa operaia e la droga di massa,  il fanatismo ideologico e la modernizzazione del paese.

Si può dire (semplificando brutalmente) che un po’ tutti i fenomeni politici e culturali dei quegli anni siano come la risultante fra questi due momenti e partecipino in varia misura alla loro diversa e, in fondo, non componibile logica. Si pensi  al marxismo, che del Sessantotto costituì lo sfondo ideologico prevalente: quello degli anni Sessanta e poi quello sessantottino fu in genere assai diverso dal marxismo-leninismo ortodosso del trentennio precedente, meno “oggettivistico”, più tendente all’esaltazione della soggettività rivoluzionaria, più volontaristico, magari  impegnato in diffusi sincretismi con temi derivanti dalla psicanalisi (Wilhelm Reich) e dall’antropologia.

5. Quale fu la causa di questa svolta culturale? Se ne sono individuate diverse, tutte –  a loro modo – significative. Si trattò – si è sostenuto – di un fenomeno da “società affluente”, che ha alle spalle un profondo mutamento generazionale: fu allora che l’aumento delle nascite nel periodo del dopoguerra avrebbe cominciato a far sentire i suoi effetti in termini di pressione sociale.

La scomparsa della guerra e dei totalitarismi dall’orizzonte giovanile provocò – si aggiunge –  una smisurata dilatazione delle aspettative, una messa in discussione delle gerarchie sociali e dei valori diffusi. La rapida comunicazione di massa e la diffusione globale della televisione vennero poi creando nuovi tipi di leaders, che diventarono vere e proprie stars  ideologiche (Rudi Dutschke a Francoforte, Cohn-Bendit a Parigi): da qui  un fenomeno di mimetismo mediatico, che  fu comune a tutto il mondo occidentale.

Non devono essere sottovalutate – aggiungerei – le suggestioni del mondo: il processo rivoluzionario, che sembrava impossibile o bloccato in Europa o negli Stati Uniti, si veniva sviluppando invece nelle periferie del mondo (ciò si era verificato anche negli anni precedenti la prima guerra mondiale, come avrebbe notato negli anni Trenta Élie Halévy), dalla Cina all’Indocina, dall’America latina all’Africa, ed ora stringeva da ogni parte il mondo sviluppato.

Tuttavia, se – superando tutte le cautele del caso – dovessi indicare quello che a mio avviso è l’elemento unificante (almeno in Europa occidentale), lo indicherei,  ancora una volta, in un fattore, “culturale”. Non – si badi bene –  nel prevalere di determinate opzioni ideologiche, ma di un giudizio sulla storia contemporanea, che allora (intorno al 1960) diventò egemonico, fino a trasformarsi in senso comune. Riprendo – come a molti risulterà immediatamente chiaro –  l’analisi  coeva di Augusto Del Noce, che mantiene, a mio parere, una sua indubbia vitalità e merita di essere approfondita e maggiormente articolata.

A giudizio di Del Noce, a determinare il corso della cultura europea degli anni Sessanta era stato, in ultima istanza, l’esito di una battaglia politico-culturale che si era  combattuta nei primi quindici anni del dopoguerra: quella fra due interpretazioni dei fascismi e del loro ruolo nella storia europea. Risultò allora soccombente la spiegazione “parentetica” (che era stata in Italia di Croce, come di De Gasperi), che non significava (come si ripete sempre nelle banalizzazioni correnti) che il fascismo era stato senza radici nella precedente storia italiana e/o tedesca, ma che esso non ne racchiudeva l’essenza e non ne costituiva l’inevitabile sbocco.

Andò prevalendo, invece, la visione del fascismo/nazismo come “rivelazione”, cioè come un fenomeno in cui confluivano i temi portanti della politica, della cultura, della religione precedenti, tutte le tare della civiltà “borghese”. Il fascismo, cioè, non spezzava un quadro istituzionale o culturale precedente (non era stato, cioè, una “rivoluzione”), ma era l’ultima risorsa a cui quell’establishment era ricorso per mantenere il suo potere minacciato dalla rivoluzione d’ottobre e dalle sue conseguenze, cioè dal progresso della storia (era, dunque, un fenomeno “reazionario”).

In questo quadro fra il conservatorismo europeo (i notabili liberali italiani, le Chiese, la destra nazionale tedesca, il mondo finanziario e industriale) e i fascismi esisteva un rapporto di complicità e di continuità, in cui Hitler e Mussolini avevano fatto sostanzialmente il “lavoro sporco”, che il mondo conservatore non aveva avuto il coraggio o  la forza di fare.

Dobbiamo misurare gli effetti di questa svolta culturale. Scriveva Giacomo Noventa nel 1960: «come credere che una nazione abbia sopportato per venti anni quella specie di fascismo che le ideologie antifasciste descrivono, senza credere che in quella nazione tutto sia da distruggere, e tutto da rinnovare?». Allarghiamo questa osservazione: «se la civiltà europea, la cultura occidentale è finita ad Auschwitz, se la maggior parte delle sue componenti (classi dirigenti, chiese, intellettuali “borghesi”, istituzioni) ne sono parimenti responsabili, come non concludere che in quella civiltà, in quella cultura, tutto sia da distruggere, e tutto da rinnovare? Che non ci sia più posto per nessun elemento “tradizionale”?».

Per i paesi toccati solo marginalmente dal fascismo e dal nazismo, credo che una funzione analoga sia stata svolta dal passato coloniale e dai suoi “misfatti”: per la Francia, per esempio, hanno giocato un ruolo decisivo i postumi  della vicenda  indocinese e soprattutto di quella algerina. Per gli  Stati Uniti, è appena il caso di dirlo, la perdita dell’innocenza provocata dalla guerra del Vietnam.

La storia europea recente cominciò dunque a essere letta  secondo il cleavage  fascismo/ antifascismo, che poi corrisponde a quello conservazione/ progresso, reazione /rivoluzione: non è un caso che in tutta l’Europa occidentale ci sia – dopo il 1960 – una forte ripresa della cultura antifascista e proprio nei giovani,  in una generazione, cioè,  che non aveva vissuto la tragedia della guerra.

Si pensi a tutto quello che significò in Italia la lotta contro il governo Tambroni e in Germania il processo Eichmann e i suoi strascichi. Da noi, questi schemi furono ampiamente elaborati dalla cultura neo-illuministica e progressista (post-azionista, post-gobettiana) dei primi anni Sessanta, rispetto alla quale quella del Sessantotto costituisce il classico “salto di qualità”: nella vecchia logica materialistica,  questo si diceva di un fenomeno che in seguito a una continua dilatazione quantitativa, subiva poi una trasformazione qualitativa. Così avvenne fra quelle due culture: nel giudizio sul fascismo e sulla storia dell’Italia repubblicana dopo il 1947, nel discorso sulla Resistenza tradita, nell’operaismo, nella tematica dei diritti, sul tema della memoria resistenziale, etc.

6. Un ruolo fondamentale nel Sessantotto italiano fu svolto dal mondo cattolico, che si rivelò, anche allora, un corpo meno “separato” di quello che talora si continua a pensare. Al suo interno, negli stessi anni, si svolsero una serie di processi culturali in qualche modo paralleli a quelli che avevano luogo nella cultura “laica”, e con esiti non dissimili.

Anche per il progressismo cattolico italiano, che aveva la sua punta di diamante nella cultura dossettiana, il problema fondamentale era costituito dal favore che la Chiesa  aveva accordato ai movimenti fascisti: esso non poteva essere considerato – si sosteneva – come un fatto accidentale, che non avesse ragioni lontane. Da qui una visione critica della storia della Chiesa in età moderna, nella quale si cominciava a vedere essenzialmente un limite: l’istituzione ecclesiastica si sarebbe posta generalmente dalla parte della “reazione”, per cui le sue illusioni rispetto al fascismo altro non erano che la conclusione di un lungo processo.

Questo errore corrispondeva, nelle sue radici ultime, a un difetto teologico che risaliva alla Controriforma e al concilio di Trento: da qui la necessità di una complessiva revisione teologica e le speranze nel concilio Vaticano II. Questo concilio, che si conclude nel 1965, diventava così, al di là delle sue pur importantissime decisioni, una sorta di “mito”, in nome del quale si esigeva una radicale rifondazione della Chiesa, della sua struttura, della sua cultura teologica.

Come, in quegli anni, le chiese si liberarono di altari, balaustre, crocifissi, statue di santi, arredi sacri, quadri (finiti nei magazzini di rivenduglioli e antiquari), così si riteneva che tutta la tradizione della Chiesa del secondo millennio (dall’età gregoriana, in cui più nettamente era emerso il primato petrino ed era cominciata la sua contaminazione-scontro col potere politico, fino a Pio XII) andasse messa in discussione e in qualche modo liquidata.

Ne derivava la necessità di un confronto ravvicinato con la “modernità”, di inserirsi nel secolo, accettandone le forme mentali e i risultati, la scelta degli ultimi (socialmente parlando), un’insofferenza crescente per le mediazioni politiche, un confronto ravvicinato col marxismo, nel quale si individuava lo sbocco della cultura “moderna”, insomma tutto quel  fermento che è uno degli elementi fondamentali della crisi di quegli anni.

7. Credo che  quanto fino detto possa spiegare in qualche modo l’esito nichilistico di buona parte della cultura del Sessantotto, di cui hanno già parlato qui Gaetano Quagliariello e Giovanni Orsina. Il mio vecchio professore di storia della filosofia a Pisa, Nicola Badaloni, un marxista colto e intelligente,  spiegandoci il marxismo di Gramsci (ma l’osservazione può allargarsi a ogni cultura rivoluzionaria), distingueva fra due momenti, che chiamava criticità e organismo.

In parole povere: la parte critica e distruttiva delle posizioni contrarie e la capacità ricostruttiva. Nella proposta di Gramsci, questi due momenti erano inscindibili: si criticava, per esempio, la filosofia di Croce, per sostituire ad essa un “nuovo senso comune”, un “nuovo conformismo” elaborato dagli intellettuali del “moderno Principe”. Ora credo si possa dire che la cultura emersa dal Sessantotto abbia avuto partita vinta sul piano critico, nel senso che le posizioni, le istituzioni, gli atteggiamenti da essa criticati, sono per lo più rovinosamente caduti. E’ mancata, invece, la corrispondente attività ricostruttiva.

Se questo sia avvenuto per deficienze insite nei suoi orizzonti culturali o per il fallimento delle ipotesi storiche a cui era in qualche modo legata (la crisi del capitalismo, la realtà del comunismo, la ingovernabilità delle società di capitalismo maturo, la riscossa del terzo mondo, etc.) è difficile dire: si può avanzare l’ipotesi che i temi connessi con quella che ho chiamata l’«esplosione della soggettività» fossero, di per sé, incapaci di andare al di là del momento della criticità, mentre la «cultura della rivoluzione» è stata sconfitta dalla storia.

L’esito è però manifesto: una rottura, per molti aspetti, irreparabile con la tradizione culturale e civile precedente e la rinunzia a un qualsiasi sfondo teorico “forte”, che  la possa sostituire.

8. Ho citato Del Noce, Noventa, Matteucci: si potrebbero aggiungere Cattabiani, Zolla, Mathieu, Cotta, Gabrio Lombardi, Cristina Campo, Tito Casini, Quirino Principe, Romano Amerio, Rodolfo Quadrelli, Giuseppe Prezzolini, Sergio Quinzio, Giuseppe Sermonti, ma anche Pier Paolo Pasolini e Giovanni Sartori (di allora), Sergio Ricossa, Gianfranco Miglio, Rosario Romeo e Renzo de Felice e alcuni altri (fra i quali, perché no?, anche Paolo VI).

Ci fu, insomma, anche in Italia un altro Sessantotto, cioè una cultura variamente “anti-rivoluzionaria” (liberale, cattolica, tradizionalistica) che emerge alla fine degli anni Sessanta, ma che ha in realtà una storia più antica, in qualche modo parallela a quella (maggioritaria) a cui si contrapponeva. E’ tempo di riscoprirla o (se già nota) di rileggerla anche in questa prospettiva.

(A.C. Valdera)