Una battaglia culturale per liberare la società

GramsciIl Secolo d’Italia domenica 8 gennaio 1995

L’egemonia culturale della sinistra: un’ipoteca da cui affrancarsi

La distanza abissale tra una élite intellettuale ed il paese reale

di Roberto De Mattei

 

LA principale causa delle difficoltà che ha dovuto affrontare il governo di centro-destra negli ultimi sette mesi, non è di ordine tecnico e non può essere risolta da una semplice riforma elettorale che assicuri maggiore stabilità all’esecutivo. Il vero problema è dato dai fatto che non vi può essere una battaglia politica che non sia accompagnata, o meglio ancora preceduta, da una riconquista culturale e morale della società.

Antonio Gramsci non è certo un maestro per la destra, ma resta un avversario da rileggere con attenzione, perché è l’unico teorico che si sia posto con rigore il problema della possibilità di successo del comunismo nei Paesi occidentali. Quasi vent’anni fa, Augusto Del Noce, in una raccolta di articoli dedicata a L’eurocomunismo e l’Italia, lo affermava con preveggente chiarezza: «Non c’è altra linea oltre la gramsciana capace di portare i partiti comunisti al successo nei Paesi occidentali».

Il rivoluzionario sardo rovescia la tesi marxleninista classica secondo cui la conquista dello Stato è la necessaria condizione della conquista della società. In Occidente, dove a differenza della Russia, esiste una fitta e complessa articolazione sociale, per impadronirsi del potere non basta acquisire la titolarità del governo, ma occorre espugnare prima di tutto la società civile, che è l’insieme di tutti gli organismi intermedi tra l’individuo e lo Stato.

Se la dottrina comunista distingue tra strutture economico-materiali e «sovrastrutture» ideologiche e morali, Gramsci, allievo di Gentile, attribuisce un’importanza decisiva alle seconde («dottore delle sovrastrutture» lo definisce Del Noce) e pensa ad un «marxismo senza economicismo» (la definizione in questo caso è il Bobbio), che eserciti una completa «egemonia» su quel complesso di relazioni religiose, culturali e morali che forma la trama ideologica e spirituale della nazione.

Da qui la funzione attribuita da Gramsci alla categoria degli intellettuali, il partito visto come «intellettuale collettivo», l’importanza data alla politica di organizzazione cultu­rale. Fedeli a questa linea, in questo dopoguerra, i comunisti hanno progressivamente infiltrato il mondo della cultura, le articolazioni economiche della società, i grandi corpi dello Stato, le stesse strutture ecclesiastiche. Questo progetto di «rivoluzione culturale» ha orientato la strategia neocomunista anche dopo il fallimento del compromesso storico e la caduta del cosiddetto socialismo reale.

Lo scorso anno di questi tempi, il piano sembrava prossimo al suo coronamento con il definitivo passaggio dal controllo della società civile alla titolarità del governo. Le elezioni del 27 marzo hanno dimostrato però come la maggioranza del popolo italiano resti categoricamente contraria ad ogni prospettiva di assunzione del governo da parte del neocomunismo.

Il centro-destra ha ottenuto un’importante vittoria, che gli ha dato la titolarità del governo, ma non l’esercizio completo del potere. Il controllo della società civile, dai potentati economici alla magistratura, ai mass-media, è restato, e resta, nelle mani della sinistra. E l’ingovernabilità è destinata a rimanere una prospettiva drammatica ma reale, fino a quando non sarà risolto il conflitto tra là società politica e la società civile, tra la maggioranza che esprime un governo e la minoranza che continua a controllare i gangli vitali della società.