No all’insegnamento di «cultura religiosa»

ora_religioneIl Tempo 20 maggio 1984

di Augusto Del Noce

Si legge nel testo del nuovo Concordato: «La Repubblica italiana, riconoscendo il valore della cultura religiosa e tenendo conto che i principi del cattolicesimo fanno parte del patrimonio storico del popolo italiano, continuerà ad assicurare, nel quadro delle finalità della scuola, l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche non universitarie di ogni ordine e grado. Nel rispetto della libertà di coscienza e della responsabilità educativa del genitori, è garantito a ciascuno il diritto di scegliere se avvalersi o non avvalersi di detto insegnamento. All’atto dell’iscrizione gli studenti o i loro genitori eserciteranno tale diritto, su richiesta dell’autorità scolastica, senza che la loro scelta possa dar luogo ad alcuna forma di discriminazione».

L’innovazione che tale articolo importa nei riguardi dell’insegnamento religioso è evidente. Sinora, in conseguenza del principio sancito dal vecchio Concordato secondo cui «l’Italia considera fondamento e coronamento dell’istruzione pubblica l’insegnamento della dottrina cristiana, secondo la forma ricevuta dalla tradizione cattolica», tale insegnamento era obbligatorio salvo domanda di esonero. Oggi invece viene introdotta la «facoltatività»; per avere l’insegnamento religioso, occorre chiederlo.

Ragioni di varia natura — dalla preoccupazione, fondata, che le richieste siano poche, a quella della via per la diffusione di una nuova, e cattiva, teologia postconciliare — hanno portato alcuni gruppi di intellettuali cattolici ed ecclesiastici alla proposta di una scelta tra due insegnamenti alternativi: quello confessionale, garantito dall’autorità religiosa, e un altro neutro, storico-critico, di «cultura religiosa». Scegliere sarebbe obbligato; resterebbe libera però l’opzione.

Dirò le ragioni per cui io sono, per motivi religiosi, recisamente contrario alla proposta.

Tre questioni si presentano al riguardo. La prima, se un insegnamento religioso neutro sia possibile. La seconda, quale rapporto si stabilirà tra i due insegnamenti, il confessionale e il culturale. La terza, il modo in cui l’insegnamento di cultura religiosa sarà recepito dagli allievi nella situazione intellettuale presente.

L’insegnamento religioso tradizionale ha dei caratteri particolari che lo differenziano da ogni altro. Il suo presupposto è la rivelazione soprannaturale, la cui verità non viene posta, in quella sede, in discussione. Perciò, chi lo impartisce deve ricevere l’approvazione dell’autorità ecclesiastica. In questo senso è «confessionale», non in senso «apologetico» e tanto meno «costrittivo». Insegna le grandi linee della dommatica e della morale cattoliche; i giovani faranno poi la loro scelta, che sarà una scelta consapevole.

Il corso neutro di cultura religiosa metterebbe invece tra parentesi Dio, rivelazione, soprannaturale; non si pronuncerebbe, cioè, a loro riguardo. Conoscerebbe soltanto fenomeni religiosi in quanto si manifestano nella storia, accanto, e in correlazione, ad altri fenomeni, sociali, politici, artistici e via dicendo. Sarebbe del tutto indifferente che il suo insegnante sia credente o agnostico, o ateo dichiarato.

Ora, è su questa parentesi che occorre portare l’attenzione. E si vede che, per una via o per l’altra, è impossibile attenersi a quella neutralità che la proposta richiede; che tale neutralità deve necessariamente essere elusa, o, nel senso propriamente religioso, o in un senso immanentistico, o più spesso materialistico.

Non credo vi sia oggi nessun teologo che neghi una, comunque parziale, verità religiosa alle tradizioni precristiane; parziale verità dipendente da quella rivelazione di Dio attraverso il mondo visibile die è accessibile a tutti gli uomini, e che permette la domanda religiosa in senso proprio; rispetto a tale domanda, il cristianesimo come evento radicalmente nuovo e irruzione di Dio nella storia, sarebbe la risposta. Sarebbe certamente augurabile ci fossero molti insegnanti di tale orientamento; troverebbero però molte difficoltà a manifestarlo, in certe regioni soprattutto, per la pressione delle accuse di venir meno alla laicità che era nei patti.

Estremamente facile sarebbe invece il compito dell’insegnante di convinzioni opposte. Non avrebbe alcun bisogno di dichiarare il suo agnosticismo o il suo ateismo. Quali sarebbero infatti i primi apprendimenti degli allievi davanti a questo insegnamento storico-critico che si limita a considerare la religione nelle sue manifestazioni fenomeniche? Apprenderebbero che l’esperienza storica ci manifesta una pluralità di religioni, ognuna delle quali pretende di presentarsi come vera, chiedendo una fede senza possibilità di verifica e, di più, che la religione è più intensa dove il dominio tecnico, attraverso la scienza, dell’uomo sulla natura, è minore; che la religione tende a decrescere nei tempi in cui il benessere è più generalizzato, ad aumentare nei periodi di infelicità terrena; in breve, è aperta per loro la via della teoria per cui il soprasensibile sarebbe la «proiezione» dei nostri desideri e bisogni insoddisfatti; dello stato di alienazione dell’umanità, come oggi si usa dire.

Cioè, l’allievo del corso di cultura religiosa incontrerà, nel suo primo approccio con la religione, proprio le obbiezioni contro fa religione. E’ certamente mia convinzione che queste obbiezioni possano venir superate; occorre però riconoscere che il loro potere di diffusione e di permanenza è grandissimo, se uno studioso come Eric Voegelin constatava, or sono una quindicina di anni, che in una notevole parte delle università americane la tesi secondo cui Dio sarebbe una «proiezione» è pacificamente accolta come punto su cui non c’è più da discutere. Il corso «storico-critico» di cultura religiosa sembra, non soltanto a me, nelle circostanze presenti, inclinato verso l’insegnamento di irreligione.

Penso che i sostenitori dell’insegnamento alternativo mi ribatteranno che dal corso di cultura religiosa risulterà la perennità della dimensione religiosa. Questa tesi, di fatto, era anche affermata, a suo modo, dalla cultura idealistica; ma non ci si può nascondere che oggi prevale in varie forme, e nello stesso Occidente, l’idea di una fatale scomparsa della religione, di un suo passaggio all’archeologia dell’umanità; diciamo che è l’idea comune alle varie- forme del materialismo contemporaneo.

Ma, con ciò, è data anche una risposta alla seconda questione. Nelle condizioni presenti i due insegnamenti saranno destinati a contrapporsi; saranno, generalmente almeno, sentiti come il dommatico e il critico, il mitico e lo scientifico; ed è facile intendere dove si dirigerà la scelta opzionale. Si aprirà dunque di nuovo quello scontro tra scienza e religione che cosi la vecchia destra liberale come la cultura idealistica avevano cercato di evitare (ed è in questo senso che deve venir «inteso l’antimodernismo di Croce e di Gentile). Si arriverebbe a questo paradosso: lo scopo del nuovo Concordato è di promuovere la pace religiosa, ed è a questo scopo che la Chiesa è giunta a concessioni che dirò, quanto meno, sofferte (credo che per nessun cattolico questo nuovo Concordato rappresenti l’ideale, anche se vi ravvisa il minor male possibile). Tra i suoi risultati ci sarebbe però da verificare, per quel che attiene a un campo così importante come la scuola, esattamente l’opposto.

Infine, come tale insegnamento sarà recepito da quei giovani che opereranno la scelta in suo favore? E’ facile intendere che, in ragione della loro esclusione dall’insegnamento confessionale, sono già prevenuti; non saranno increduli in senso assoluto, ma tentati almeno a pensare che, sotto la varietà dei simboli, tutte le religioni, o almeno le maggiori, si equivalgono. E, soprattutto, consideriamo come si siano oggi invertiti i rapporti tradizionali tra gli istituti educativi. Nella concezione tradizionale l’ordine tra questi istituti era il seguente: al primo posto la famiglia, al secondo la scuola, al terzo la città. Oggi, invece, la cultura della città prevale su quella della scuola, e quanto alla famiglia si sa quanto il suo potere educativo si sia indebolito.

Ora, la cultura che, sia pure con eccezioni, domina sulle città è il riduzionismo; mescolanza di un marxismo in cui è venuto meno quell’afflato, a suo modo, religioso, che in esso pur permaneva, di psicanalisi di sinistra, di tendenza dell’antropologia culturale a prendere il posto di regina della scienza, al modo della teologia nel medioevo. Linee di pensiero accumunate dall’idea che là dove è il più basso, ivi è il più profondo; dal materialismo, insomma. E’ dunque estremamente facile che gli allievi saldino quel riduzionismo che hanno appreso dalla cultura della città (tramite la più gran parte dei mass-media) col relativismo storico nei riguardi della religione. Di nuovo la «cultura religiosa» tende a convertirsi nell’insegnamento di irreligione.

Penso che gli intellettuali cattolici farebbero meglio, per rendere popolare l’unico insegnamento religioso e incoraggiare la libera scelta di esso, a insistere sul punto dell’articolo del Concordato in cui viene detto che «i princìpi del cattolicesimo fanno parte del patrimonio storico del popolo italiano». Senza conoscerli è dunque impossibile rendersi cento della stessa nostra tradizione; ed è di questa assenza di consapevolezza, pur oscuramente sentita, che oggi soprattutto i giovani soffrono. Gli atteggiamenti verso la tradizione possono essere i più diversi; ma la consapevolezza non deve mancare.

Ho parlato sino a questo momento di insegnamento «confessionale»: non ho alcuna ripugnanza rispetto a questo aggettivo, che per me significa appartenenza a una grande comunità religiosa. Ma indubbiamente viene abbinato all’idea di «religione chiusa».

Mi accorgo ora che l’articolo del Concordato parla di «insegnamento della religione cattolica», ed è dizione migliore. Quei cattolici che si lamentano, giustamente, della tanta ignoranza religiosa, e pensano di ovviarvi attraverso il corso di cultura religiosa, dovrebbero pensare che, almeno per i cattolici e per gli italiani, la prima religione da conoscere è la loro.