Se il male vien dall’anima

oncologiaAvvenire, giovedì 27 ottobre 1988

 Si apre oggi a Milano il convegno internazionale di «psicooncologia»

 «L’infelicità è la causa del cancro». E il medico si scopre inutile

di Maurizio Blondet

Processato e condannato ingiustamente, Enzo Tortora fu in seguito colpito da un cancro inarrestabile, che lo uccise in pochi mesi. Il buon senso popolare ha visto nella tragedia una relazione tra l’umiliazione morale e la malattia mortale del popolare presentatore. Ma non è il caso. Quello di Aleksandr Solgenitsyn è stato felice: liberato dai lager staliniani nel ’56 perché morente per un cancro gastrico sviluppato negli otto anni di prigionia, lo scrittore udì dalla radio, pochi giorni dopo la sua liberazione, la notizia della morte di Stalin. Il suo tumore, già ad uno stadio avanzatissimo, sparì in pochi giorni.

Il «male del secolo» può avere una causa psicologica? E’ una «malattia dell’anima» che, pur colpendo il corpo, appare sensibile agli stati emotivi del malato? È questo il tema centrale del settimo Convegno internazionale di psicooncologia, che si tiene a Milano tra oggi e il 30 ottobre.

Non si tratta di un qualunque raduno di medicina «alternativa»; i membri del gruppo Eupsyca (gruppo di lavoro europeo per la ricerca psicosomatica sul cancro) che organizza il convegno, composta di medici con lauree ufficiali e dotati dei crismi della legalità scientifica; fra gli invitati, sono ufficialissimi docenti universitari e psicosomatici famosi come Ferruccio Antonelli. Ciò non toglie che questo filone di ricerca sia ignorato e persino censurato, e si capisce il perché: l’approccio «scientifico» alla malattia, quello che si ostina a cercare nelle patologie delle cellule e in anomalie del Dna l’origine del cancro, mobilita finanziamenti per la ricerca valutabili in miliardi di dollari; i tentativi di trovare il farmaco curativo coinvolgono enormi interessi industriali, gli studi sulle frontiere della bioingegneria e della farmacologia fruttano cattedre ambite e premi Nobel.

Nell’attesa, il cancro — seconda causa di morte dopo le malattie cardiache, 120 mila vittime l’anno in Italia — continua ad essere «curato» come un male puramente organico e locale (localizzato in un organo), con metodi che i medici di due secoli fa chiamavano «eroici»: bisturi, radiazioni, chemioterapici.

Ossia, per continuare ad usare il linguaggio di due secoli fa, con «ferro, fuoco, veleno».

Effetto placebo

Eppure il sospetto che il cancro sia piuttosto una malattia «centrale» (del sistema nervoso centrale) e psicosomatica, è antico. «Sono così frequenti i casi», scriveva nel 1870 il grande clinico James Paget, «in cui l’angoscia, la speranza delusa, la delusione sono seguite dalla crescita e dell’aumento del tumore, che non si può più dubitare che la depressione mentale è un’aggiunta potente ad altri influssi che favoriscono lo sviluppo del male». Anche più antica è la constatazione che gli schizofrenici catatonici (cioè quei malati mentali che hanno rotto ogni relazione col mondo esterno) non si ammalano mai di cancro: fenomeno che ha fatto dire a certi psicologi che la «pazzia» della mente possa essere un’alternativa alla «pazzia» delle cellule.

Nella letteratura medica sono noti casi in cui il tumore è regredito rapidamente sotto il cosiddetto «effetto placebo». Nel 1950, in America ebbe larga pubblicità un farmaco in corso di sperimentazione, chiamato Krebiozen, presentato come la «cura risolutiva» del cancro.

Uno dei medici che partecipavano alla ricerca. Bruno Klopfer, aveva un paziente con linfosarcoma avanzatissimo: masse tumorali enormi, necessità di maschera d’ossigeno, dolorose iniezioni peritoneali quotidiane per prosciugare il liquido infetto che si formava. Saputo che il suo medico lavorava al Krebiozen, di cui aveva letto sui giornali, il paziente insistè per sottoporsi come cavia alla cura. In poche settimane, poté riprendere la sua vita normale e persino guidare il suo aereo privato.

Poi, il pa­ziente lesse alcuni articoli in cui il Fda (l’ente nazionale statunitense che controlla e prova i nuovi farmaci) lanciava un dubbio sull’efficacia del Krebiozen: e, di colpo, riapparvero le grandi masse tumorali e i gravissimi disturbi. Il dottor Klopfer ricorse ai rimedi estremi: disse al paziente di aver ottenuto un super-Krebiozen molto raffinato e più potente, e gli iniettò acqua distillata, il paziente «guarì», e potè con­durre una vita normale per due mesi. Fino a quando fu pubblicato il responso definitivo del Fda: dove il Krebiozen veniva definito «un medicamento senza valore». In pochi giorni il malato morì.

Lo stress uccide

«Lo studioso americano Vernon Riley», dice il professor Carlo Sirtori. «ha stressato in vario modo dei topi di laboratorio (con scosse elettriche, appendendoli per la coda e così via) e poi ha iniettato loro il virus di Bittner, che dà il cancro alla mammella. Un anno dopo, il 90% dei topi stressati aveva contratto il cancro, contro solo il 10 per cento dei topi “di controllo”, non stressati». Che esista un legame tra lo stress e il sorgere di malattie lo stabilì già negli anni Venti il medico praghese, poi trasferitosi in Canada, Hans Selye; del resto era da tempo osservazione di clinica comune che le persone che avevano subito un lutto familiare cadevano più facilmente vittima di malattie infettive. Selye capì il meccanismo per cui ciò avveniva: uno stress prolungato stimola, da parte delle ghiandole surrenali, la superproduzione di cortisone, l’ormone che inibisce il sistema immunitario.

Il sistema immunitario è l’apparato di «sorveglianza e repressione» dell’organismo: un complicatissimo sistema neuroormonale, governato dalle zone profonde del cervello, che «riconosce» le cellule estranee (i batteri, per esempio) e le aggredisce. In un certo senso, il sistema immunitario è una struttura dell’Io, che combatte le in­trusioni di «non-Io» nell’organismo.

Nel corpo umano, composto di 60 milioni di mi­liardi di cellule che muoiono e rinascono al ritmo di 18 mila miliardi al minuto e si rinnovano completamente circa 50 volte nel corso della vita, il sistema immunitario compie l’incredibile miracolo di mantenere a questo ammasso in continua mutazione la sua «identità»: ogni minuto, 900 milioni di cellule del nostro corpo (circa il 5% del totale) che nascono «sbagliate», scarti di fabbrica, vengono «riconosciute» e di­strutte. Senza questa «repressione sociale», quelle cellule potrebbero proliferare dando origine a cellule tutte uguali. Ossia creando le «masse amorfe e indiffe­renziate» in cui consiste il tumore.

Curare l’uomo

Luigi Oreste Speciani, un medico milanese scomparso pochi anni fa, avanzò l’ipotesi che l’apparato immunitario sia uno dei meccanismi somatici di un «principio organizzatore immateriale», che non «si trova nelle cellule, ma nel “centro”, ossia nell’uomo intero». «Questo misterioso principio organizzatore — diceva Speciani — ha un nome tecnico, ancorché tabù: anima». L’anima vegetativa della Scolastica, quella che San Tommaso chiamò forma corporis. Il «centro di comando» corporeo dell’anima, sarebbe per Speciani, l’ipofisi: minuscolo organello situato in posizione super-protetta sotto il cervello, per metà tessuto nervoso e per metà ghiandola endocrina che secerne una dozzina di ormoni diversi, chiamati «realeasing factors» (fattori scatenanti) perché la loro increzione, anche in dosi minime, provoca la secrezione delle ghiandole ormonali propriamente dette (testicoli, surreni, tiroide e così via).

Si ammette comunemente che l’ipofisi regoli anche il sistema immunitario. Ma quel che conta, per Speciani, è che la piccola ghiandola «traduce» in modulazioni biochimiche e ormonali le emozioni, i messaggi psicoemotivi che giungono dal cer­vello.

È noto che intensi stress negativi rende più vulnerabili a qualunque malattia, dal raffreddore al cancro. I medici Holmes e Roche hanno addirittura predisposto una scala di «eventi stressanti» cui hanno assegnato un «punteggio»: si va dai 100 punti per «la perdita di una persona amata», ai 63 per «incarcerazione», ai 31 per «ipoteca di più di 10 milioni», fino a 11 per «contravvenzione». Chi, nell’arco di un anno, supera la somma di 300 punti, può più facilmente cadere vittima di una qualunque malattia, dall’influenza al cancro.

La disperazione esistenziale

Ciò avviene, spiegava Speciani, perché l’Organizzatore, sotto lo stress prolungato, si «smarrisce», perde la sua capacità di sorveglianza. E il più insidioso è lo «stress cronico di cui la società del benessere fornisce quantità intollerabili»: lo scadimento delle relazioni tra persone, la competitività esasperata delle «istanze collettive», il disadattamento, ma soprattutto «la tipica chiusura dell’uomo moderno alla speranza».

Ma cos’è «chiusura alla speranza» cosi «tipica» dell’uomo contemporaneo? Un grande oncologo, Le Shan, in una ricerca condotta su 500 cancerosi, ha stilato una specie di identikit della personalità predisposta alla malattia: «Questi pazienti hanno una vita particolarmente isolata, autocondannante e autocolpevolizzante, e nonostante la loro disperazione continuano a portare avanti la loro attività di routine, senza soddisfazione, anzi svuotandosi». Così, cominciamo forse a capire: quella che Le Shan descrive è la disperazione dell’uomo secolarizzato, lo stoicismo «borghese», tutto chiuso nell’al di qua, che non offre una prospettiva di speranza dentro le sconfitte della vita. Per contro, diceva Speciani: «Chi può dire quanti cancri vengono evitati dalla preghiera, dalla rassegnazione al proprio stato, da un’assoluzione ottenuta dal sacerdote, una capacità di sublimare la sofferenza in aiuto?».

E una verità di cui hanno fatto esperienza, stupendosene, due cancerologi statuni­tensi dell’ospedale di Fort Worth, Texas: Cari Simonton, radioterapista, e sua moglie Stephanie, psicologa, esperta nelle «psicoterapie d’appoggio» ai malati di cancro. Uno dei loro pazienti, un uomo d’affari americano, sembrava smentire l’identikit psicologico stilato da Le Shan: un uomo energico, di successo, marito e padre felice. Eppure, s’era ammalato di cancro. Stimolato dai medici a ricordare il suo stato emotivo nei mesi precedenti l’apparizione della malattia, infine, il paziente disse: «Avevo la sensazione di aver raggiunto ormai, a quarant’anni, tutti gli scopi della mia vita: un ottimo lavoro, una bella casa, moglie e figli adorabili. Ma nello stesso tempo, mi chiedevo: è tutto qui? Ed ho continuato a lavorare chiedendomi: è tutto qui?».

E’, come si può capire, la domanda religiosa. Quella che ad un certo punto ha colto tutti i grandi convertiti. Quella che si pose il figlio di Bernardone d’Assisi, ricco mercante, e lo indusse ad abbandonare tutto per diventare San Francesco. E, anche, la sola domanda cui il nostro mondo «tollerante» non ammetta risposta Senza quella risposta, l’uomo che ha scoperto la vanità della vita continua a lavorare per «questa» vita, «svuotandosi). Fino alla malattia mortale.

Su questa base, Carl e Stephanie Simonton hanno messo a punto una curiosa psicoterapia del cancro. Invitano i pazienti a pensare ai «vantaggi» che la malattia procura loro: avere il cancro e un male, ma può essere sentito come una tregua necessaria dalla corsa al successo, sentita come vana. O può dare occasione di esprimere emozioni, che ad un «sano» non sono permesse. O, ancora, può sollecitare l’affetto dei propri cari, sepolto da anni di indifferenza.

Perdonare per guarire

In secondo luogo, i coniugi Simonton istruiscono il malato ad immaginare un «consigliere interiore», con cui parlare, cui far le domande che stanno a cuore: e tale «consigliere» somiglia molto all’angelo custode, relegato nelle illusioni infantili. Infine, i due medici americani insegnano ai malati a raggiungere la pacificazione interiore. In un modo: superando il risentimento, «perdonando ai propri nemici». «Il metodo l’abbiamo tratto da un vecchio libretto di devozione capitatoci in mano per caso, “Il Sermone della Montagna “»,  racconta Carl Simonton: «E un metodo di orazione molto usato dai religiosi Si immagina di avere davanti la persona per cui si ha risentimento, e si immagina che le accadano delle cose buone e piacevoli Sembra difficile, anzi impossibile: ma con l’esercizio, si scopre che si può, e ciò aiuta ad avere relazioni più serene con gli altri».

Può sembrare ingenuo. Ma Cari e Stephanie Simonton (che hanno pubblicato le loro esperienze m un libro, «Star bene nuovamente», edito in Italia dalle Edizioni Nordovest) ottengono per i loro pazienti un prolungamento medio delle speranze di vita di cinque anni, una diminuzione imponente dei dolori, e talora remissioni che paiono miracolose. I metodi dei Simonton, ha riconosciuto lo stesso Hans Selye, «mobilitano positivamente il sistema immunitario dei malati, lottando contro lo stress negativo». Che sia questa la risposta giusta?