Musulmane d’Italia: l’incubo poligamia e la voglia di riscatto

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Una condizione di subordinazione, alla quale spesso si accompagnano soprusi e violenze. Fino all’umiliazione di dover condividere il marito con un’altra. Viaggio-inchiesta nella condizione femminile delle donne islamiche E nei tentativi di cambiare le cose. «Tutto è andato bene in casa, fino a quando ho cominciato a uscire di casa con un ragazzo della mia età che non è musulmano. Minacce e violenze, la stessa sorte che è toccata ad altre come me»

di Giorgio Paolucci 

«Mi chiamo Samira, sono una ragazza marocchina di 19 anni e da quando ne avevo 10 vivo in Italia. Andava tutto bene finché ho cominciato a uscire con un ragazzo della mia età che non è musulmano. Da allora mio padre vuole che porti il velo, non mi fa uscire più di casa, ha cominciato a prendermi a pugni e calci, appena vedo alzare una mano il cuore comincia a battermi forte. Vi giuro: non ho più lacrime da asciugare, quelle lacrime che ti danno un momento di pausa per far passare il dolore e la rabbia.

Conosco altre amiche che si trovano nella mia situazione e che vivono segregate in casa o in luoghi da cui non possono fare nemmeno più una telefonata. Non voglio fare questa fine, ho paura, aiutatemi». Samira ha lanciato il suo grido di dolore ad Acmid-donna, un’associazione che si occupa della tutela e della promozione delle marocchine che vivono in Italia.

La sua voce è solo la punta di un iceberg che ogni tanto affiora alla superficie delle cronache mediatiche. È l’iceberg delle donne di tradizione islamica, spesso costrette in una condizione fatta di maltrattamenti e violenze in famiglia, di matrimoni combinati con uomini mai visti, di figli sottratti da mariti che fanno perdere le loro tracce. Fino alla poligamia, una prigione nella quale ci si può ritrovare partendo da diversi punti di partenza: un matrimonio celebrato nei Paesi di origine, oppure nei consolati stranieri d’Italia o, ancora, in molte delle moschee che si sono moltiplicate in questi anni.

Matrimoni, questi ultimi, che non producono effetti civili, non sono riconosciuti dalla legge nostrana ma pesano sulla realtà quotidiana perché determinano le condizioni di fatto in cui queste donne si trovano a vivere. Si parla di quindicimila uomini che vivrebbero con più di una moglie in seguito a nozze celebrate nei Paesi d’origine e/o in Italia. Impossibile certificarlo. Certo è che la poligamia, negata dalla legge, è di fatto presente in una parte dell’islam italico. Anche se il panorama delle di scriminazioni operate nei confronti delle donne è molto più ampio.

I casi che fanno discutere.

L’opinione pubblica si è commossa e indignata dopo la morte di Hiina, la ventunenne pakistana trucidata dal padre e poi sepolta nel cortile di casa a Brescia, «colpevole» di vivere all’occidentale e di essersi accompagnata a un giovane italiano rifiutando il matrimonio combinato che i genitori le avevano preparato.

Ma ogni giorno nel nostro Paese si consumano violazioni della dignità femminile, pur senza degenerare in esiti nefasti come quello che è toccato a lei. Poche settimane fa una ragazza tunisina di 17 anni è finita all’ospedale di Bolzano per le botte ricevute dal padre, contrario alle sue frequentazioni con un compagno di scuola italiano. Ora è ospitata in un centro di accoglienza.

In luglio due sorelle tunisine di 17 e 19 anni sono fuggite da un paese del Trevigiano per sottrarsi alle ripetute violenze del padre. In giugno è finito in carcere un marocchino che aveva imposto alla moglie di 32 anni un’esistenza segregata: non poteva uscire di casa senza autorizzazione, con percorsi e tempi calcolati, né poteva parlare o avere contatti di qualsiasi genere con uomini. A ogni trasgressione (supposta o effettiva) facevano seguito le violenze, anche a colpi di sgabello.

La marcia indietro dell’omertà.

Ma accanto ai drammi che arrivano in tribunale, ce ne sono altri che si consumano e restano tra le mura di casa, nell’omertà della famiglia o della comunità che non vuole violare leggi non scritte ma che governano la quotidianità.

Lo conferma il caso arrivato sulla scrivania di Fakhita Haouari, responsabile della sezione lombarda di Acmid: «Una marocchina di vent’anni, laureata in economia, dopo avere raggiunto la famiglia in Italia ha accettato di lavorare come cameriera in un ristorante e come donna delle pulizie in una trattoria. Un giorno, scoperta dal fratello minore a parlare con un coetaneo, è stata selvaggiamente picchiata dal padre e dal fratello che l’accusavano di essere una ragazza ‘frivola’. L’abbiamo invitata a sporgere denuncia ma lei si è rifiutata in nome dell’onorabilità della famiglia. E purtroppo il suo non è l’unico caso in cui le vittime fanno marcia indietro».

Anche se ovviamente il mondo dell’immigrazione femminile islamica non è riducibile a episodi come quelli descritti, i maltrattamenti e le sopraffazioni sono all’ordine del giorno. E c’è chi denuncia una sorta di lunga marcia della sharia nella società italiana: consuetudini di vita e valori derivanti dalla tradizione musulmana o dalle legislazioni dei Paesi di origine vengono replicati nei nuclei familiari o nelle comunità etniche, in barba alle leggi del nostro Paese.

Andando di fatto a costruire, mattone su mattone, una sorta di società parallela impermeabile (e spesso ostile) a quella italiana. In cui le vittime designate sono quasi sempre loro, le donne. E i loro figli.

L’arrivo della seconda moglie.

Kadija è in Italia dal 1981, vive con il figlio di 13 anni in una città del Sud dopo essere stata abbandonata dal marito egiziano che in precedenza si era sposato in patria con un’altra donna, dalla quale aveva avuto tre figli. Lei era all’oscuro di tutto, e quando si è resa conto di essere una seconda moglie e ha provato a ribellarsi, sono stati dolori.

Minacce, pestaggi, ricoveri in ospedale, una denuncia per maltrattamenti e la condanna del coniuge a 4 anni e 4 mesi per violenze. Oggi Kadija vive col figlio in un centro antiviolenza, e guarda con angoscia al loro futuro. «Lui è sparito col mio passaporto, il ragazzo è registrato sul suo documento, in queste condizioni non possiamo neppure muoverci dall’Italia». Un’altra vita costretta all’inferno.

Quell’inferno in cui rischiano di precipitarne altre, se non verranno modificati alcuni articoli del disegno di legge sulla libertà religiosa in discussione al Parlamento che in maniera surrettizia «aprono» alle richieste dell’Ucoii e delle componenti radicali dell’is lam di casa nostra. Ad esempio l’articolo11, in base al quale, durante la celebrazione del matrimonio in moschea, il ministro di culto islamico non sarà obbligato a leggere i passaggi del codice civile che stabiliscono la parità di diritti e doveri tra marito e moglie «qualora la confessione abbia optato per la lettura al momento della pubblicazione».