Risparmiare. Ma per chi?

risparmioIl Secolo d’Italia 15 novembre 1983

 di Marzio Narici

IL RISPARMIO non è più di moda. E non lo è -come ha rilevato anche larga parte della stampa in questi giorni — perché da alcuni lustri lo Stato, mentre da un lato è impegnato a penalizzare con ogni sorta di tasse e gabelle i citta­dini propensi a risparmiare una sia pur modesta parte delie loro entrate, dall’altro fornisce un cattivo esempio, spendendo assai più di quanto incassa e facendo ricadere sull’intera collettività di lavoratori e pensionati il peso di questa scriteriata politica di spesa pubblica.

E’ logico quindi che non si celebri più la «giornata del risparmio», né il 31 ottobre, né il 1 gennaio, né mai. Che cosa potrebbero dire infatti le autorità finanziarle di fronte al tradimento della Carta costituzionale del 1948 che pure all’art. 47 recita: «La Repubblica incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme; disciplina e controlla l’esercizio dei credito»?

La classe dirigente italiana dal 1948 in poi per alcuni anni seguì una politica volta ad Incoraggiare II risparmio e la proprietà della casa e della terra, essendo la società Italiana, almeno allora, prevalentemente agricola.

Einaudi inaugurò un processo di stabilizzazione della moneta che ai protrasse per tutto l’arco degli anni Cinquanta. Nei 1999 la lira fu addirittura premiata con l’Oscar, premio che veniva ogni anno assegnato alla moneta che avesse mostrato II maggior grado di stabilità nei potere d’acquisto.

Oggi? Inflazione, spesa pubblica Inarrestabile, scala mobile, indebitamento. Tutto ciò non è tuttavia sorto a caso, ma ha una causa precisa e radici profonde.

Il «boom» economico degli anni Sessanta, che ha significato l’ingresso dell’Italia fra i paesi industrializzati dell’Occidente, ha cambiato molte cose. Tale Inserimento comportò l’accettazione del modello di società di quel paesi industrializzati; modello che veniva quindi importato e adattato alle esigenze — peraltro assai diverse — del nostro passe a sovrapposto a quello vigente previsto dalla Carta costituzionale.

Ecco la forzatura che ha prodotto gravi scompensi e un rovesciamento forse Irreparabile dei valori e dei principi cardine della società italiana. Importammo, con l’Industrializzazione, gli indirizzi che la sottendono: consumiamo, urbanizzazione, redistribuzione dei reddito attraverso l’aumento della spesa pubblica, investimenti pubblici senza risparmi mediante l’Indebitamento dello Stato. Sono I principi keynesianl del «New Deal» di Roosevelt applicati alla realtà Italiana.

Tutto ciò ovviamente andava nella direzione opposta a quella del risparmio. Bisognava consumare ciò che II sistema Industriale gettava sul mercato, non Importa se beni durevoli o non, utili o superflui.

Il sistema creò la figure, dei consumatore, che progressivamente andò sostituendo quella dei risparmiatore e dei proprietario, per tutto sacrificare sull’altare dei consumo.

E il risparmiatore? La questione ai pone immediatamente perché il principio keynesiano, a cagione della scala mobile, è stato applicato in Italia solo ai lavoratori che risparmiano. In una società consumistica Il lavoratore che, facendo un sacrificio, destina parte delia retribuzione al risparmio, non ha coscienza che l’interesse reale è inferiore all’Interesse nominale o addirittura è interesse negativo.

E’ persona il risparmiatore in società dei consumi? No di certo. Ecco II modello di uomo che la società dei consumi ha prodotto: un uomo costretto a consumare senza poter scegliere, ossia un uomo essenzialmente non libero.

E’ una grave accusa che va mossa al sistema politico ed economico che di tatto svuota II principio della proprietà, del risparmio, della libertà economica.

C’è dell’altro. Lo Stato impunemente tassa pesantemente interessi bancari che rappresentano, per il risparmiatore, non già del guadagni, ma soltanto un parziale rimborso delle erosioni che II suo capitale subisce a causa del pro­cesso inflazionistico, e non per colpa sua. Non solo, ma ora il sindacato — e pare che il governo incominci a crederci anch’esso — propone di tassare i Bot, perché il non tassarli comporterebbe una grossa sperequazione fiscale rispetto al redditi d’impresa, cioè i profitti, che vengono colpiti dalla scure del fisco.

Non parliamo poi degli investimenti immobiliari che tassazioni e restrizioni varie scoraggiano ogni giorno di più, contribuendo, fra l’altro, ad accentuare la crisi, già profonda, del settore edilizio.

Se questa è la logica dello Stato, allora i quaranta «seggi» della Commissione bicamerale per la riforma delle istituzioni hanno già bell’e pronto il nuovo articolo 47 della Costituzione: «La Repubblica, con la istituzionalizzazione dell’inflazione e dello spreco, scoraggia e colpisce il risparmio e deforma l’esercizio del credito».

Con tante scuse per chi ancora risparmia.