Disinformando si vince

disinformazioneIl Secolo d’Italia venerdì 20 novembre 1987

Vladimir Volkoff presenta un libro sulla manipolazione della verità

 La «guerra occulta» da Sun Zu ai nostri giorni

di Rino Cammilleri

VLADIMIR Volkoff è uno dei dissidenti russi meno noti. Vive a Parigi da anni e non ha mai fatto gesti pubblici clamorosi, né si è posto a capo di comitati o altro. L’unica cosa per cui è noto qui da noi è un suo romanzo, Il montaggio, uscito alla chetichella qualche anno fa per la Rizzoli. Vi si narra del figlio di un esule russo che viene ingaggiato dal Kgb fin dal liceo, perché faccia per trent’anni l’agente d’influenza in Francia per conto dell’Unione Sovietica. In cambio otterrà il permesso di tornare in patria e poter sciogliere una promessa che ha fatto al padre morente.

A parte l’aspetto evidentemente biografico e il taglio narrativo di prim’ordine, il romanzo è letteralmente sorprendente per la precisione e la verosimiglianza di troppi particolari: si ha l’impressione, cioè, leggendolo, che l’autore abbia messo avventurosamente le mani su un manuale del Kgb e che abbia deciso di metterlo in forma narrativa proprio per la consapevolezza, tipica in un certo senso degli «addetti ai lavori», che soltanto chi aveva orecchie per intendere avrebbe inteso il messaggio.

Un agente di influenza, vero o letterario che sia, ha il compito di «inquinare» più che può le notizie e di cercare di orientare l’opinione pubblica del Paese in cui si trova, in modo favorevole al Paese che lo paga. È quindi troppo esperto del settore per sapere che nel mondo dell’opinione nessuna verità può essere creduta se non è potentemente sostenuta dai mass-media e dai partiti. Tanto vale lanciarla nella corrente, come Mosè nella cesta; chissà che non passi vicino a qualcuno che guardi cosa c’è dentro.

Lo scorso anno Volkoff è riapparso in Francia nelle edizioni Julliard / L’age de l’Homme, come presentatore di un testo intitolato La désinformation, arme de guerre, una raccolta di testi di Sun Zu, Lenin, Bittman, Koestler, Zinoviev e altri.

Si tratta di un libro interessante, specialmente nella parte scritta di pugno da Volkoff, perché va al di là delle acquisizioni comuni in materia di spionaggio moderno e di disinformazione strategica- Ormai, dal Vietnam in poi, il grosso pubblico è al corrente dell’importanza della propaganda e di come si possano perdere le guerre «alla Tv». Ma Volkoff si spinge al di là di tutto ciò, accompagnando l’antologia di brani scelti con un vero e proprio «vademecum» dell’uomo libero, una sorta di manuale per riconoscere la disinformazione, distinguerla dalle «discipline affini» e, soprattutto, difendersene.

Si parte dalla constatazione che «l’informazione è parzialmente deformante per natura. Non possiamo nemmeno guardarci in uno specchio senza disinformarci almeno un po’ anche su noi stessi: la qualità del vetro, quella dei nostri occhi, l’illuminazione, il nostro umore, deformano la nostra visione. Quando gli elementi di «deformazione» sono introdotti scientemente, abbiamo la disinformazione di cui qui si tratta, quella che ormai ha relegato il vecchio «spionaggio» nei film di James Bond.

Questa nuova «arma» è in realtà vecchia di oltre venticinque secoli; ne fu profeta il cinese Sun Zu in uno scritto intitolato «L’arte della guerra», che contiene questa affermazione cruciale: «L’arte suprema della guerra è sottomettere il nemico senza combattere».

La disinformazione non va confusa con lo «stratagemma», anche se a volte ci può essere una certa somiglianza: infatti i Greci devono far credere ai Troiani che il Cavallo sia un’offerta agli Dei, perché venga aperta una breccia nelle mura per introdurvelo.

Qualche analogia si ha anche con la cosiddetta «intossicazione tattica». Esempio: gli Alleati, per far credere a Hitler che hanno intenzione di sbarcare in Grecia, fanno galleggiare al largo delle coste spagnole un cadavere in­glese con nelle tasche quanto basta. I tedeschi ci cascano e smobilitano la Sicilia, dove invece avviene il vero sbarco.

Abbiamo poi la propaganda classica, detta «bianca», che oggi come oggi serve a poco, provenendo apertamente da fonte avversa. Infatti le associazioni Italia-Urss e consimili, pure utili a catturare qualcuno, lasciano il tempo che trovano.

Invece la propaganda «nera» è molto più nefasta. L’inglese Sefton Delmer nell’ultimo conflitto creò una serie di stazioni radio filo-naziste che si dirigevano apertamente ai «camerati» o fingevano di essere clandestine, ma diffondevano notizie «confidenziali» miranti a gettare discredito sulle «canaglie che governano la Patria in nome del nostro amato Fuhrer». L’opera fu così efficace che dopo la guerra, Delmer si vide costretto a scrivere un libro per rivelare la verità.

L’«influenza» è una tecnica ancora più raffinata. Serve a destabilizzare la società avversaria in una prospettiva di tempo molto lunga che rinuncia e persino sacrifica obiettivi immediati. In diversi Paesi del Terzo Mondo I’Urss ha letteralmente svenduto i propri partigiani a regimi che le sarebbero tornati utili in un secondo o in un terzo tempo.

Ora, avverte Volkoff, si sa che «un rosa è sempre sospetto di essere amico dei rossi». Occorre quindi servirsi di bianchi o di neri, meglio se inconsapevoli. Così i nazionalisti che manifestano sentimenti antiamericani, fanno il gioco dell’Urss, pur detestandola. Sun Zu consigliava di mettere i giovani contro i vecchi nel Paese che si voleva invadere, non per renderli favorevoli al suo: era sufficiente dividere le generazioni. E una casa divisa, lo dice io stesso Vangelo, è preda più facile.

In effetti la disinformazione può essere confusa sia con l’intossicazione che con l’influenza. Ma «laddove l’intossicazione propriamente detta, è puntuale, tollera un certo dilettantismo, utilizza qualsiasi mezzo a sua disposizione, si applica a far credere certe cose precise a certe persone date, la disinforma­zione è sistematica, professionale, fa sempre ricorso ai mass media, s’indirizza all’opinione mondiale e non allo stato maggiore della na­zione-bersaglio».

«Parallelamente, dove l’influenza esercita un’azione apparentemente disordinata, opportunista, essenzialmente quantitativa, la disinformazione si propone un programma mirante a sostituire nella coscienza e soprattutto nell’inconscio delle popolazioni-bersaglio delle immagini considerate buone per la Potenza disinformante, a certe altre ritenute cattive». In ogni caso, «in disinformazione come in influenza, il bersaglio è concepito come complice. Basta introdurre nell’opinione pubblica un catalizzatore microscopico ma adeguato e la reazione ha luogo con (questo è essenziale) tutte le apparenze della spontaneità».

Occorre però partire da un certo numero considerato «critico» di persone. L’individuo, la famiglia, il gruppo professionale possono essere intossicati, ma non disinformati: il buonsenso finisce col prevalere. È sulla folla che occorre agire; la «massa» perde l’istinto di conservazione, è trascinata dal suo peso, si affida volentieri alla rassicurante manipolazione di «esperti». Il pifferaio di Hamelin non avrebbe potuto nulla su un topo solo.

La disinformazione deve, del pari, sfruttare mode e capricci che sono già nell’aria; non potrebbe, ad esempio, convincere gli Americani a riconoscere che la loro Guerra d’Indipendenza è stata un errore e che la Regina d’Inghil­terra ha diritto di sovranità su di loro. E poi richiede tempo, molto tempo. Pro­prio grazie alla lunga durata della guerra del Vietnam, la disinformazione è riuscita a creare negli Americani il «complesso di colpa» di cui solo recentemente hanno cominciato a liberarsi.

Insomma, la disinformazione «non consiste nel “far credere” ciò che non è, ma consiste nel modificare le reazioni a dispetto di quel che si crede. Non ha importanza, agli occhi della disinformazione, che l’Europa, per esempio, creda che l’Unione Sovietica sia il paradiso in terra: importa che, se attaccata, non si difenda; anzi, se possibile che si arrenda senza che glie lo si chieda. Non importa che ogni cittadino sappia o meno che la capitolazione di Monaco ha provocato la più grande guerra che l’umanità abbia mai conosciuto: occorre invece che, in ogni istante, le masse preferiscano a qualsiasi guerra non importa quale pace»

Una delle forme più insidiose di disinformazione è quella che Volkoff chiama «logomachia» (si tratta del «trasbordo ideologico inavvertito» di cui parla il De Oliveira nel suo libro omonimo): consiste in formule verbali pittoresche che, ritrasmesse dai mass-media, vengono accettate supinamente dall’opinione pubblica come vere. Si pensi ad esempio alla «caccia alle streghe» o, specialmente da noi, alla parola «fascista», il cui significato si è esteso nel pubblico fino a ricomprendere colui che non fa uscire la figlia dopo cena.

Volkoff auspica un lavoro serrato e cronologico che elenchi gli slogan avversari e le pubblicazioni su cui hanno fatto la loro comparsa, perché «lasciarsi imporre il vocabolario dell’avversario è già, in una guerra ideologica, perdere per metà». La stessa parola «disinformazione» viene usata nello stesso modo; presente da tempo sui dizionari sovietici, vi è definita come una tecnica usata dalle potenze capitaliste contro le democrazie popolari, ed è da anni addirittura entrata nel gergo russo: «podpustit’dezu», che sta per «rifilare un disinfo».

L’operazione consiste nel teleguidare l’opinione pubblica prescelta partendo da una documentazione preliminarmente raccolta e viene condotta «dal basso», dall’uomo dalla strada fino alle autorità e agli esperti, perché gli esperti sono prigionieri delle autorità, le autorità dell’opinione pubblica.

Si comincia col reclutare un cittadino della nazione-bersaglio, scelto per la sua posizione o per i suoi potenziali talenti. Ciò può avvenire per simpatia politica, per ricatto o con l’assicurazione di una facile carriera (naturalmente in un giornale, in un’emittente televisiva, in una cattedra prestigiosa o in seno alla Chiesa). Costui dovrà infiltrare interpretazioni, pronostici, contestazioni, con calma, nel tempo, modificando a poco a poce l’economia ideologica del suo Paese. Introdotto il «cata!izzatore«, le «casse di risonanza» faranno il resto.

I successivi intermediari sono generalmente inconsapevoli: chi può resistere alla tentazione di uno «scoop»? Si crede di propagare l’informazione in nome della libertà e invece si serve il totalitarismo. Non importa quanto idioti siano gli «utili idioti»; Sun Zu insegna: metti la biglia in cima, per quanto debole sia il pendio, rotolerà. E Sun Zu non aveva a disposizione i mass-media, la psico­logia sperimentale e il terrore nucleare, ma già avvisava che «nella guerra, la migliore politica è prendere lo Stato intatto; annientarlo non è che un ripiego».

La «finlandizzazione» dell’Europa e poi del mondo, paventata ma già ab­bondantemente in atto, non è altro: i Paesi capitalisti avrebbero venduto ai sovietici, diceva Lenin, la corda con cui impiccarli; ma (il marxismo è dottrina della prassi, ricordiamolo), l’insegnamento di Lenin è adesso modificato, perché gli impiccati non possono continuare a mantenerti. Devono restare in vita e lavorare, i capitalisti, ma con la corda al collo, corda che non si toglieranno mai perché non sanno di averla.

II Dipartimento D («dezinformatsia») è stato creato nel 1957 in seno al Kgb dal generale Ivan Ivanovic, Agayants morto nel 1970 e rimpiazzato da Kondracev. Vero o falso? Secondo Volkoff queste informazioni risalgono a un’agente di influenza catturato a Parigi e amnistiato dai socialisti nel 1981, cui vanno aggiunte quelle di un paio di agenti sovietici passati in Occidente. In ogni caso, è indubbio che tale Dipartimento esiste.

Ma solo i sovietici praticano la disinformazione? Naturalmente no, anche la Cia. Solo che gli americani lo fanno in modo cosi goffo e dilettantesco che vien quasi da ridere. Quando cercarono di screditare Sukarno, diffusero in Indonesia delle foto che Io ritraevano in dolce compagnia e in posizioni poco ortodosse. Solo che la Cia scopri in seguito che agli indonesiani non faceva né caldo né freddo, avendo un concetto delle «convenienze» diverso da quello degli americani.

Del resto i regimi marxisti hanno una superiorità «strutturale» in questo campo. Essi hanno il controllo assoluto sui loro mezzi di informazione, cosicché l’effetto boomerang di un’eventuale disinformazione «di ritorno» li lascia indenni. In più hanno una dottrina monolitica che permette di stabilire con assoluta certezza il «vero» e il «falso», cosa che il mondo cosiddetto libero non ha.

E poi un’azione di disinformazione richiede molto tempo, cosa che i regimi marxisti hanno. In campo occidentale l’altalena del potere (negli Usa un Presidente resta in carica solo quattro anni) rischia di invertire continuamente il senso di marcia. Per non dire poi da noi, dove i capi dei Servizi segreti cam­biano con una velocità sorprendente. «In democrazia le fazioni non sono generalmente d’accordo sui mezzi, quand’anche lo fossero sui fini».

Le democrazie occidentali, «dulcis in fundo», sono molto attaccate, per definizione, alla libertà dei loro mass-media. Allo stato attuale delle varie legislazioni, nulla può impedire all’avversario di controllarli.

D’altronde nelle legislazioni occidentali non c’è niente che assomigli ai reati di «influenza» o «disinformazione». In più, introdurre queste figure nel diritto penale sarebbe considerato un attacco vero e proprio a quelle libertà che la democrazia ha più sacre. Gli agenti di influenza e di disinformazione sono praticamente intoccabili: non sono spie, infatti «importano» informazioni anziché esportarne.

L’amara conclusione è dunque che l’Occidente è inerme di fronte alla più terribile arma che mai sia stata usata. «Se c’è una speranza, è nei prolet», diceva Orwell nel suo «1984». In un mio precedente articolo ho allargato il concetto: se c’è una speranza è nei popoli, e nel loro progressivo ritorno alle religioni tradizionali. L’unica efficace arma contro la Menzogna è la Verità. Chi ha una fede religiosa è naturalmente vaccinato e distingue agevolmente il vero dal falso. Il lettore ci faccia caso: solo i «laici» occidentali e i «progressisti» cristiani ingoiano le balle della disinformazione internazionale.

Speriamo che il terzo millennio ci permetta di vivere, parafrasando Solgenitsin, senza menzogna