Rileggete il capitale. Anzi, no!

karl_MarxOsservatore Romano

In tempi di crisi economica è di moda la rilettura, spesso sommaria, del marxismo  – con conseguente “beatificazione“ dell’analisi critica di Karl Marx – che fa il paio con la demonizzazione degli eccessi del sistema capitalistico: e se recuperassimo la dottrina sociale della Chiesa?

di Ettore Gotti Tedeschi

Non ho (ancora) letto Il Capitale del Cardinale Reinhard Marx, Arcivescovo di Monaco di Baviera e successore del nostro Papa Ratzinger, appunto in Baviera, ma solo alcuni commenti e interviste, perciò non mi permetto di commentarlo o recensirlo. Ma non vi è dubbio che non si è sbagliato nel suo intuito a ricordare le analisi di Karl Marx nel suo Il Capitale, che mai sono state peraltro trascurate o non prese sul serio.

Quando c’è una crisi economica, normalmente si scoprono gli eccessi e gli errori del mercato e del capitalismo e si riscopre Marx, raramente però la dottrina sociale della Chiesa. Comunque sono soprattutto le conclusioni politiche di K. Marx che non sono condivisibili e non si vorrebbero veder attuate. Non dimentichiamo che K. Marx ha anche scritto II Manifesto del partito comunista. Perciò rileggiamolo, riflettiamoci su, ma non pensiamo di beatificarlo…

Per farlo produttivamente è interessante cercare di capire anzitutto verso quale capitalismo si indirizzò l’analisi critica di Marx e poi perché si trascura quasi sempre l’insegnamento della Dottrina Sociale. Molto probabilmente il Card. Marx è stato colpito dalle considerazioni di carattere morale di K. Marx, soprattutto quando scrive che “la svalorizzazione del mondo umano cresce in rapporto diretto con la valorizzazione del mondo delle cose” oppure “il lavoro non produce solo merci, produce se stesso e l’operaio come mercé”.

Ma quale capitalismo per K. Marx produceva questi effetti di eccesso di egoismo? Quello cattolico che era fondato su fede operativa e su norme che pretendevano l’esercizio delle virtù nell’agire umano, grazie alla imitazione di Cristo incarnato, che insegnò a santificare il lavoro praticando virtù con merito e magari anche con scrupolo per le cose ben fatte per il bene comune? Non credo, penso piuttosto che si riferisse ad altro capitalismo deformatosi dopo la Riforma, più orientato all’azione, al fare, magari sbagliando e pentendosi poi, preoccupato della impraticabilità del fare il bene grazie alla natura corrotta.

Nel mondo rimasto cattolico, si continuò senza dubbio a peccare, ma non si vissero molti vantaggi di sviluppo economico industriale con alcuni eccessi di sfruttamento (si restò più agricoltori e artigiani) e le disuguaglianze furono meno accentuate. Non dimentichiamo che K. Marx fonda molte sue riflessioni sul pensiero di Engels che chiama il “cinico” Adam Smith il Lutero dell’economia politica: ”…Come Lutero riconobbe nella religione, nella fede, l’essenza del mondo reale e perciò si contrappose al paganesimo cattolico”.

Io credo però che per interpretare meglio lo stesso pensiero marxista sia indispensabile ricorrere alla trascurata Dottrina Sociale della Chiesa vissuta nella evoluzione dell’economia negli ultimi 500 anni, delle dottrine economiche e il loro distacco progressivo dalla morale. Dopo l’eresia e la rottura della unità religiosa seguirono altre deformazioni successive che spiegano l’avvento di K. Marx e il dopo Marx. Tutte come vedremo tendenti ad affermare l’autonomia morale dell’economia dalla religione.

La più importante fu la Fisiocrazia (con l’Adam Smith citato) che sostenne l’esigenza (necessaria alla successiva rivoluzione industriale) di riconoscere il governo della natura buona, non perciò corrotta dal peccato originale, conseguentemente l’uomo meritava fiducia e si poteva lasciarlo fare (“laissez faire”) nella ricerca del suo interesse privato che avrebbe prodotto vantaggi per tutti. Ciò mentre il pensiero illuminista dichiarava l’uomo “un animale pensante” e stabiliva che l’economia doveva occuparsi solo di soddisfare i suoi bisogni materiali, essendo quelli spirituali una illusione.

Mi pare chiaro che già a questo punto, l’uomo dalla natura buona da una parte (quella del produttore) e l’uomo animale affamato, dall’altra parte, non lasciava immaginare avvenire tanto rosei.

A questo mondo si riferì Marx e la sua reazione. Ma alla rivoluzione del valore lavoro marxista seguì la controrivoluzione del valore secondo utilità del bene (Utilitarismo). Così nacquero i grandi imperi finanziari, attenzione, già più di cento anni fa!, non più fondati sull’economia reale, ma secondo l’apprezzamento del mercato. Si crearono immense ricchezze e concentrazione di potere tanto che da una parte il Pontefice Leone XIII scrisse l’Enciclica Rerum Novarum e dall’altra (rifletteteci…) il governo degli Stati Uniti emanò lo Sherman Act (un antitrust) per regolare i monopoli, ciò contemporaneamente (1890-’91).

Preoccupati dal consumismo, dalla concentrazione di ricchezza esasperata si cominciò a temere che l’economia non fosse guidata da vera razionalità del mercato e che gli interessi sociali divergessero troppo da quelli individuali. Ma non si riscoprì né Marx, né la Dottrina Sociale, si inventò la socializzazione dell’economia e i tecnocrati divennero i nuovi grandi sacerdoti dell’economia etica. E ce li godiamo ancora oggi.

Se abbiamo la tentazione di spiegare perché l’economia sfugge alle capacità dell’uomo di renderla strumento utile a se stesso, rileggiamoci la Lectio magistralis di Benedetto XVI pronunciata a Parigi, nel suo ultimo viaggio in Francia, in una abbazia cistercense. In questa spiega l’essenza e la verità dell’economia cattolica: “Dio stesso è il Creatore del mondo, e la Creazione non è ancora finita. Dio lavora. Così il lavorare degli uomini deve apparire come una espressione particolare della loro somiglianza con Dio e l’uomo, in questo mondo, ha facoltà e può partecipare all’opera di Dio nella Creazione del mondo”. Null’altro da aggiungere. Naturalmente.