La storia degli aiuti economici inviati dall’Italia. 2 / Omaggi alla famiglia Barre

Siad Barre

Siad Barre

Avvenire 5 gennaio 1991

Industrie fantasma e piani d’oro: regali da 1500 miliardi

di Carlo Pasotti

Lo scandalo della «Somalia connection» venne per la prima volta coraggiosamente denunciato in Italia dal giornalista Pietro Petrucci. ex direttore della rivista «Cooperazione» della Farnesina, il quale si trovò rimosso dall’incarico per tanto ardire! Non si spara impunemente contro la riserva di caccia somala, fosse con la penna più prestigiosa della stampa italiana. Senonchè il denaro sperperato e rubato a Mogadiscio non usciva dal portafogli di Craxi o dell’ex sottosegretario Forte, ma da quello del contribuente italiano che di tasse ne paga fin troppe.

L’operazione da far rizzare i capelli in testa a qualsiasi onesto esperto di cooperazione con l’Africa è stato il cieco e ripetuto finanziamento della fabbrica di fertilizzanti, su cui la Procura di Roma ha dovuto avviare un’inchiesta, oltre l’interpellanza dei radicaci in sede parlamentare. A scoprire le parti intime dell’astruso e dispendioso intervento è stato proprio l’ex ministro somalo dell’industria. Ali Khalif Ghalayo, riparato negli Stati Uniti. Ed è lui ad aver per primo accusato di peculato e di concussione il presidente somalo Siad Barre.

Ghalayo dichiarò fra l’altro: «Tutti i titolari dei dicasteri economici erano contrari, considerando l’impresa assolutamente non redditizia. Ma il presidente Siad Barre insisteva: voleva quella fabbrica. Fu lo stesso Siad, vedendo respinta l’offerta della Snam-Progetti, a tirare in ballo un’altra società italiana, questa volta privata: la Technipetrol. Ancora una volta i ministri si dissero contrari; ma dopo ulteriori scontri verbali, dai toni molto aspri, il presidente impose il suo volere e la cosa fu decisa».

Alla fine dell’85 l’impianto era pronto ma fino ad ora dalla fabbrica non è stato prodotto ancora un solo grammo di fertilizzante. In un rapporto dell’85, il ministero degli Esteri italiano attribuì il ritardo dell’entrata in servizio della fabbrica al «pesante condizionamento» dovuto alla scarsa formazione del personale somalo, sebbene — diceva quel rapporto — dei tecnici fossero già stati formati in Italia. Di qui il dono di quasi tre miliardi, destinato a nuovi corsi di formazione.

Nella sua deposizione a Milano Ali Khalif Ghalayo ha sostenuto che la costruzione della fabbrica non aveva alcun fine industriale o produttivo: lo scopo era solo quello di profittare del finanziamento italiano. In una loro interpellanza anche i radicali aggiungono di essere «a conoscenza di dichiarazioni dello stesso ex ministro, secondo il quale ben nove milioni di dollari forniti dal governo italiano sono stati direttamente incamerati dalla famiglia di Siad Barre».

In un breve volgere di tempo, insomma, la luccicante fabbrica di fertilizzanti diventa un’ennesima «cattedrale nel deserto». Il governo somalo presenta nuove richieste di finanziamenti, per riabilitare l’impianto, riattivarlo, formare il personale. Poi comincia a non poter più onorare i debiti contratti per finanziarlo, come in un primo tempo aveva fatto. E l’Italia paga.

Ma fin dall’85 l’Italia ha concesso a Siad Barre 35 milioni di dollari per alleviare l’indebitamento somalo. Altri doni sono seguiti, allo stesso scopo, E così il «buco» creato per pagare un’impresa che non ha dato ancora alcun frutto concreto è stato richiuso.

Parte dei debiti della Somalia con l’Italia sono stati contratti per investimenti che non si dovevano consentire, come quello per l’impianto incriminato, costato oltre 70 milioni di dollari, che ancora non riesce ad entrare pienamente In funzione. L’economicità aziendale originaria di questo impianto non sussisteva. Quando il credito fu concesso, la Somalia versava già in insolvenza, in senso tecnico; ma il credito fu erogato sulla base di un «escamotage»: lo Stato italiano si accollò la rata di sofferenza della Somalia di quell’anno, in modo da non farla risultare in­solvente».

Gli interventi italiani in Somalia messi sorto accusa (mentre i socialisti digrigna­vano i denti) sono almeno quattro. Primo: la scandalosa vicenda del progetto di pesca industriale, un’operazione costata a suo tempo anch’essa, come l’impianto di fertilizzanti, un centinaio di miliardi e finita in disastro. Secondo: il piano rego­latore di Mogadiscio. Terzo: la famigerata raffineria di Mogadiscio, del resto legata alla fabbrica di fertilizzanti che avrebbe dovuto ricavare dalla raffineria la materia prima del suo ciclo produttivo. Quarto: gli incredibili finanziamenti a fondo perduto dati dal Fai, il Fondo aiuti italiani gestito dall’allora sottosegretario socialista Francesco Forte, a organizzazioni fantomatiche.

Per esempio, quasi due miliardi donati alla Federazione dei sindacati somali: un altro miliardo donato alla Associazione di amicizia italo-somala. E poi il progetto di riabilitazione delle telecomunicazioni della Somalia; il capitolo dei corsi di formazione di personale somalo alle più svariate attività; gli infiniti studi di fattibilità per progetti mai realizzati, ma costati anch’essi centinaia di milioni.

Risulta infine che un largo quantitativo di camion Iveco, forniti dallo stesso Fai per trasporto di aiuti alimentari, ha avuto le insegne cambiate ed è stato destinato ad uso militare.

Ma non è finita. Passando ad altri salassi finanziari affiora un secondo elenco da inquisire. Primi quei 741 milioni per «favorire lo sviluppo del sistema delle telecomunicazioni», cioè i telefoni. Ai quali, in altra occasione, sono dedicati ulteriori tre miliardi e 210 milioni. Mentre 255 ne sono assegnati per realizzare una nuova rete telefonica all’università di Mogadiscio. In quella università vanno a insegnare, a rotazione, una sessantina di professori italiani ogni anno. Vengono scelti col più rigoroso criterio della lottizzazione e se ne capisce il perché: hanno diritto a portarsi le famiglie e ricevono uno stipendio di dodici milioni ai mese, pagati in Svizzera.

Ma il buco nero degli aiuti alla Somalia rimangono i 210 miliardi spesi per una strada lunga 450 chilometri tra Garoe e Bosaso, in una zona abitata solo da pochi pastori nomadi e che qualunque incompetente saprebbe riconoscere per quello che è, una strada militare. Costruita con i soldi destinati agli affamati dalle ditte italiane Astaldi e Lodigiani. Mentre quattro miliardi sono andati alla voce «sanità»; ma non per creare una rete di presidi sanitari in un posto dove muoiono 240 bambini su mille: li ha avuti la Farmitalia per gestire una disastrata industria farmaceutica che produce soprattutto per l’esportazione.

Viene poi il progetto per «contribuire al vasto programma internazionale di soccorso ai profughi» della guerra. Si tratta della guerra Somalia-Etiopia, finita nel ’78. Costo dell’impresa: 42 milioni di dollari. Scopo apparente: motorizzare i profughi. Infatti si prevede (non si sa per quante persone) la fornitura di oltre 500 veicoli, cinque carri officina, cinque autogrù, cinque gruppi elettrogeni, pezzi di ricambio e addestramento del personale. Conti alla mano, ogni veicolo costa oltre cento milioni.

Lo stesso Andreotti ha ammesso che la Somalia è stata nel Corno d’Africa il primo beneficiario della cooperazione italiana. Complessivamente, nel periodo 81-90. l’entità delle nostre erogazioni ha raggiunto i 1.500 miliardi.

(2. fine. Il primo servizio è stato pubblicato ieri)

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