L’arcimiliardario pugno e martello

Armand HammerCorriere della Sera mercoledì 12 dicembre 1990

E’ morto a Los Angeles a 92 anni Armand Hammer

di Gianni Riotta

NEW YORK

Due ragazzi americani arrivano a Mosca attratti dalla rivolu­zione. John Reed, classe 1887, laureato a Harvard, di­rigente del Partito comunista americano del lavoro, diven­ta amico di Lenin, scrive il classico «Dieci giorni che sconvolsero il Mondo», muore di tifo nel 1920, viene seppellito all’ombra del Cremlino. Armand Hammer, classe 1898, laureato in medicina alla Columbia, figlio di un fondatore del Partito comuni­sta americano del lavoro, partito proprio per combattere l’epidemia di tifo negli Urali, diventa l’uomo d’affari di fiducia di Vladimir Ulianov, «Caro Hammer — gli dice Lenin, quasi morente, in una sala ge­lida e male illuminata del Cremlino — noi non abbiamo bisogno di medici, ma di im­prenditori», costruisce un impero milio­nario in dollari, si vanta di avere cono­sciuto «tutti i presidenti americani da Hoover a Bush» e muore lunedì a Los Angeles. Gli onori funebri per il Cremlino li concede Mikhail Gorbaciov: «Hammer è stato un amico straordinario dell’Urss. Da Lenin in avanti, ci e sempre stato vici­no».

La storia di questo figlio di emigranti ebrei russi, vissuto per 92 anni lontano dalla fede di Mosè e morto giusto la notte prima la cerimonia del Bar Mitzhva, la cresima ebraica che aveva deciso final­mente di ricevere con 80 anni di ritardo, è un’epopea del Novecento. Il padre Julius, medico comunista, fa i soldi vendendo eli­sir curativi ad alto contenuto alcolico du­rante il proibizionismo e pratica aborti clandestini. Il bilancio sta con i capitalisti, la fede è rossa: il simbolo dei comunisti Usa è un pugno chiuso e un martello ed ecco che Julius chiama il figlio Armand (Arm in inglese vuol dire braccio), simbo­lo perfetto col cognome hammer, (mar­tello).

Il giovane Hammer entra subito nell’allegra ditta paterna, già in affari con Mosca e disastrata dalle sanzioni contro la Russia di Lenin, dopo la rivoluzione del ’17, e dalla condanna di Julius a tre anni di galera a Sing Sing per un aborto clan­destino. «Sono l’unico studente di medici­na ad avere guadagnato un milione di dol­lari prima di laurearsi» si vantava Ham­mer. Viene ammesso a fare apprendistato al mitico ospedale di New York Bellevue ma ha sei mesi d’attesa.

Piccolo, grassoccio, con gli occhiali spessi e lo sguardo aguzzo del miope, non sa starsene in città. Va a Mosca. E’ il 1921. Su piroscafi cigolanti, con treni sfia­tati e carrozze che passano lungo i crateri lasciati dalla guerra, Hammer arriva in Urss. Già il suo primo viaggio è avvolto nella leggenda. «Andai perchè interessato alla batteriologia e quindi all’epidemia di tifo negli Urali. Ma a Mosca non trovai solo le malattie. Era la fame, la fame più nera, il problema drammatico» amava ri­petere.

Il dottor Hammer propone ai russi il primo affare della sua vita. Scommet­tendo sull’Urss il milione di dollari raci­molato a casa, farà arrivare tonnellate di grano per superare l’inverno. I russi lo pa­gheranno in pellicce caviale. Il gioco funziona perfettamente.

Lenin e già malato, diffida di Stalin, vorrebbe aprire un canale per la sua Nuo­va Politica Economica al di là del cordone sanitario stretto attorno all’Urss dalle po­tenze occidentali. Legge a tarda notte i rapporti sull’impresa del dottorino. Lo convoca, lo convince a lasciare la medici­na, gli concede i diritti di sfruttamento dell’asbesto nelle miniere sovietiche e al­tri contratti commerciali. Il 27 maggio del 1922 Lenin prende penna e calamaio e scrive una lettera al suo successore Stalin: «Date tutto l’aiuto possibile al giovane americano. E’ un sentiero verso il mondo degli affari americano, ma va sfruttato si­no in fondo».

Fin qui l’agiografia hammeriana, colti­vata in due autobiografie e una biografia ufficiale, ma criticata dall’ultima biografia polemica di Steve Weinberg. Secondo Weinberg «Hammer era andato a Mosca per farsi pagare crediti arretrati. Suo pa­dre Julius agiva come addetto commercia­le per la Russia sovietica, malgrado le sanzioni imposte da Washington». Da su­bito — dicono i critici — Hammer si av­vantaggia con i sovietici. Perche? In una storia mitologica le voci volano: la polizia segreta? Alto tradimento? Doppio gioco? Hanno indagato su di lui la Cia, l’Fbi, lo spionaggio di Sua Maestà inglese. Certo anche la Nkvd, il Kgb e — quando più tardi farà affari con Gheddafi — gli spioni libici, avranno setacciato i suoi traffici. Prove però, niente.

Solo fatti, sia pure straordinari. Quan­do, morto Lenin, Stalin cestina la Nep, l’apertura al capitalismo e straccia i con­tratti con gli occidentali, Hammer è il solo ad essere pagato profumatamente, e a po­ter lasciare Mosca. Nei bagagli porta doz­zine e dozzine di straordinarie icone rus­se, quadri francesi, una collezione da re. E’ il nocciolo della più grande collezione privata d’arte, oggi esposta all’Armand Hammer Museum, della catena di mer­canti d’arte Hammer e Knoedler, di un patrimonio cui il magnate non si stanca mai di appiccicare il proprio nome. Farà munifica regalia di un preziosissimo Codi­ce di Leonardo da Vinci agli inglesi, ma solo dopo che l’antico documento è stato battezzato Codice Hammer e che i suoi diritti sul petrolio nel Mare del Nord sono stati vincolati per decenni a venire.

Tornato a casa, negli anni Trenta, Hammer divorzia dalla moglie, la cantan­te russa Olga Vadina, madre del suo uni­co figlio Julian, e sposa Angela Zevely. Divorzieranno dopo pochi anni. «Ham­mer — ricorda la Zevely — era un uomo freddo, calcolatore, un sadico che si van­tava di giostrare il prossimo a piacimen­to». Gli affari almeno vanno bene, ma non e felice, malgrado il terzo matrimo­nio. La sua smania di successo, di popola­rità, di essere amato, non trova sbocchi nell’America provinciale d’anteguerra. Solo l’amicizia della First Lady Roosevelt lo consola «Armand viene sempre a cena, lo conosco e l’ammiro, come pure mio marito, il presidente Roosevelt». Le malelingue ribattono: «Hammer contribuiva alle cause sociali care alla First Lady. Mazzette, regali, parcelle e corruzione: ecco la ricetta universale di Hammer negli affari, con i politici, i giornalisti, il bel mondo». Sua difesa: «Le mazzette sono una piaga del commercio internazionale. Chi non le paga, non si muove».

Nel ’56, ricco, depresso, sposato per la terza volta, Hammer, quasi sessantenne, decide di andare in pensione in Califor­nia. Non dura, «Sole, sabbia e vacanze mi stufarono presto». Per fortuna John Ken­nedy diventa presidente, Hammer ha lau­tamente versato nelle sue casse ed ecco che l’ex allievo di Lenin torna al Cremli­no, presieduto dal sanguigno Krusciov. I due, simili per stazza e carattere, cacciano dal salone gli interpreti e parlottano a lungo in russo. Guerra fredda, poi affari.

Hammer esce dalla missione con in tasca un contratto per 20 miliardi di dollari; sali minerali sovietici andranno negli Usa, fer­tilizzanti americani in Urss. I guerrieri an­ticomunisti della Cia strillano «Ci ha ven­duti!», ma è fatta. Durerà 20 anni, passan­do per Breznev, che a braccetto con Ham­mer bofonchia: «Noi due non parliamo di politica, solo di soldi. E va bene per tutti». L’ostilità dei nixoniani Hammer l’aggira alla grande — lui democratico da sempre — versando illegalmente 42 mila dollari alla campagna del presidente Nixon.

Il teatro per le sue gesta stavolta è la Casa Bianca. «Caro presidente, sono so­cio del club dei suoi finanziatori» sbotta Hammer. Purtroppo Nixon registra, le bo­bine finiscono ascoltate per l’affare Watergate, lui condannato. Lo grazierà Bush, un anno fa (non si sa di eventuali sovven­zioni Hammer alla campagna repubblica­na ’88). E’ Carter, con la stòria delle san­zioni per l’invasione dell’Afghanistan a mettere l’impero in bilico, poi è il turno di Reagan. Per Hammer sembra finita, il consigliere per la sicurezza nazionale Al­ien giura: «Quello lì alla Casa Bianca non mette piede, è un servo dei russi». Inge­nuità, pochi mesi più tardi Alien è a casa e Reagan scrive a Bill Casey, futuro capo della Cia ai tempi dell’Irangate: «Caro Bill, dai via libera ad Hammer».

Nel 1956 Hammer aveva comprato la Occidental Petroleum Corporation 16 centesimi ad azione. Ne fa la base dell’af­fare fertilizzanti, si apre la strada nel cor­rottissimo palazzo del re libico Idriss e quando Gheddafi, nel 1969, prende il po­tere e chiede il 51% delle azioni è Ham­mer a rompere il muro delle sette sorelle petrolifere e a dire di sì. Nel ’55 il valore dell’Occidental era di 108 mila dollari. La cessione della maggioranza a Gheddafi ha fatto la fortuna dell’Opec? Hammer non se ne curava: «Io non faccio politica, solo affari».

Cercava i soldi, ma anche la fama, nei campi di petrolio, come nelle gallerie d’arte, negli istituti di beneficenze, nella campagna da lui sponsorizzata contro il cancro. Voleva che tutti l’ammirassero, si diceva amico di Gorbaciov, Deng, Gierek, Trudeau, il generale Zia, Nixon, i dissi­denti ebrei in Urss. Alla fine ha voluto l’affetto anche dei suoi fratelli ebrei, rice­vendo il bar mitzhva.

Il destino bizzarro gli ha impedito l’ultimo desiderio, facen­dolo morire alla vigilia della cerimonia. Ma il rabbino capo di Los Angeles dirà lo stesso le preghiere rituali per lui: Armand Hammer, pugno e martello nel nome, Mi­ster accordo facile nella vita, convertito in morte, ha avuto ancora l’ultima parola. Meglio di John Reed?