L’ultimo paradosso: se sei cristiano non puoi svolgere funzioni pubbliche

Deodato

Carlo Deodato

Il Foglio 10 dicembre 2015

Un convegno sulla sentenza sulle nozze gay. Parla Mantovano

di Pietro Piccinini

Milano. Quando a fine ottobre Carlo Deodato, il giudice del Consiglio di stato estensore della sentenza che ha annullato la trascrizione nei registri comunali italiani dei matrimoni tra persone dello stesso sesso celebrati all’estero, è stato sommariamente processato da giornali e tv a causa di alcuni vecchi tweet pro-famiglia e del suo definirsi “cattolico”, solo il Foglio e poche altre testate hanno parlato con preoccupazione di “linciaggio”. E vista la rapidità con cui il caso è sparito dai media, non è detto che chi avrebbe dovuto si sia effettivamente reso conto della sua gravità.

Invece, “a prescindere dal merito della materia”, quella a cui il paese ha assistito è “una dinamica che dovrebbe allarmare tutti”, dice al Foglio Alfredo Mantovano, giudice della Corte di appello di Roma, già sottosegretario dell’Interno e parlamentare di centrodestra (An-Pdl). Se ci si mette a insinuare dubbi sulla dignità e l’operato di un giudice in base non agli argomenti che usa ma a quello che pensa, “nessuno potrà più giudicare nulla, perché il giudice ha sempre delle opinioni”.

Mantovano è anche vicepresidente del Centro studi Rosario Livatino, che proprio per non lasciar cadere l’inquietante lezione del caso Deodato ha organizzato mercoledì 2 dicembre insieme all’Università Lumsa a Roma un convegno a cui hanno partecipato, tra diversi docenti di diritto, anche il sostituto procuratore generale della Cassazione Umberto de Augustinis e il vicepresiaente emerito della Corte costituzionale Paolo Maddalena.

E’ stata “la risposta scientifica, non polemica e quindi non banale” a quella che Mantovano definisce deliberatamente “aggressione”. Poiché non si è trattato di legittima “critica” di un verdetto: Deodato è stato sottoposto a “una sorta di ‘tac ideologica’ che non aveva nessuna giustificazione se non quella di isolare, di additare al ludibrio mediático chiunque non si conforma al pensiero egemone del gender”.

Al convegno romano dunque, di fatto per la prima volta, la sentenza Deodato è stata esaminata secondo i parametri del diritto, racconta Mantovano, e cattolici o meno che fossero, tutti i relatori “agganciandosi in modo strettissimo al dato normativo” l’hanno trovata “ineccepibile”, sia secondo il diritto costituzionale che secondo la relativa giurisprudenza. Perfino nella parte in cui per limitare la de­finizione del matrimonio all’unione uomo-donna si fa riferimento all’ “ordine naturale”: Deodato è stato ridicolizzato anche per questo, ma come è stato ricordato alla Lumsa, è l’articolo 29 della Costituzione italiana, mica il catechismo, a legare i concetti di “matrimonio” e “natura”.

Che il verdetto sia l’unica decisione possibile nell’ordinamento attuale, del resto, lo hanno riconosciuto fin da subito tutti quelli che hanno fatto lo sforzo di leggerlo. Compresi – cita Mantovano – Vladimiro Zagrebelsky sulla Stampa e il ministro della Giustizia Andrea Orlando su Repubblica, entrambi favorevolissimi alle nozze gay.

Ma se davvero la sentenza non concede alcun appiglio al linciaggio di Deodato, spiega Mantovano riprendendo il senso del suo intervento al simposio, allora non solo si deve osservare il “paradosso” per cui “si dice che un giudice deve applicare la legge, eppure il giudice che la applica viene attaccato perché non l’ha distorta secondo le attese”; ma non si può non segnalare anche “il pericoloso superamento della linea di confine fra intolleranza e discriminazione” verso i cattolici. “Se sei cristiano non puoi svolgere funzioni pubbliche”, ecco la morale della vicenda secondo Mantovano.

Un messaggio divenuto addirittura esplicito quando l’attacco si è spostato da Deodato al presidente del collegio che ha emesso la sentenza, Giuseppe Romeo: “Lui non si era espresso in nessun modo sul tema della famiglia, però è saltato fuori che era dell’Opus Dei e per questo è finito sulle prime pagine”. A Mantovano il caso fa tornare alla mente “un triste slogan: colpirne uno per educarne cento”. D’ora in poi infatti “un giudice che sia chiamato a trattare questioni eticamente sensibili, sa che se segue la propria coscienza nell’applicazione corretta della norma e non nella sua distorsione, rischia una gogna simile”. Vogliamo chiamarlo “metodo Deodato”?