Il pensiero filosofico di Romano Amerio

Romano Amerio

Romano Amerio

Il Corriere del Sud, 1 febbraio 2009

di Piero Mainardi

Con l’elezione alla Cattedra di Pietro da parte di Joseph Ratzinger la Chiesa cattolica sembra attraversare un grande rinnovamento segnato dal recupero del grande patrimonio liturgico, spirituale, filosofico, teologico e più genericamente culturale e sapienziale, che ha accompagnato la Chiesa cattolica nella sua esperienza bimillenaria, che sembrava drammaticamente recisa – nella  prassi e nel pensiero – dal fallimento dell’esperienza tumultuosa e disordinata del postconcilio.

I temi portanti di questo pontificato segnato dalla lotta contro il relativismo etico e morale determinato dall’indebolimento o misconoscimento della facoltà della ragione di cogliere la verità delle cose e la Verità, cioè la capacità di vedere nel Logos, ossia nel principio della ragione divina creatrice e redentrice, il fondamento della conoscenza non poteva che indurre ad una riscoperta del pensiero di un grande filosofo cattolico come il luganese Romano Amerio, scomparso nel 1997, che del Logos aveva fatto il centro della sua riflessione filosofica  e teologica.

Iota Unum, la sua opera principale, (ma anche il suo seguito Stat Veritas, entrambi, purtroppo, introvabili) è lo specchio fedele della drammatica crisi, della babele morale e dottrinale, che la Chiesa e il cattolicesimo hanno attraversato (e stanno attraversando) negli ultimi quarant’anni.

Iota Unum, edito nel 1986, è presentato dall’autore come uno studio sulle variazioni della Chiesa cattolica nel XX secolo e sebbene sia stato concepito fin dal 1935 è pleonastico dire che la quasi totalità dei documenti di magistero presi in considerazione sono nella quasi totalità conciliari e postconciliari.

Benché autore serio, coltissimo, quasi impersonale nello stile, fedele alla Chiesa pur nella sofferta rilevazione che certe variazioni da lui colte tendevano a snaturare la sua stessa essenza, è stato coperto dalla peggiore moneta intellettuale che gli potesse capitare, cioè dalla congiura del silenzio, un silenzio pressoché assoluto tanto più che una recensione positiva preparata per l’Osservatore Romano non venne mai pubblicata.

Questa congiura del silenzio, nel rinnovato clima suscitato da Benedetto XVI, si è rotta. Il cattolicesimo che ha tollerato e ancora tollera tra le sue fila, anche gerarchiche, tanta insipienza e tanta insubordinazione su tutti i piani non può permettersi di continuare ad ignorare la profondità e la serietà delle analisi in relazione alla crisi nella quale la Chiesa è sprofondata.

A dieci anni dalla sua morte il centro studi Oriente Occidente ha infatti organizzato un convegno ad Ancona il 9 novembre 2007 “Romano Amerio, il Vaticano II e le variazioni nella Chiesa cattolica del XX secolo”, a cui hanno partecipato il vaticanista de L’Espresso Gianni Magister, i filosofi Matteo D’Amico, Luigi Sacchi e Enrico Maria Radaelli (allievo di Amerio), l’arcivescovo Luigi Marchetto, il filosofo mons. Antonio Livi e il teologo don Piero Cantoni.

Gli atti del convegno sono stati editati dalla casa editrice Fede & Cultura (pag. 145, E. 20,00) con, in appendice, uno scritto di Romano Amerio, La questione del Filioque. Ovvero la dislocazione della divina Monotriade, che rappresenta un sunto del pensiero del filosofo luganese sulle radici teologiche della crisi del cattolicesimo e più in generale della modernità.

Una radice teologica secondo Amerio perché il cattolicesimo è stato trasformato da religione del Verbo in religione dell’Amore, sebbene il prologo del Vangelo di Giovanni asserisca che “In principio era il Verbo”, dunque non  l’amore. Rovesciare il primato  della conoscenza del Verbo con il primato dell’amore significa, spiega Amerio, manomettere la Trinità divina, perché se non si fa discendere lo Spirito (l’amore) dalla precedente contemplazione del Verbo, quindi dalla conoscenza della Verità, così come la dottrina trinitaria insegna, si finisce per negare il Filioque.

Se lo Spirito procede dal Figlio (Gesù dice che sarà  Lui a mandarci lo Spirito) vuol dire che c’è Qualcuno che lo precede. Tale inversione presenta conseguenze pratiche enormi. Se è l’amore ad avere il primato sulla conoscenza, la capacità della ragione si annienta e prende il sopravvento l’azione per l’azione,  il fare e il divenire.

È l’eresia che è in radice a tutti i totalitarismi ed è l’eresia che svilisce l’amore cristiano in un amore senza contenuti, un amore per l’amore, il dialogo per il dialogo, un fare per il fare che non sente il bisogno di misurarsi su una Verità oggettiva da cui trarre criteri ed ispirazione per agire.

Amerio e chi come Radaelli e D’Amico aderiscono alla critica Ameriana non si limitano a puntare  il dito solamente sul plateale ed arbitrario sovvertimento postconciliare, ma individuano nello stesso Concilio (anche se non integralmente) anche in virtù dell’orientamento conferitogli dal discorso di apertura di Giovanni XXIII, nell’ottica della crisi, un problema.

Un problema questo, per un cattolico, che ha il peso di un macigno e francamente andandosi a leggere i diari di alcuni dei protagonisti (in genere annoverati tra i progressisti), e le ricostruzioni degli eventi conciliari, per quanto tali ricostruzioni siano state in genere operate e monopolizzate sempre dagli stessi ambienti (vedi, come sottolinea mons. Marchetto, l’officina bolognese di Dossetti e Alberigo), è difficile ignorare che la genesi di certe situazioni nell’assise conciliare e di certi testi non sono certamente troppo cristalline anche nelle intenzioni rivelate a posteriori dai protagonisti.

Se ci è passata la battuta possiamo ipotizzare che se sull’ortodossia del Concilio vigila lo Spirito Santo in tale contesto la terza Persona della Trinità abbia dovuto svolgere gli straordinari per garantirne (certamente riuscendoci) la fedeltà al magistero.

Alla domanda che la riflessione di Amerio pone se la Chiesa abbia variato la sua essenza, domanda  drammatica e dietro la cui risposta affermativa sembra aprirsi un baratro di disperazione, risponde, credo in modo risolutivo, don Piero Cantoni.

Senza entrare nei dettagli delle questioni da Amerio sollevate (anche lo stesso Amerio si rende conto che non tutte le variazioni da lui segnalate sono inaccettabili oppure fondamentali rispetto all’essenza della fede) Don Cantoni rileva due criteri fondamentali: il primo relativo alla promessa di Cristo rispetto all’indefettibilità della Chiesa, il secondo riguarda il concetto di Tradizione viva.

La promessa di Cristo non può essere a tempo, dunque garantisce anche sulla Chiesa fino alla fine dei tempi, nel secondo caso don Cantoni, facendo tesoro della sua esperienza di Econe, rilevava che per combattere il protestantesimo infiltratosi nel cattolicesimo si finiva per utilizzare la medesima mentalità: come i protestanti e i neoprotestanti si affidano alla Sola scriptura finendo per scegliere le parti che più gli aggradano, così nel mondo tradizionalista ci si affida alla Tradizione scegliendo però solo i documenti più idonei a sostenere le proprie posizioni senza tenere conto della Tradizione Viva che vive appunto attorno al papa e al vescovo in carne ed ossa.

Una parola risolutiva sembra venire, ancora una volta, da Benedetto XVI. Papa Ratzinger che è stato protagonista del Concilio non nasconde la delusione rispetto alle aspettative e i problemi che si sono venuti creando ma fornisce anche una risposta e una indicazione operativa. Nel suo discorso alla Curia romana del 22 dicembre 2005 Benedetto XVI  sostiene che tutto dipende dalla giusta ermeneutica: «due ermeneutiche contrarie si sono trovate a confronto e hanno litigato tra loro.

L’una ha causato confusione, l’altra, silenziosamente, ma sempre più visibilmente, ha portato frutti.“la prima è l’ermeneutica della discontinuità e della rottura”… la seconda  “l’ermeneutica della riforma” nella quale si manifestano sì elementi di discontinuità, ma senza abbandonare la continuità nei principi».

Che il postconcilio, in un certo senso, cominci solo oggi?