La nuova cristianità perduta di Pietro Scoppola

Scoppola _coverIl Tempo, 23 luglio 1985

“Religione civile” e secolarizzazione.

di Augusto Del Noce

Il recente libro di Pietro Scoppola La “nuova cristianità” perduta (Ed Studium, Roma) ha il merito di affrontare senza reticenze quello che è il paradosso più singolare e più visibile dei decenni del dopoguerra italiano: un partito “cristiano” sorto non soltanto nell’esigenza di tutelare i legittimi diritti dei cattolici, ma nella speranza (o, almeno, accompagnato nelle sue origini dalla speranza) di fondare una “nuova cristianità”, detiene da quarant’anni la funzione di guida prevalente nella politica italiana: pure, in questo periodo è avvenuto il massimo processo di cristianizzazione che mai si era dato nella storia del nostro paese.

E, notiamo, di cristianizzazione non violenta, in nessun modo imposta: si è diffuso, per così dire spontaneamente, il giudizio secondo cui il cattolicesimo, come dogmi e come morale,appartenga a un passato che deve essere studiato senza remore e senza odio ma che perciò stesso non possa essere riconosciuto, per ragione della mutata situazione storica, come guida nelle scelte effettive; e, questa è una mia aggiunta, non manca chi, laico, considera positivamente la DC come garante di un passaggio indolore da una società ancora religiosa a una società secolarizzata. Altro merito di questo libro è di svolgere un discorso coerente e rigoroso, senza alcun infingimento, così da servire da stimolo anche a chi, come chi scrive, abbia idee alquanto differenti.

Due frasi

Porterò l’attenzione su due passi che mi sembra rendano appieno il significato del libro. (Quale si è svolta in Italia) «la secolarizzazione è certo una sconfitta per la Chiesa, o almeno una durissima prova; ma non è, in nessun modo, una vittoria della cultura laica: in realtà nessuna cultura ha vinto; tutte si sono disgregate nell’impatto con la società di massa di tipo consumistico» (p. 145), (ai cristiani spetta ora il compito di promuovere) «una relativa deconfessionalizzazione della presenza cristiana, la capacità di offrire tipi di comportamento universalmente validi, una “religione civile” della responsabilità e della solidarietà, quei valori appunto di cui la democrazia si alimenta e senza i quali è destinata a scadere in puro compromesso di interessi» (p. 194).

Sembrerebbe dalla prima che la presente situazione morale italiana, caratterizzata dalla secolarizzazione che si è detta, non sia spiegabile attraverso fattori ideali. L’attacco alle tradizioni e ai valori cattolici è giunto alle spalle, del tutto imprevisto, legato al processo tecnico, economico e sociale.

L’avversario nuovo è stato ed è il “consumismo”, mentre i cattolici continuavano e continuano a combattere gli avversari di ieri, il comunismo «intrinsecamente perverso» della Divini Redemptoris e il laicismo. Continuano, nella maggioranza, e altresì in formazioni che si presentano come nuove, a non accorgersi che questo anniversario nuovo e affatto imprevisto, colpiva, insieme, la Chiesa e i tradizionali avversari: fermava il comunismo, così da costringerlo a metter da parte i suoi aspetti messianici, e mediava il passaggio a una borghesia di tipo nuovo, che più nulla conserva di quei valori morali che avevano presieduto al nascere dello spirito borghese laico e ne avevano accompagnato lo sviluppo.

Dalla seconda, la rinuncia al miraggio di una “nuova cristianità” veruna religione civile che, certamente, non esclude la “religione ecclesiastica” ma che può venire condivisa da tutti i democratici.

Non sono affatto d’accordo: per me la priorità deve esser data alla causalità ideale, e anzi se c’è un periodo storico in cui tale priorità si manifesta, è proprio questo. Comincerò con una tesi che penso trovi Scoppola consenziente: la cristianizzazione presente non è che una aspetto di un fenomeno più generale: la caduta, particolarmente sensibili negli anni dal ’60 a oggi, e particolarmente accentuata dolo il ‘70 e dopo la completamente fallita contestazione, della religiosità della vita politica.

Per i comunisti del passato, secondo la frase del giovane Gramsci – che su questo punto non faceva che esprimere una tesi corrente nel socialismo rivoluzionario – «il socialismo è la religione che deve ammazzare il cristianesimo», costretto dalla storia a “suicidarsi” davanti al suo avversario; ossia come gli dei pagani erano scomparsi senza lasciar traccia davanti al Dio unico del cristianesimo, così tale Dio sarebbe scomparso davanti all’Uomo Nuovo comunista.

I laici degli anni Trenta parlavano con Croce della «religione della libertà» che si era affievolita nella stessa età liberale e che ora era da riprendere e da restaurare. Per i cattolici di quel tempo si trattava di “restaurare” (nel significato che dà oggi a questo termine il cardinale Ratzinger) la cristianità; è certo che i progetti erano diversi, e padre Gemelli e Maritain non pensavano allo stesso modo: entrambi però, e menziono quelli che forse sono i due estremi, perseguivano questo ideale, e non erano davvero isolati.

Religioni diverse, immanentistiche le une, trascendente la cattolica. Tuttavia, sempre religioni. Lo stadio presente della secolarizzazione è caratterizzato dal venir meno di questa inscindibilità di religione e di politica; molti anni fa avevo parlato di due periodi dell’epoca della secolarizzazione, quello sacrale che si era manifestato nel ventennio tra le due guerre attraverso le religioni secolari del comunismo, del fascismo e del nazismo e delle loro antitesi sull’ideale della “nuova cristianità”, e quello profano che trovava espressione in quella che allora si era soliti chiamare la “società opulenta”.

Ora, questo, più che passaggio, rovesciamento non è avvenuto in nome di una nuova idea. I “valori forti” della tradizione sono tramontati, o almeno hanno subito una eclissi, ma non sono stati sostituiti. Di qui lo strano nichilismo di oggi, che in realtà è accettazione della realtà esistente: secolarizzazione e nichilismo sono le due facce della stessa medaglia.

Certo, il fatto che tale rovesciamento non sia avvenuto in nome di un nuovo “valore forte” più inclinare a spiegarlo con un impatto della società dei consumi che mette in crisi tutte le culture. A ben riflettere ci si accorge però che non è così. primo fattore di questa crisi di valori è stata la crisi della cultura marxista, che si è arrestata – e non poteva non arrestarsi – a una “rivoluzione a metà”. Possiamo certo dire che non è riuscita a sostituire i suoi valori agli antichi; ma a produrre “il vuoto dei valori” si.

Consideriamo infatti la sua polemica contro i valori “assoluti ed eterni” visti come strumenti di conservazione e, conseguentemente, contro il pensiero “metafisico”; contro quanto di metafisico restava nel laicismo (per l’Italia, nell’idealismo e particolarmente nella filosofia di Croce); contro la morale kantiana. La pars destruens del marxismo è riuscita, scissa dalla costruens. Ma in questa scissione ha assunto un carattere diverso da quello che presentava nel marxismo, e appunto ha dato origine al nichilismo.

Accogliere la pars destruens non si poteva se non “combinandola” come è avvenuto, con elementi nietzcheani e freudiani; dando luogo a quella che pomposamente viene della “scuola del sospetto” e che si risolve nell’esercizio di smascherare la volontà di potere che sottenderebbe ogni affermazione di carattere assoluto, sancendo il relativismo, e che in realtà è un’amalgama-intruglio in cui va perduta quella parte di verità che pure si può trovare in Marx, in Nietzche e in Freud.

Passiamo a vedere quale contraccolpo le negazioni marxiste abbiano avuto nel laicismo. Si direbbe che esso ha ripercorso a rovescio la sua storia. dalla sua versione romantica all’illuministica e poi alla libertina. Cioè a quella “permissivistica”. tutto è permesso, salvo l’osservanza di certe regole necessarie alla coesistenza, accettate in ragione della loro utilità. Se si guarda almeno alla cultura diffusa si è portati alla conclusione solo apparentemente paradossale che l’egemonia culturale tenuta una volta dal crocianesimo, poi dal gramscismo, è oggi passata nelle mani d’un più o meno dissimulato libertinismo.

La letteratura storico-filosofica sul pensiero libertino si è notevolmente accresciuta negli ultimi anni, e basta una lettura cursoria, p. es. del libro dello Schneiber Il libertino. Per una storia sociale della cultura borghese nel XVI e XVII secolo (Ed. Il Mulino) per accorgersi di quanto le valutazioni di tipo libertino permeino i giudizi correnti; sostanzialmente immutate perchèil tipo di pensiero libertino è una costante che si riproduce identica nei periodi di crisi: sua insegna è quel «tutto è permesso» di cui ho gia detto. E basta entrare in una libreria per vedere quanta parte sia fatta agli autori della letteratura libertina, una volta pressoché proibita.

Il contraccolpo è stato forte – e già lo si è spesso avvertito – anche nel mondo cattolico, sotto la forma più o meno larvata della sostituzione della morale della “legge” con una morale della “situazione”. Anche qui il pensiero “metafisico” è stato considerato come “retrivo” e ci si è troppo spesso orientati verso un fideismo: c’è la scienza che basta per organizzare la vita in questo mondo; e c’è la fede, che può “vitalizzare” in quest’azione di miglioramento del mondo. La mediazione metafisica viene meno. E qui mi si permetta di dire quel che evidentemente non posso ora dimostrare: senza mediazione metafisica la fede è destinata ad estinguersi.

Quel che comunque non si può dire certo è che le nuove e irrequiete teologie postconciliari hanno avuto a radice della loro novità la recezione della pars destruens del marxismo; e che l’estensione della scristianizzazione si spiega soprattutto non per ragioni esterne ma interne allo stesso mondo cattolico.

Conseguenze

Queste constatazioni portano a due conseguenze. la prima è l’equivoco che si annida nel termine “consumismo”. Vuol significare relativa abbondanza di beni materiali (del resto molto relativa per la gran parte degli italiani)? Si dovrebbe allora arrivare alla conclusione che la religione può prosperare soltanto dove c’è miseria, e dove la Chiesa può cercare di alleviarla con le sue opere di carità. A una strana conclusione fuerbachiana sulla correlazione fra miseria temporale e religione! Meglio usare il termine “permissivismo” che designa una disposizione morale piuttosto che un fatto economico.

La seconda, assai più importante, è la seguente: non è stato il consumismo a corrodere le culture, così che oggi piuttosto che proseguire nelle vecchie polemiche, esse dovrebbero pensare a promuovere una “religione civile”; al contrario è stata la caduta della religione civile a rendere possibile l’invasione permissivistica.

Qual è infatti il presupposto di questa religione civile, se non l’esistenza di un “comune mondo morale” rispetto al quale sia universale il consenso, al di là delle diversità di confessioni religiose? Si può dire che questa idea abbia percorso in varie forme i secoli dell’età moderna e abbia trovato una certa realtà nella seconda metà dell’Ottocento e nei primi decenni del nostro secolo. Si può aggiungere forse che ha trovato la sua epigrafe nel celebre scritto di Croce Perché non possiamo non dirci cristiani. Ma oggi è irrimediabilmente caduta. Il fatto che più colpisce è la presenza di una pluralità di morali del tutto inconciliabili: segno che le morali sono inscindibili dalle concezioni metafisiche e religiose.

Di più, oltre all’irrealizzabilità, mi sembra pericolosa anche come proposta. Si tratterebbe infatti di un fondamento della democrazia come orizzonte entro cui si muoverebbero i vari partiti, concordi nell’accettarla, parzialmente divisi rispetto ai mezzi e alle tecniche attraverso cui può venir realizzata. Ma è lontano il passo da questa concordia su certi valori comuni a quello di una “democrazia consociativa”?

E’ da osservare come questa idea sia del tutto diversa dall’ “inculturazione” di cui parla Giovanni Paolo II; per la quale è la religione cattolica, nel suo senso pieno, che deve permeare la politica dei cattolici. Certo la formazione politica a cui l’inculturazione può dar luogo deve venire, di fatto, a compromessi e concessioni; ma nel fatto stesso dell’affermazione di principi e di ideali che vanno oltre i programmi, si presenta come inizio di una società cristiana: se si vuol dire così, di una “nuova cristianità”.

Il fatto che progetti di “nuova cristianità” siano andati falliti non toglie che altri non possano presentarsi; o che l’idea della “nuova cristianità” non debba restare principio ispirativo. La “desacralizzazione” della politica a cui abbiamo assistito e che sarebbe la condizione dell’abbandono da questo ideale, non è un fatto neutro e non è un progresso, suppone un processo ideale, di cui si sono delineati i tratti essenziali, e portato a una consapevolezza filosofica, deve riconoscersi nel nuovo nichilismo: non tollera di venir limitato da una “religione civile”; è l’aspetto profano dell’epoca della secolarizzazione.

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Un’intervista radiofonica “inedita” allo storico Pietro Scoppola. La “nuova cristianità perduta”. Con questo titolo nel 1985 veniva pubblicato dalle Edizioni Studium…

La “nuova cristianità” perduta

Pier Silverio Pozzi, Radio Rai, 15 aprile 1985

La “nuova cristianità” perduta. Con questo titolo nel 1985 veniva pubblicato dalle Edizioni Studium è un piccolo volume di riflessioni di Pietro Scoppola “tese a mostrare come e quando la coscienza del passato spinga a guardare alla realtà del nostro tempo con occhi nuovi, a cogliere con sensibilità accresciuta i nessi che esistono fra le diverse forme di vita associata, che uniscono la vita religiosa alla politica, non meno che all’economia, per assumere responsabilità conseguenti. Ad un anno dalla morte di Pietro Scoppola, uno storico che ha lasciato il segno nella cultura italiana e di un maestro che ha formato le coscienze di più di una generazione, pubblichiamo un’intervista radiofonica all’autore fatta allora da Pier Silverio Pozzi, è andata in onda il 15 aprile 1985 nell’ambito dei programmi della Rai per il Lazio.

Un libro, una provocazione

Professor Scoppola, lei ha scritto nella premessa che questo suo libro vuole essere una provocazione. Credo che il titolo stesso La “nuova cristianità perduta” sia una provocazione. Lo vuole spiegare?

“La provocazione è in quella contrapposizione tra il «nuova» e il «perduta», se è nuova come mai è già perduta? L’espressione «nuova cristianità” era stata usata negli anni Trenta in uno scritto famoso Umanesimo integrale del filosofo francese Jacques Maritain e in questa espressione Maritain riassumeva il progetto di una nuova società, di un modello nuovo di società distinto sia dal modello capitalistico, che allora appariva in crisi, e sia dal modello comunista che si presentava con il volto dello stalinismo, il volto disumano possiamo dire dello stalinismo.

Questo modello di nuova cristianità ha mobilitato nel dopoguerra, dopo la caduta del fascismo, molte energie nell’Europa e in particolare nell’Italia che ha visto in questo un punto di riferimento importante, soprattutto per le nuove generazioni. Ebbene si sono mosse queste energie, si sono impegnate nell’azione, hanno dato vita a un grande movimento sociale e politico che ha avuto grande successo, non dimentichiamo il 18 aprile del ’48, ma da tutto questo che cosa è nato? Non è nata una nuova cristianità, è nata la società secolarizzata del nostro tempo, la società consumistica che è altra cosa dalla nuova cristianità che Maritain aveva progettato. In questo senso è perduta”.

Analizzando i difficili rapporto tra vita religiosa, politica, sociale ed economica dei cristiani nel nostro paese, dal dopoguerra ad oggi lei sostiene che i cattolici impegnati nel politico hanno sì il merito di aver reso possibile lo sviluppo industriale, ma sono altresì corresponsabili dell’affermarsi di questa società consumistica causa prima del particolare processo di secolarizzazione in atto nel nostro paese.

“No, io per la verità non dico che sono corresponsabili, io dico che c’è una coincidenza tra periodo in cui i cattolici hanno avuto la massima responsabilità di governo e processo di sviluppo della società consumistica con tutti gli effetti collaterali che sono, tra l’altro, quello della secolarizzazione, della perdita di certi valori della tradizione cristiana. C’è una coincidenza ma non c’è un nesso di causalità. Mi spiego meglio.

La mobilitazione cattolica ha creato un consenso democratico così ampio, così diffuso nel nostro paese che ha reso possibile una fase di grande sviluppo industriale. Questo sviluppo, non lo dimentichiamo, è quello cui dobbiamo la liberazione della miseria secolare nel nostro paese. Non possiamo dimenticarci che ancora nel dopoguerra nel nostro paese c’erano sacche di miseria gravissime nel sud, in alcune zone del mondo contadino, di cui oggi si è perso quasi il ricordo, ma che sono pure molto importanti per capire l’opera, il ruolo che ha svolto questa mobilitazione dell’energia del mondo cattolico.

Ma insieme a questo sviluppo economico, a questa industrializzazione che ha prodotto questi effetti positivi e benefici nella vita sociale del paese, abbiamo avuto che cosa? La nascita della società industriale con tutti i suoi meccanismi, per giunta c’è stata la coincidenza che io sottolineo tra sviluppo dell’industria e diffusione dei mezzi di comunicazione di massa.

Nel 1954 entra in funzione, all’inizio dell’anno, la televisione e questo fa da effetto moltiplicatore, accentua gli effetti dell’industrializzazione, si crea una mentalità nuova, la mentalità della società dei consumi, e come effetto di queste trasformazioni, di questo mutamento di mentalità abbiamo anche quei processi di secolarizzazione che incidono sulla cultura tradizionale del mondo contadino e mettono in crisi la vecchia tradizionale cristianità presente nel nostro paese, la società cristiana del passato viene travolta da questi processi di sviluppo”.

Perché siamo secolarizzati?

All’origine di questa società secolarizzata non c’è solo il consumismo, c’è il responsabile disimpegno degli uomini di cultura, di tutti, sia laici che cristiani. “Non so se si possa parlare di disimpegno degli uomini di cultura, perché nella storia di questi 40 anni in realtà gli uomini di cultura sono stati spesso protagonisti. Semmai gli uomini di cultura sono stati troppo incollati alle posizioni dei rispettivi gruppi politici, dei rispettivi partiti, non ci sono state le condizioni di un dialogo aperto nella cultura, tra le diverse culture, che rendesse possibile una presa di coscienza comune di quelli che erano gli elementi nuovi che si venivano manifestando nella realtà italiana.

Ciascuno si è preoccupato di posizioni di parte più che guardare con occhio critico, con attenzione vigile a quello che il paese stava diventando. Il compito della cultura avrebbe dovuto e dovrebbe essere questo: di muoversi, vorrei dire, un passo più avanti rispetto agli uomini di azione che sono impegnati nella quotidianità della politica, un passo più avanti quindi con una attenzione più attenta a quello che sta accadendo nel profondo.

Direi che nel complesso questa funzione critica, e diciamo pure un po’ profetica, la cultura italiana non lo ha svolto, è stata un cultura molto legata alle singole posizioni oppure talvolta – e questo è vero, non posso non darle ragione – su posizioni di fuga, una cultura chiusa in se stessa che coltivava i suoi spazi senza una grande attenzione a questi fenomeni e alla responsabilità che questi fenomeni comportava”.

Ritorniamo a parlare della secolarizzazione. Lei professor Scoppola, parlando della società secolarizzata, scrive che la cristianità è davvero perduta come realtà sociale, come mondo dei valori vissuto, come modo di vita di una comunità nel suo insieme. Ma allora è valida l’equazione secolarizzazione uguale cristianizzazione. 

“Non credo che si debba identificare secolarizzazione con scristianizzazione. Il concetto di secolarizzazione ha anche aspetti positivi che vanno sottolineati, e io ne faccio cenno nelle pagine del mio volume. Se intendiamo la secolarizzazione nel senso tradizionale, classico, come processo cioè di differenziazione, di conquista di autonomia del sapere scientifico, di conquista di autonomia della politica, dell’economia rispetto ad una visione di tipo sacrale quale è quella che veniva dalla tradizione medievale, dalla tradizione dei secoli passati.

Se intendiamo secolarizzazione come processo di distinzione, di conquista di autonomia all’interno di un mondo di valori che rimane saldo e che rimane valido, tutto questo è positivo, ma la secolarizzazione, io sostengo in questo mio volumetto, ha avuto in Italia un altro significato, un altro volto, non è stata crescita e processo di differenziazione all’interno di un mondo di valori, è stata, per certi aspetti, uscita da questo mondo di valori, è un salto, io dico, in un vuoto etico. In questo senso questo tipo di secolarizzazione ha portato a una scristianizzazione, ad una caduta dei valori tradizionali senza che siano nati in Italia forme di comportamenti etici alternativi”.

La cultura di fronte al vuoto

Professore un’ultima domanda. Di fronte a questo vuoto etico che cosa possono e debbono fare gli uomini di cultura?

“Gli uomini di cultura devono uscire da questa logica delle appartenenze politiche, partitiche, devono essere i primi a sentire la responsabilità di un impegno comune, di un dialogo, per rifondare nel nostro paese questa base, questo tessuto etico che è la condizione della stessa vita democratica.

Non è possibile la democrazia come semplice compromesso di interessi, se la democrazia non è sostenuta, animata da un tessuto di valori morali, da uno spirito religioso, nel senso più ampio del termine. Nel nostro paese tutta la cultura deve collaborare a questa rinascita, a questo rinnovamento culturale. La sensazione un po’ amara è che oggi ci si continua a dividere e a combattere nelle vecchie trincee, sulle vecchie posizioni. Si continua a polemizzare sullo stato laico, come se ci fosse ancora lo stato laico degli anni di Gentile: quando lo stato esprimeva questi valori, aveva un suo disegno educativo. Ma oggi lo stato italiano è il primo ad essere coinvolto nella crisi della quale stiamo discutendo.

Non ha senso che noi ci contrapponiamo sul concetto dello stato laico, e viceversa avrebbe molto più senso se si facesse uno sforzo comune per ridare forza, valore, credibilità, ai valori della nostra costituzione, al dettato, ai grandi valori che sono scritti nella costituzione e che rischiano altrimenti di restare lettera morta e di non essere più qualcosa di vivo che deve sostenere la vita associata in questo paese”.