All’origine del gender. Quelle femministe senza sesso

genderLa Nuova Bussola quotidiana

27 luglio 2015

di Marco Respinti

Con buona pace della galassia Lgbt, la “teoria del gender” non solo esiste e fa danni, ma è documentabile, ha una storia e corre sulla bocca di certi profeti. O di certe profetesse, come la scrittrice francese Monique Wittig (1935-2003), scomparsa 80 anni fa il 13 luglio. Nella Sorbona occupata dalla contestazione del maggio 1968 fu tra le animatrici del crogiuolo da cui sorgerà il Mouvement de Libération des Femmes, un’organizzazione-ombrello che, mescolando marxismo, psicoanalisi ed ecologismo, federò il radicalismo femminista in nome del diritto alla contraccezione e all’aborto. Erano gli anni della “seconda ondata” femminista, che si caratterizzò per la forte sessualizzazione della “liberazione delle donne”.

La prima, infatti, a cavallo tra Ottocento e Novecento, era stata quella delle suffragette che puntavano tutto sull’ottenimento del diritto di voto, e le cui leader statunitensi, da Elizabeth Cady Stanton (1815-1902) a Susan B. Anthony (1820-1906), erano rigorosamente antiabortiste. La terza, invece, sorta negli anni 1990, incarna la fase postmoderna, infeudatasi subito all’offensiva Lgbt e quindi corifea della “teoria di genere”. Nel passaggio dalla seconda alla terza ondata, il femminismo lesbico della Wittig, che faceva coppia fissa con la regista newyorkese Sande Zeig, è stato assolutamente strategico. Trasferitasi negli Stati Uniti nel 1976, dottore di ricerca all’École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi nel 1986, la Wittig insegna per anni in diversi atenei nordamericani e nel 1990 ottiene la cattedra di Women’s Studies nell’Università dell’Arizona di Tucson. Le sue pubblicazioni sono praticamente tutte di natura letteraria, un “flusso di coscienza” fatto di “poesie in prosa” scritte in uno stile spezzato e cerebrale.

L’Opoponax, del 1964 (trad. it. Einaudi, Torino 1966), immagina l’infanzia senza “sovrastrutture” négerarchia né ordine temporale di una bambina. Le guerrigliere, del 1969 (trad. it., Autoproduzione delle Lesbacce incolte, Bologna 1996), è l’epica delle “Esse”, non-donne o forse oltre-donne che cancellano il “mondo patriarcale” fondando uno Stato sovrano di tribadi. Il corpo lesbico, del 1973 (Edizioni delle Donne, Milano 1976), è il “manifesto” del suo “femminismo materialista” in cui, sintetizza brillantemente Douglas Martin nell’estremo addio alla Wittig su The New York Times, (clicca qui) «le amanti lesbiche invadono letteralmente l’una il corpo dell’altra» e protagonista è «j/e», cioè la decostruzione/ricostruzione, come sarebbe piaciuto a Jacques Derrida (1930-2004), del pronome personale francese “je”, cioè dell’“io”, attraverso la scomposizione delle lettere del lessema e il loro successivo affastellamento visionario, spezzato per apparire indifferenziato e forzatamente asessuato o, meglio, trans-sessuato per annientare la natura: perché, spiega Simonetta Spinelli, esegeta della Wittig, «il femminile e il maschile sono il risultato di una convenzione sociale che il corpo lesbico, nella sua ricostruzione di sé per sé, cancella e rende insensata» (clicca qui). E poi Virgile, non, del 1985 (trad. it. Il Dito e La Luna, Milano 2006), che è una riscrittura parodistica in chiave lesbica de La Divina Commedia.

Il nucleo filosofico del pensiero della Wittig è comunque la raccolta di saggi The Straight Mind and Other Essays, del 1992, dove tra altri trovano posto One Is Not Born a Woman (“Non si nasce donna”), pubblicato originariamente in francese nel 1980, e quello che dà il titolo alla raccolta, The Straight Mind (“Il pensiero eterosessuale”), pubblicato originariamente nel 1980, ma prima letto a New York nel 1978 alla Modern Language Association Convention, dedicata quell’anno proprio alle lesbiche americane. La Modern Language Association Convention: non è un caso che le tesi dirompenti della Wittig facciano coming out in un assise di quel genere. La Wittig spiega perché in un altro scritto di quella medesima raccolta, Point of ViewUniversal or Particular?, appunti stilati traducendo in francese Spillway and Other Stories della scrittrice “cripto-lesbica” americana Djuna Barnes (1892-1982) con il titolo La passion (Flammarion, Parigi 1982; trad. it.La passione, Adelphi, Milano 1994): il gender non è la differenziazione tra maschile e femminile, ma il suo superamento per sublimazione in un pleroma unitario e indistinto, come nell’antichissimo sogno del pensiero gnostico. Il maschile è infatti il genere “forte”, che, dalla grammatica alla filosofia, diviene universale e passepartout, e così il femminile, genere particolare, viene oppresso, riassorbito e cancellato.

Ma, come fanno la scrittura della Barnes e del francese Marcel Proust (1871-1922), omosessuale,occorre ripensare tutto rendendo obsoleti il maschile/femminile e la loro dicotomia/oppressione: un compito di liberazione totale che la “profezia lesbica” assolve perfettamente. La rivoluzione del linguaggio gender punta insomma a sovvertire dal profondo la parola, a rifare la lingua, a dare significati nuovi e arbitrari alla comunicazione del pensiero umano, un po’ come il “Newspeak” del romanzo 1984 di George Orwell (1903-1950) e un po’ come l’Humpty Dumpty de Le avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie di Lewis Carroll (1832-1898): «Quando io uso una parola questa significa esattamente quello che dico io, né più né meno. […] Bisogna vedere chi è che comanda; è tutto qua».

One Is Not Born a Woman (clicca qui) riprende del resto il discorso là dove la femminista franceseSimone de Beauvoir (1908-1986) lo aveva lasciato nel 1949 pubblicando Il secondo sesso (trad. it. Il Saggiatore, Milano 1961) e sentenziando: «Donna non si nasce, lo si diventa». Prosegue infatti la Wittig: «ciò che fa di una donna una donna è la sua specifica relazione sociale con un uomo, una relazione che ho già chiamato servaggio, una relazione che implica obblighi personali, fisici ed economici (“il tetto coniugale forzato”, le corvée domestiche, i doveri coniugali, l’illimitata produzione di figli, e così via), una relazione cui le lesbiche sfuggono rifiutandosi di diventare o di rimanere eterosessuali». Pertanto, occorre «[…] distruggere la “donna” […]», perché «[…] per ora il lesbismo fornisce l’unica forma sociale in cui possiamo vivere liberi. Il lesbismo è l’unico concetto che io conosca che sta oltre le categorie del sesso (donna e uomo) poiché il soggetto in questione (la lesbica) non è una donna né economicamente né politicamente né ideologicamente».

Sulla medesima linea, ma ancora più compiutamente, è il ragionamento postmarxista di The StraightMind (clicca qui), tradotto in italiano nel febbraio 1990 sul bollettino del Collegamento tra Lesbiche Italiane (CLI) da Rosanna Fiocchetto, tra le fondatrici del Cli, del Centro Femminista Separatista e degli Archivi Lesbici Italiani, altra esegeta della Wittig. The Straight Mind propone l’abbattimento dell’eterosessualità giudicata struttura borghese di potere politico ed economico oppressivo in funzione della quale vengono creati e imposti gli stereotipi “uomo”, “donna” ma anche “sesso” nell’illusione che siano reali. Come tale, «[…] la società eterosessuale è la società che non solo opprime le lesbiche e i gay, ma opprime anche molti differenti altri, opprime tutte le donne e molte categorie di uomini […]». Dunque «è la lotta di classe tra donne e uomini che abolirà gli uomini e le donne […]. Il concetto di differenza non ha nulla di ontologico in sé. È solo il modo in cui i padroni interpretano una situazione storica di dominio».

Ma, non potendo «[…] più essere […] donne e uomini», e dovendo «[…] queste, come classi e comecategorie di pensiero o di linguaggio […] sparire politicamente, economicamente, ideologicamente», «se noi, come lesbiche e gay, continuiamo a parlare di noi stessi e a concepire noi stessi come donne e come uomini, siamo strumentali al mantenimento dell’eterosessualità». Bisogna allora rifuggire da questi stereotipi classisti, come fanno, ottenendo il loro “paradiso materialista”, le lesbiche della parodia Virgile, non dove, scrive la poetessa Nadia Agustoni (clicca qui), «[…] l’affermazione di una collettività non naturale ma di classe […] e nello stesso momento la distruzione delle categorie di dominio “dell’eterosessualità obbligatoria”). La fuoriuscita della lesbica dal femminile è definitiva […]».

Dunque, «che cos’è una donna?», si domanda in sintesi e in apice la Wittig. «Francamente, è un problema che le lesbiche non hanno a causa di un cambiamento di prospettiva, e sarebbe scorretto dire che le lesbiche si associano, fanno l’amore, vivono con le donne, perché “donna” ha un significato solo nei sistemi eterosessuali di pensiero e nei sistemi economici eterosessuali. Le lesbiche non sono donne […]». È Prometeo che con l’omosessualismo si vendica finalmente della natura, annichilendola.