Il ’68 di Michele Federico Sciacca

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Federico Sciacca

Studi Cattolici n.571 settembre 2008

Intenzionalmente questa rivista non intende occuparsi di «bilanci» o di «eredità» del ’68, a quarantanni dallo scoppio della contestazione. Ce ne siamo occupati a ridosso degli avvenimenti, man mano che si svolgevano, e il bilancio l’abbiamo tracciato nel quaderno monografico Dov’è finito II ’68? (Sc n, 206/207, aprile/maggio 1979), confluito in un volume con lo stesso titolo, nella collana Sagitta delle Edizioni Ares (1979). Pubblichiamo tuttavia due significativi interventi: il primo, di Pier Paolo Ottonello, parla del ’68 analizzato e subito dal filosofo Michele Federico Sciacca; il secondo è il resoconto di un convegno particolarmente attento alle ricadute ecclesiali del ’68.

di Pier Paolo Ottonello

Nel ’68 Michele Federico Sciacca aveva sessantanni: siamo a cent’anni dalla sua nascita. L’ho conosciuto un decennio prima: gli sono stato assistente e collaboratore per l’ultimo suo decennio, andando in cattedra nella nostra Università di Genova pochi mesi dopo la sua morte, avvenuta il 24 febbraio del ’75. Vi aveva insegnato per un trentennio, trasferitosi, lui sicilianissimo, da Pavia, dove era ordinario dal 1938. Tale data potrà rinnovare in qualcuno tracce di fascismo: sarebbe una cantonata, per di più consunta.

Legatissimo alla sua vocazione dell’insegnamento, iniziato ventisettenne nell’ateneo di Napoli, altrettanto fortemente era antiaccademico e anticonformista. Non certo per snobberia o per super-conformismo, sebbene nato da famiglia nobile. Nella sua semplicità genuina, schiettezza coerente e intelligenza geniale era allergico ad «appoggi» di «potenti», partiti, consorterie di qualsiasi genere. Convertitosi al cattolicesimo, dopo averci fatto a pugni nel modo più duro e un lungo travaglio di anni tanto disordinati quanto impressionantemente attivi, non ha mai risparmiato colpi sempre più duri ai clericalismi e bigottismi, ecclesiastici e laicisti, fregiando questi ultimi del titolo di «bigotti della miscredenza».

Il ’68 l’ha dunque attraversato nella più lucida consapevolezza, suffragata da fatti anche troppo concreti, che i suoi primi mandanti e complici sono stati alcuni dei «baroni». Alcuni, di second’ordine, se li è trovati in casa, nella Facoltà di Lettere: e ha fatto la scelta, grave e dolorosa, di trasferirsi in quella che ieri era di Magistero, di qualità in nulla inferiore, anzi; e l’ha compiuta unicamente per cercar di tutelare l’avvenire di alcuni scolari rimastigli fedeli.

Superdroga consumista

Ma le scaramucce prezzolate, da parte di ultrasinistrismi i più beceri e violenti, non hanno certo minimamente rallentato la sua vulcanica attività, feconda tra l’altro d’una sessantina di volumi, in buona parte tradotti nelle principali lingue; di conferenze e corsi, frequentissimi, in una ventina di Paesi europei ed extraeuropei; di un numero incredibile di iniziative internazionali. Nel loro ambito anche a Genova ha portato tra le migliori teste pensanti.

A ridosso del ’68, quello che in uno dei miei tre volumi di saggi sul suo pensiero ho chiamato «anticonformismo costruttivo», sono nate alcune delle sue fondamentali opere. Nello stesso ’68, in Filosofìa e antifilosofia (ed. Marzorati: 28 volume dei quaranta di «Opere complete» da lui stesso raccolti), smaschera con lucidità spietata le radici e le innumerevoli forme dei «sofisti» d’oggi. Di bassissimo rango rispetto a quelli antichi: infinitamente più potenti, avendo dissolto l’essenziale sia della filosofia sia delle scienze tutte, riducendole rispetto alla loro autentica pienezza con l’alibi dell’utilità più miope ed egoista.

La cosiddetta «contestazione» è stata così la superdroga dei più viziosi consumismi. Quelli stessi per cui la nuova élite delle «cricche» supermultinazionali si esibiscono alle folle, rimpinguando il loro cachet col più eclatante berciare, nella divisa di jeans o mises più artificiosamente sbrindellati, da «superlavoratori». Sciacca denuncia le menzogne sofistiche con la più energica chiarezza — ne sarà ripagato con diverse porzioni di «cicuta» —, smascherando le forme più sottili e subdole dei compromessi: alla fin fine dissolutori di ogni autentico progresso, quello di ogni singolo così come di ogni forma di società – a cominciare dalla famiglia -, al di là dei loro più captanti luccichii.

Nel ’69 rincara i termini della diagnosi ne Gli arieti contro la verticale, dove la verticale implica l’assumere come fine essenziale della persona il miglioramento di tutte le dimensioni che le sono costitutive: intelligenza e libertà, dunque spirito di cultura e cultura dello spirito, e perciò scienze progredienti e razionalità dispiegata, ma appunto sulla base del rispetto pieno della propria dignità inalienabile. Gli «arieti» sono coloro che «incornano» proprio la dignità della persona.

Intelligenza oscurata

La violano con sempre nuovi – e insieme vecchissimi – artifici: negando che sia costitutivo della dignità di ogni persona respirare nell’orizzonte dei fini più alti, barattandoli con quelli comodistici del «tutto subito senza fatiche». Così riducono l’uso dell’intelligenza, gli slanci verso progressi sempre più sostanziali e per il bene comune, le scienze stesse e le tecnologie, ogni «lavoro», all’«affare» redditizio, da nuovi schiavi del nuovo idolo del «mercato globale».

I più megafonati egualitarismi e pacifismi diventano furbeschi happenings da parte di chi in realtà s’interessa solo di spaparanzarsi nell’oro. Non è poi difficile, così, tirare i fili delle burattinate dei «gemelli» chiamati populismo e «condivisionismo». Purché non se ne sfiorino i nervi – noblesse oblige – con autoritarismi di «doveri» o di «proibizioni».

Di questo passo, le civiltà più «avanzate» in realtà corrono alla più hollywoodiana autodistruzione, farmacizzata dalle più sofisticate «droghe». Sciacca, che aveva appena smascherato i principali percorsi contemporanei dell’ «antifilosofia», lo fa quindi, con rigorosa coerenza, rispetto all’«anticultura».

Entro la sua dinamica saranno anzitutto le specializzatissime «scienze» e tecniche a implodere: dopo che si sarà sufficientemente globalizzato l’«analfabetismo»; non quello del non saper leggere scrivere e far di conto, bensì quello radicale dell’aver perduto le consapevolezze fondamentali dell’interezza del nostro stesso essere: ricchezza di corporeità e interiorità, efficienza e creatività, senza accecarci ai fini alti ed essenziali con le traveggole dei giocolieri di turno.

Nel ’70, nel capolavoro L’oscuramento dell’intelligenza, traccia diagnosi prognosi e terapie radicali riguardo all’Occidente decaduto in «occidentalismo», per «stupidità storicizzata», ossia per progressivo accecamento a tutto ciò che è essenziale alla persona nella sua interezza. E la «globalizzazione» sta compiendo la peggiore occidentalizzazione del mondo: l’Oriente «tramonta», risucchiando i megaresidui occidentalistici, entro quelli che Sciacca chiama i «fuochi fatui» della tecnocrazia.

Necessarie conseguenze – già sotto gli occhi di chi non si accechi – l’imbarbarimento dell’opulenza assediata e saccheggiata da fami esplodenti in proporzioni mai nemmeno immaginate. Tutt’uno con l’immiserimento di cultura, natura, ordine di tutte le società – a cominciare da quella familiare e dalle società più «avanzate» — e con l’azzeramento di tutto quanto minoranze «in estinzione e non protette» continuano a considerare «sacro». Nell’opera postuma Il magnifico oggi Sciacca assume il mitico re Mida a simbolo della contemporaneità come, nel suo fondo, disperazione radicale dell’avere tutti i mezzi per vivere ma senza un solo motivo sufficiente, senza un fine che non sia soddisfazione dell’istante.

Il modo più comodo e sbrigativo di far piazza pulita delle rare figure della grandezza di Sciacca è tacciarlo di «pessimismo». Non ho mai conosciuto nessuno altrettanto non scalfibile, in mezzo a mille prove terribili, dalla qualsiasi forma di pessimismo. L’intera sua opera dimostra l’orizzonte radicalmente costruttivo della sua concezione della storia e del progresso. Senza questo orizzonte non avrebbe perso un secondo nel suo impegno tanto coerente e fecondo per cinquant’anni.

Questa la ragione autentica per la quale un piccolo gruppo di suoi scolari, a cominciare da Maria Adelaide Raschini – ma sembra «proibito» anche solo accennare ai ventidue volumi dell’organica raccolta dei suoi Scritti -, dopo aver curato un’ottantina di volumi sul suo pensiero, una ventina di congressi in Italia e all’estero, un periodico internazionale, Studi sciacchiani, a oggi alla sua ventiquattresima annata, nel centenario della sua nascita fra l’altro hanno dato vita, a Genova, alla «Fondazione Michele Federico Sciacca».

RIPERCUSSIONI ECCLESIALI

di Giuseppe Brienza

Dal Sessantotto a oggi in quasi tutti i settori e ceti sociali del nostro Paese è esploso quel processo di secolarizzazione che, come noto, è in atto da almeno due secoli in tutto l’Occidente di antica evangelizzazione cristiana. Tuttavia, come hanno dimostrato i relatori al convegno intitolato «L’ “eredità” del 1968 nella cultura, nella società e nella Chiesa italiana» (1), svoltosi il 28 maggio scorso a Roma presso il Santuario della Madonna del Divino Amore, è lecito anche parlare di una «vittoria parziale» del Sessantotto, perché questa fase rivoluzionaria ha prodotto e sta producendo una reazione del corpo sociale «di senso contrario».

Contro la nostalgia dei sessantottini, per un futuro ispirato dai valori senza tempo calpestati proprio dal Sessantotto, sta infatti partendo un anti ’68 in nome del merito, della gerarchia, della concorrenza e delle libertà, di cui le ultime elezioni politiche in Francia e in Italia costituiscono, fra le altre cose, una significativa testimonianza.

In occasione del 40° anniversario del «maggio francese», nelle loro relazioni al convegno romano il prof. Marco Invernizzi, docente di Storia dei partiti e movimenti politici all’Università Europea di Roma e presidente dell’Istituto Storico dell’Insorgenza e per l’Identità Nazionale (Isiin) e don Giovanni Poggiali, sacerdote dell’Opus Mariae Matris Ecclesiae e collaboratore della rivista il Timone, mensile di informazione e formazione apologetica, hanno in particolare focalizzato i loro interventi sulle conseguenze dannose della Rivoluzione sessantottina nel mondo ecclesiale italiano.

I teologi & il magistero

II sen. Gaetano Quagliariello, ordinario di Teoria e storia dei partiti politici e Storia comparata dei Sistemi politici europei presso la Facoltà di Scienze Politiche della Luiss «Guido Carli» di Roma e presidente della Fondazione Magna Carta, «convocato» fra i relatori e impossibilitato all’ultimo momento a partecipare al convegno per motivi istituzionali, ha fatto invece pervenire un messaggio nel quale, dopo aver denunciato le responsabilità dei rivoluzionari di quarant’anni fa rispetto alla profonda crisi educativa «di cui le cronache dei giornali e la pratica di vita quotidiana ci offrono tuttora spaccati significativi», si è chiesto metaforicamente, a proposito del rapporto tra il Sessantotto e l’egemonia culturale che ha condizionato il nostro Paese per decenni, «se sia stato il primo a rafforzare la seconda, o invece sia stata proprio quell’egemonia ad agevolare l’affermazione del movimento del Sessantotto e la sua eccezionale durata rispetto ad analoghe esperienze maturate in altri Paesi occidentali».

Don Poggiali, citando il sociologo delle religioni Massimo Introvigne, ha messo sotto accusa invece l’idea, diffusa non solo in ristrette cerchie di teologi, ma anche in buona parte del mondo culturale-mediatico, per cui «dopo il Concilio Vaticano II i cattolici – o almeno, per usare un’espressione non solo italiana, i “cattolici adulti” -possano scegliere fra il magistero del Papa e il “magistero parallelo” dei teologi (un’espressione che sarà ripresa nel 1990 dall’Istruzione Donum veritatis della Congregazione per la Dottrina della fede sulla vocazione ecclesiale del teologo).

I teologi, in quanto più “progressisti” e avanzati, anticiperebbero semplicemente oggi quanto il magistero finirà fatalmente per accettare domani, e quindi potrebbero e dovrebbero essere seguiti con fiducia dai fedeli più maturi. Dal momento che – per dire il meno – il Papa e la gerarchia non condividono questo punto di vista, ecco che nell’organizzazione Chiesa cattolica ci sono due fonti di autorità (da una parte il Papa, dall’altra i gruppi di teologi che riescono a farsi percepire come maggioritari, lo siano o no), le quali certamente non sono sullo stesso piano dal punto di vista della dottrina insegnata dalla Chiesa stessa (e dal Concilio Vaticano II), ma sono presentate come se lo fossero».

Entra così in profonda crisi il concetto di autorità nella Chiesa, come ha concluso il sacerdote milanese citando ampi stralci dall’ultima opera dello studioso sociale, militante di Alleanza Cattolica in Milano, recentemente scomparso, Enzo Peserico (1959-2008) (2).

Il prof. Invernizzi, curatore di un recente volume dedicato alla «svolta» delle elezioni del 18 aprile 1948 e ai vent’anni che ne «tradirono» le premesse cattoliche e popolari preparando la «Rivoluzione culturale» del Sessantotto (3), ha ricordato come la maggiore vittima della contestazione organizzata durante tutto questo annus horribilis è stato Paolo VI il quale, nell’enciclica Humanae vitae del 25 luglio 1968, non solo ribadiva l’illiceità per i cattolici della contraccezione artificiale, ma poneva soprattutto il problema della mutazione antropologica in atto, allora visibile in uno dei più delicati fenomeni umani, riguardante appunto lo svolgersi dei rapporti affettivi anche nel loro risvolto sessuale.

«La gravita del caso Humanae vitae», ha aggiunto lo storico milanese, «è confermata da un dato che riguarda la persona stessa di Papa Montini: dopo la reazione a quel documento, il Pontefice, che pure regna ancora fino al 1978, evidentemente amareggiato, non pubblica per tutta la sua vita alcun’altra enciclica (nessuna enciclica per dieci anni: un fatto del tutto inconsueto per un Papa moderno) dopo che ne aveva pubblicate sette fra il 1964 e il 1968».

Contro le radici

II Sessantotto rappresentò insomma «la quarta fase di un secolare processo della storia dell’Occidente rivolto a una profonda ribellione contro le radici di questa civiltà, che nelle sue diverse espressioni si rivolgeva contro Atene, contro Gerusalemme e contro Roma. La rivolta che esplodeva nelle università e nelle scuole, anzitutto e soprattutto, aveva di mira il padre e il maestro e assomigliava alla prima di queste rivolte, quella che nel Rinascimento aveva di mira quell’impasto di culture diverse che aveva dato origine alla civiltà romano-germanica e cristiana nell’Occidente.

Allora si trattava di esaltare il passato pagano, glorioso e luminoso, contrapponendolo a un presente ritenuto oscuro e limitato dalla fede e dalla morale cattolica; nel Sessantotto si sarebbe invece contrapposto a un presente meschino e borghese un futuro comunque migliore».

Mentre nelle successive rivoluzioni, quella francese e quella comunista, l’obiettivo erano principalmente alcune istituzioni, lo Stato e l’assetto sociale, nel Sessantotto come nel Rinascimento si è puntato soprattutto a modificare l’uomo e la sua cultura: «Una Rivoluzione culturale dunque, avendo cura di non intendere con cultura qualcosa di libresco e di limitato agli intellettuali, ma qualcosa che orienta le decisioni più importanti nella vita degli uomini e ne condiziona profondamente l’esistenza. In questo senso il Sessantotto è penetrato in profondità nel modo di vivere e di pensarsi dell’uomo occidentale e cristiano, alterando le sue relazioni con Dio, con gli altri uomini e con le cose materiali, e con sé stesso, secondo uno schema contenuto nell’esortazione apostolica Reconciliatio et poenitentia di papa Giovanni Paolo II»  (4).

Note

1) A testimonianza della necessità di una rivisitazione «non conformista» di questo periodo si può citare la eco ricevuta dal convegno in diversi dei mass media cattolici «non progressisti» [cfr, per es.: A. Gaspari, I cattivi frutti del ’68 a distanza di 40 anni. Riflessione sulla cultura che ha generato la «mutazione antropologica», in «Zenit. Agenzia Internazionale di notizie», Roma, 3 giugno 2008; S. Deodati, Quaranta anni ma non li dimostra. Convegno a Roma sulla rivoluzione del Sessantotto ed i suoi esiti nella società e nella Chiesa, in «II Corriere del Sud», anno XVII, n. 7, Crotone 1/15 giugno 2008; M. Brunetti, L’eredità del Sessantotto nella cultura, nella società e nella chiesa italiana, in Il Settimanale di Padre Pio. Rivista settimanale di formazione e di informazione cattolica dei Francescani dell’Immacolata, anno VII, n. 26, Roma, 29 giugno 2008, pp. 20-22].

2) Cfr E. Peserico, Gli anni del desiderio e del piombo. Sessantotto, terrorismo & Rivoluzione, Sugarco, Milano 2008, pp. 246.

3) Cfr M. Invernizzi – P. Martinucci (a cura di), Dal «centrismo» al Sessantotto, Edizioni Ares, Milano 2007.

4) Cfr Esortazione apostolica post-sinodale Reconciliatio et poenitentia di Giovanni Paolo II all’episcopato, al clero e ai fedeli circa la riconciliazione e la penitenza nella missione della Chiesa oggi, promulgata il 2 dicembre 1984.