Socci a Tettamanzi: si aiutano di più i poveri annunciando Gesù Cristo

Tettamanzi

card. Dionigi Tettamanzi

Il Foglio 16 dicembre 2004

Lettere a un cardinale

Quello che manca – e che produce un vuoto terribile da riempire con l’utopia – è la presenza viva e vera di Gesù Cristo nella vita quotidiana. Si finisce nell’utopia o in varie forme di attivismo, di moralismo e di gnosi, quando Gesù non è percepito e sperimentato come unica ricchezza concreta, Gesù Cristo vero tesoro della vita, senso ultimo di tutto, consistenza di tutte le cose, cuore dell’esistenza, Gesù come vero amore presente e amico che non tradisce e non abbandona mai.  

Antonio Socci

Signor Direttore,

il 20 marzo 1978 sulla prima pagina del Corriere della sera uscì un editoriale strano, per il Corriere, e che a me – allora studente – fece una enorme impressione. Un editoriale che aprì un caso: il caso Testori. Un grande scrittore, un grande lombardo – Giovanni Testori – che si era (clamorosamente) convertito. E che quel giorno commentava il rapimento di Aldo Moro con parole che era raro sentire. Si chiedeva infatti “perché s’è avuto e si ha ancora il timore di dire che il Dio rifiutato è un vuoto che nessuna demagogia del benessere e dell’eguaglianza, o d’ambedue assieme, può colmare; e che quel vuoto, a riempirlo, sarà solo il cupo inferno della materia impazzita e della sua impazzita cecità e solitudine?”.

Era un “perché?”, il suo, drammatico e potente, rivolto anche a chi aveva “il dovere” di “aiutare a capire”. Forse anche a quei pastori della Chiesa ambrosiana che invece di pronunciare quel nome – Dio – e illuminare quel vuoto – la mancanza di Dio – si perdevano nelle ennesime analisi sociali. Mi è venuto in mente, quel memorabile articolo nelle discussioni di questi giorni sul Discorso del cardinale Tettamanzi e con tutto il cuore vorrei regalare – per Natale – all’arcivescovo di Milano la straordinaria raccolta degli articoli di Testori (La maestà della vita, ed Rizzoli).

Il comunismo del cardinale

Perché questo grande lombardo e grande convertito aveva colto il cuore del problema. Anche, caro direttore, a proposito del “comunismo di Tettamanzi”, come lo chiama Il Foglio di giovedì. Lei ha l’orecchio allenato a quel lessico e giustamente sobbalza quando sente proporre (nel Discorso dell’arcivescovo di Milano) “la messa in comune del bene e dei beni materiali e immateriali, fisici e spirituali”.

 Al di là di questa espressione il problema mi pare quell’enfasi esclusiva sul “progetto sociale” (chiamato “solidarietà”, termine che torna 60 volte nel Discorso, mentre non vi appare mai il nome di Gesù). Quando e perché fra i cristiani nasce la tentazione del “progetto sociale”? Quando e perché spunta questa utopia (fin nel dettaglio dei “tavoli” di concertazione eccetera)? La tentazione di votarsi a un “non luogo” da costruire con le proprie mani, per coloro a cui è stato annunciato che hic et nunc, qui e ora, “Verbum caro factum est”, qui e ora Dio ha costruito la sua casa fra di noi, è un pericolo enorme: anzi, forse è “il” pericolo.

Ed è una conseguenza. Fra i cristiani l’utopia del progetto sociale (in qualunque sua forma) emerge sempre come conseguenza di una perdita, serve a riempire un immenso vuoto: la perdita o il vuoto di Gesù Cristo. Non che manchi l’evocazione formale di Gesù (a volte manca anche quella, per esempio nel suddetto Discorso alla città), ma è un’evocazione puramente verbale, irrilevante o, nel caso della Teologia della liberazione, una costruzione ideologica sul Cristo come modello di giustiziere e utopista.

Quello che manca – e che produce un vuoto terribile da riempire con l’utopia – è la presenza viva e vera di Gesù Cristo nella vita quotidiana. Si finisce nell’utopia o in varie forme di attivismo, di moralismo e di gnosi, quando Gesù non è percepito e sperimentato come unica ricchezza concreta, Gesù Cristo vero tesoro della vita, senso ultimo di tutto, consistenza di tutte le cose, cuore dell’esistenza, Gesù come vero amore presente e amico che non tradisce e non abbandona mai.

E’ precisamente questa l’abissale differenza che vi era tra Francesco d’Assisi e le sette ereticali pauperiste e utopisticamente comuniste del medioevo. Quando viene meno l’esperienza viva e per grazia “beatrice” – che poi è l’esperienza dell’incarnazione (di ciò che il papa domenica ha ricordato: “Dio è venuto ad abitare fra noi”) – allora insorge l’utopia del progetto sociale: la città futura da costruire, una città ovviamente solidale…

L’illuminista Ratzinger

L’ha spiegato benissimo, come sempre, Joseph Ratzinger, in un suo libro di qualche anno fa (e non a caso proprio questo grande teologo, come prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, ha messo fine all’imbroglio dottrinale chiamato “Teologia della liberazione”).

Dunque Ratzinger scriveva: “Il rifiuto della speranza che è nella fede è, al tempo stesso, un rifiuto al senso di misura della ragione politica”, “quando la fede cristiana decade, insorge allora di nuovo il mito dello stato divino, perché l’uomo non può rinunciare alla totalità della speranza. Anche se simili promesse si atteggiano a progresso e rivendicano per sé in assoluto il concetto di progresso, esse sono tuttavia, storicamente considerate, una retrocessione a prima della Novità cristiana, una svolta a rovescio della scala della storia”.

Ratzinger aggiunge: “Una simile politica, che fa del Regno di Dio un prodotto della politica e piega la fede sotto il primato universale della politica è per sua natura politica della schiavitù; è politica mitologica”.

Secondo Ratzinger fin dall’inizio il Cristianesimo è entrato nel mondo come il vero Illuminismo che ha dissolto le nebbie della superstizione (ovvero di quella religione pagana funzionale alla divinizzazione del potere): “la fede cristiana ha distrutto il mito dello stato divino, il mito dello stato-paradiso e della società senza dominio o potere. Al suo posto ha invece collocato il realismo della ragione”.

Così come l’arrivo del Cristianesimo ha liberato l’umanità del giogo dello “stato divino”, della “divinità” dell’imperatore (per questo nei primi due secoli vi furono tanti martiri cristiani), così i cristiani possono dare ancora oggi un grande contributo alla vita della società, contestando alla radice la pretesa perfettista delle diverse utopie e ogni pretesa messianica della politica o dello Stato. E’ per questo che storicamente proprio dal cristianesimo è venuta l’idea della laicità dello Stato ed è germogliata la parte migliore (non ideologica) della liberaldemocrazia.

Scrive infatti Ratzinger: “Il primo servizio che la fede fa alla politica è dunque la liberazione dell’uomo dall’irrazionalità dei miti politici, che sono il vero rischio del nostro tempo. Essere sobri ed attuare ciò che è possibile, e non reclamare con il cuore in fiamme l’impossibile, è sempre stato difficile; la voce della ragione non è mai così forte come il grido irrazionale. Il grido che reclama le grandi cose” spiega Ratzinger “ha la vibrazione del moralismo; limitarsi al possibile sembra invece una rinuncia alla passione morale, sembra il pragmatismo dei meschini. Ma la verità è che la morale politica consiste precisamente nella resistenza alla seduzione delle grandi parole con cui ci si fa gioco dell’umanità dell’uomo e delle sue possibilità. Non è morale il moralismo dell’avventura, che intende realizzare da sé le cose di Dio. Lo è invece la lealtà che accetta le misure dell’uomo e compie, entro queste misure, l’opera dell’uomo. Non l’assenza di ogni compromesso, ma il compromesso stesso è la vera morale dell’attività politica”.

Quali poveri?

Una delle “grandi parole” con cui “ci si fa gioco dell’umanità” è la parola: povertà. Un grande equivoco si è prodotto anche fra i cristiani. Per alcuni l’esistenza dei “poveri” è il pretesto per disegnare e perseguire quell’utopia che si aspetta tutto dalla politica e dal potere (questo sì che è integralismo). Mentre nell’autentica tradizione cristiana – per esempio Madre Teresa di Calcutta o Fratel Ettore Boschini o don Giovanni Bosco o lo stesso Francesco d’Assisi – i poveri sono persone concrete da amare, creature predilette del Signore da soccorrere come Gesù crocifisso e in nome di Gesù crocifisso. Non pretesti per produrre un sistema ideologico e politico.

Per i primi lo “scandalo della povertà” è dovuto a cause politico-sociali. Per gli altri – i santi – anche lo scandalo della povertà, come ogni male e ogni peccato, deriva dalla caduta originaria che ha portato la morte nel mondo e l’unico medico e guaritore della condizione umana è Gesù, il Figlio di Dio.

Per i santi i veri “poveri” non sono coloro che vivono nell’indigenza materiale, ma è povero chi non conosce Cristo. Madre Teresa provocava il nostro senso comune “solidarista” affermando che i veri poveri non erano i suoi derelitti di Calcutta, che morivano amati e abbracciati da Dio e dalle sue suore, ma siamo noi che non conosciamo più l’amore di Dio e non riusciamo neppure più ad accogliere i nostri figli, soffocando la vita ai suoi albori.

La vera miseria, la vera fame e la vera sete, di cui nel Discorso di Tettamanzi non c’è traccia, è la fame e la sete di Cristo (ben più profonda e decisiva del caro affitti). Il nostro tempo è quello descritto dalla Sacra Scrittura: “Ecco, stanno per venire dei giorni nei quali manderò la mia fame sopra la terra: non una fame di pane, non una sete d’acqua, ma fame e sete di udire la parola di Dio. Ed essi andranno errando da un mare all’altro, e dal Settentrione all’Oriente; ed andranno qua e là cercando la parola di Dio, e non la troveranno. In quei giorni saranno sfiniti per la sete le fanciulle ed i giovani” (Amos, VIII, 11-13).

E’ Gesù (lo attesta ripetutamente) il vero pane e la vera sorgente d’acqua per l’umanità affamata e assetata. E lo proclama proprio mentre moltiplica i pani e i pesci e si rifiuta di essere fatto re (in senso politico, di progetto sociale). E’ lui che tutti cercano e aspettano e desiderano brancolando nel buio. E’ per conoscere Lui che tutti siamo nati. Di Lui “sono in attesa le isole”.

Possibile che proprio i cattolici non si accorgano di questa fame e di questa sete? Eppure è questa la vera, grande povertà che implora una risposta. Perché – dice Gesù stesso a Marta – “una cosa sola è necessaria”. Quell’unica cosa necessaria alla vita è Lui: Gesù. E chi lo annuncerà, chi parlerà di Lui, chi ne narrerà la bontà, la potenza, l’amore, la compassione, la fedeltà se i cristiani Lo dimenticano per declamare le loro analisi sociali e chiedere “tavoli di concertazione” sul caro affitti? Oggi Gesù è il grande Sconosciuto.

Eppure Tettamanzi ha dedicato molte pagine alla solitudine delle nostre città e al dilagare della depressione. Che non hanno a che fare con questioni economiche. E allora come non pronunciare quel nome che è l’unico a poter colmare la solitudine umana? Quel nome, quell’Uomo-Dio venuto a salvare tutti noi, oggi sembra essere un tabù impronunciabile. Questa è la vera tragedia. Meglio censurarlo parlando di “virtù”, di “solidarietà” e di Cappuccetto rosso: perfino a Natale! Proibito evocarlo: il solo suo nome potrebbe risvegliare in noi una sconvolgente nostalgia?

C’è una poesia di Pier Paolo Pasolini che dice: “Manca sempre qualcosa, c’è un vuoto/ in ogni mio intuire. Ed è volgare,/ questo non essere completo, è volgare/ mai fui così volgare come in questa ansia,/ questo ‘non avere Cristo’…”.

Gesù, il vero amore

E’ il Pasolini di “Teorema”:  “sono pieno di una domanda a cui non so dare risposta”. La risposta è venuta fra noi, si è fatta Uomo: “la luce splende nelle tenebre,/ ma le tenebre non l’hanno accolta” (Gv 1, 5). Non la riconoscono e non la conoscono. Questo dovrebbe struggere il cuore dei cristiani rendendoli indomiti annunciatori del Salvatore com’è Giovanni Paolo II. Fino all’ultimo respiro. Francesco d’Assisi urlava il suo dolore accorgendosi che “l’Amore non è amato! L’Amore non è amato!”. Questo solo lo consumava: che gli uomini non Lo conoscessero. Lontano da Lui la vita è tenebra e dissipazione, imbecillità e monnezza. Questa è anche la miseria del nostro tempo, cardinale Tettamanzi. Accorgiamoci di questa povertà e condividiamo Colui che – senza nostro merito – ci è stato donato, il bambino che ci è nato. Dio onnipotente fatto bambino.

P.S. L’Unità mi ha voluto regalare uno dei più grandi piaceri che possa toccare a un cristiano. Proprio lunedì sera i vespri del giorno di Santa Lucia proponevano questo passo della prima lettera di Pietro. “Carissimi, non siate sorpresi per l’incendio di persecuzioni che si è acceso in mezzo a voi per provarvi, come se vi accadesse qualcosa di strano. Ma nella misura in cui partecipate alle sofferenze di Cristo, rallegratevi perchè anche nella rivelazione della Sua gloria possiate rallegrarvi ed esultare. Beati voi se venite insultati per il nome di Cristo, perché lo Spirito della gloria e lo Spirito di Dio riposa su di voi” (1Pt, 4, 12-14).

Ebbene, il giorno dopo l’Unità ha pensato bene di coprirmi di insulti, in prima pagina, proprio perché partecipando al suo “Otto e mezzo”, venerdì scorso (da mesi e mesi non sono più in tv), ho osato parlare del “nome di Gesù”. Non so se tutte quelle parole offensive mi siano state scagliate addosso per odio a me o per odio a Lui perché hanno fatto un conto unico e io – pur godendone – mi sento indegno di una simile gloria.