Erich Lessing: Budapest 1956

Studi cattolici n.554 aprile 2007

di Ugo Finetti

ungheria 2

Perché la caduta del comunismo è avvenuta nel 1989 e non nel 1956? È l’interrogativo che sorge immediatamente guardando le fotografie scattate nell’ottobre-novembre di mezzo secolo fa a Budapest da Erich Lessing — uno dei maggiori reporter della ormai mitica Agenzia di fotografi «Magnum» – a cui è stata dedicata una fortunata mostra curata da Sandro Clerici, allestita alla Loggia dei Mercanti di Milano (1-18 febbraio 2007) e che ha suscitato numerose iniziative, con testimonianze e dibattiti, nelle scuole milanesi e lombarde.

Rievocare e ragionare sui fatti di Ungheria per molti giovani significa infatti conoscere e capire le radici della nostra vita politica e culturale contemporanea. E’ impressionante come le immagini di quell’autunno ungherese sembrano coincidere – salvo qualche particolare negli abiti e nel taglio dei capelli – con i volti ripresi dalle telecamere alla caduta del Muro di Berlino: stesso inquieto entusiasmo, consapevolezza di essere animati dalla propria storia, di rappresentare lontane radici, di voler gettare alle spalle abusi e umiliazioni, di cominciare finalmente a riprendere pieno possesso della propria vita, del proprio pensiero e della propria parola.

Le immagini di Lessing ci riportano direttamente alla realtà di quelle settimane, a quell’ondata di speranza e di risveglio come da un letargo, da una lunga e coatta ibernazione. Alle loro spalle c’era il generale moto di sollievo provocato nel 1953 dalla morte di Stalin. Colui che era stato celebrato per quasi trent’anni in Urss e dal ’47-’48 nelle «democrazie popolari» dell’Europa dell’Est come il «Piccolo Padre» fu – come ricorda l’ex Premio Stalin e futuro animatore della rottura in Italia tra socialisti e comunisti, Pietro Nenni, nei suoi Diari — sotterrato in fretta e furia a Mosca.

Di lì a poco, nel giro di poche settimane, vennero convocate al Cremino le delegazioni dei principali partiti comunisti, al potere nell’Europa dell’Est e all’opposizione nell’Europa dell’Ovest, per informarli che si iniziava a voltare pagina, che cessava il «culto della personalità», che a Mosca si era passati alla «direzione collegiale» e che anche negli altri partiti bisognava — come ebbe a riferire privatamente il vicesegretario del Pci, Pietro Secchia, a Roma venendo zittito da Togliatti – «cambiare».

Il «cambiamento» in Urss iniziò da un lato con la liberazione dei detenuti politici – una massa che scese nei successivi due anni da 2 milioni e mezzo a «soli» 225.000 – nei campi di lavoro e nelle carceri, e dall’altro con l’archiviazione di dogmi della politica sovietica e comunista nel mondo come quello della «inevitabilità della guerra» tra campo comunista e «imperialismo» statunitense.

La svolta della «coesistenza pacifica» teorizzata da Krusciov nasceva all’epoca sull’onda degli esperimenti Usa-Urss – tra il ’53 e il ’55 – di bombe all’idrogeno otto volte più devastanti delle atomiche di Hiroshima e Nagasaki che gli Stati Uniti erano in grado di trasportare con bombardieri e i sovietici di lanciare con missili: in quegli anni si intensificò infatti l’«equilibrio del terrore» con basi aeree nel Patto Atlantico (in cui entrò la Germania dell’Ovest avviandone il clamoroso riarmo dopo il disarmo sanzionato come una sorta di «ergastolo militare» per il passato hitleriano) e basi missilistiche nelle «democrazie popolari» (che Mosca radunò militarmente dando vita al Patto di Varsavia).

Effetto domino

Come accade sempre alla morte di un dittatore, si cerca da parte degli scampati di segnare una linea di cautela, di irreversibile «non ritorno»: in questo consistette il «rapporto Krusciov», letto in seduta a porte chiuse ai delegati al XX Congresso del Pcus quando l’assise era ormai conclusa e i nuovi organismi dirigenti erano già stati eletti nel febbraio del 1956.

Krusciov pensava così di essersi messo al sicuro al Cremino, ma da allora il «mondo comunista» si spaccò in tanti piccoli Krusciov e Stalin. Anche se Krusciov metteva sotto accusa solo alcuni «eccessi» di Stalin con specifico riferimento soprattutto all’ultimo periodo, l’«effetto domino» destabilizzò i vertici delle «democrazie popolari».

Tornavano all’ordine del giorno nel blocco sovietico idee di libertà e verità che configgevano con l’«idea comunista». Per comprendere questo «effetto domino» bisogna tener presente l’articolazione, ma anche la radice unitaria del «mondo comunista», la specularità tra regimi e partiti derivante dalla condivisione di matrice ideologica, schema organizzativo e finalità politiche.

Al regime dell’Est imperniato su 1) partito unico, 2) polizia segreta, 3) pensiero unico, 4) economia centralizzata, 5) internazionalismo proletario, corrisponde il partito dell’Ovest caratterizzato da a) centralismo democratico, b) apparato clandestino, e) scuole interne di formazione marxista, d) anticapitalismo e antiriformismo, e) antimperialismo e antiamericanismo.

Dalle immagini di Lessing emerge però come il mondo comunista non possa essere considerato secondo il mero dualismo tra comunismo al potere nell’Est e all’opposizione nell’Ovest, ma occorra distinguere anche tra Urss e gli altri Stati «satelliti» nel senso che – a differenza di quanto verificatosi nella società delle varie repubbliche sovietiche — è dagli Stati in cui il comunismo è sorto nel dopoguerra sull’onda dell’occupazione sovietica che in modo crescente (dalla protesta degli operai tedeschi a Berlino Est nel 1953 a quella dei portuali di Danzica con la nascita del primo sindacato libero in regime comunista nel 1980, dal governo ungherese di Nagy nel 1956 al «nuovo corso» cecoslovacco del 1968) il «blocco sovietico» è stato sempre più destabilizzato.

È nelle «democrazie popolari» dell’Europa orientale che si è infatti ripetutamente registrata nel corso della seconda metà del XX secolo una triplice «insorgenza», configurata dall’intreccio antisovietico di: a) patriottismo risalente alla fondazione degli Stati nazionali nel XIX secolo, b) tradizioni religiose cristiane, e) rivendicazioni liberali e libertarie di diritti individuali, d’espressione culturale e artistica e di ricerca scientifica.

Ed è anzi significativo rilevare come in questa triangolazione (Urss, «satelliti», comunisti occidentali), proprio nella crisi aperta dal «rapporto segreto» di Krusciov su Stalin al XX Congresso e poi culminata con gli scontri armati in Ungheria nel corso del 1956, i principali partiti comunisti all’opposizione nei Paesi capitalisti – il Pci di Palmiro Togliatti e il Pcf di Maurice Thorez – si chiusero invece a riccio su posizioni di freno verso la destalinizzazione di Krusciov e svolsero il ruolo di maggior conservazione in campo comunista rispetto agli altri due soggetti.

La mostra delle immagini di Lessing segue il crescere del fermento nato in estate sull’onda della pubblicazione del «rapporto Krusciov» dal New York Times il 4 giugno 1956. La crisi infatti esplode in Ungheria nel momento in cui, all’inizio di ottobre, si svolge la cerimonia funebre in ricordo di Rajk, l’ex leader del partito comunista ungherese vittima di Stalin, processato e ucciso.

Due settimane dopo, il 23 ottobre, ha luogo la manifestazione di protesta che mette sotto accusa il vertice del partito comunista complice dell’uccisione di Rajk. Il 24 ottobre il segretario del partito comunista, Gero, chiama in soccorso le truppe sovietiche, ma il 25 ottobre viene messo in minoranza e nei giorni successivi vengono eletti al vertice del partito e del governo due dirigenti che erano caduti in disgrazia, Kadar e Nagy, che annunciano un congresso straordinario del partito per abbandonare la denominazione comunista e chiedono il ritiro delle truppe sovietiche, che inizia il 28 ottobre.

Il presidium del C.C. il 30 ottobre 1956 esclude il ricorso alla forza e decide di favorire – dichiara Krusciov – «il corso pacifico, il corso del ritiro delle truppe e dei negoziati, al posto del corso militare, il corso dell’occupazione». Appreso il prevalere di questa linea «morbida», il giorno stesso, in data appunto 30 ottobre, Togliatti invia un messaggio urgente alla segreteria del Pcus: «Gli avvenimenti ungheresi hanno creato una situazione pesante all’interno del movimento operaio italiano, e anche nel nostro partito», esordisce; e quindi attacca Nagy: «Nel momento in cui noi definimmo la rivolta come controrivoluzionaria ci trovammo di fronte a una posizione diversa del partito e del governo ungherese e adesso è lo stesso governo ungherese che esalta l’insurrezione. Ciò mi sembra errato».

Segue un giudizio che è un chiaro appello all’intervento armato: «La mia opinione è che il governo ungherese – rimanga oppure no alla sua guida Imre Nagy – si muoverà irreversibilmente verso una dirczione reazionaria. Vorrei sapere se voi siete della stessa opinione o siete più ottimisti».

Togliatti conclude con parole che richiamano la sua esperienza di membro della «leadership collettiva» del comunismo: «Voglio aggiungere che tra i dirigenti del nostro partito si sono diffuse preoccupazioni che gli avvenimenti polacchi e ungheresi possano lesionare l’unità della direzione collegiale del vostro partito, quella che è stata definita dal XX Congresso. Noi tutti pensiamo che, se ciò avvenisse, le conseguenze potrebbero essere molto gravi per l’intero movimento».

Il giorno dopo, il 31 ottobre, si riunisce il Presidium del Pcus che così rispondeva al leader del Pci: «Concordiamo con lei nell’interpretazione della situazione ungherese e nel giudizio secondo cui il governo ungherese sta imboccando una via reazionaria». Quindi il Cremino emana l’ordine di «prendere l’iniziativa di restaurare l’ordine in Ungheria», e partono i carri annali alla volta di Budapest, dove apriranno il fuoco ai primi di novembre dopo che il 2 l’ambasciata sovietica a Roma ha provveduto a informare Togliatti sull’imminenza dell’intervento armato da lui auspicato.

E’ difficile non porsi un quesito: è possibile che questa documentazione sia stata conservata solo dal Pcus e non anche dal Pci? Il dato storico è che essa viene alla luce da parte russa dopo la caduta non solo del muro di Berlino, ma di Gorbaciov. Sul versante italiano per quarantenni non ne esiste traccia. Se fosse dipeso dal Pci-Pds-Ds, questa lettera di Togliatti non sarebbe mai venuta alla luce, lì bilancio dell’invasione è noto: 4.000 morti, 10.000 feriti, 200.000 persone fuggite su una popolazio­ne di nove milioni di abitanti. Fu la decapitazione di un’intera classe dirigente nazionale.

Governo comunista & carro armato

II 1956 in Italia si tradusse così in una restaurazione del potere di Togliatti dopo che era stato inizialmente destabilizzato dal XX Congresso e contestato in seno allo stesso gruppo dirigente. Sull’onda della repressione ungherese, Togliatti infatti potè impostare il congresso del Pci contro il revisionismo di destra mettendo al centro il giudizio negativo sulla «rivoluzione ungherese» del ’56, che venne per decenni confermato anche da Berlinguer e all’epoca dell’eurocomunismo.

Dall’esperienza ungherese emerge come nella storia del «movimento operaio internazionale» vada tenuto presente anche il rapporto diretto tra governo comunista e carro armato. Dopo i fatti di Budapest ogni movimento libertario venne represso con la forza, da Praga nel ’68 a Varsavia nell’81.

Il Muro di Berlino cominciò infatti a tremare quando a Varsavia s’insediò un capo di governo non comunista senza provocare l’invio di truppe sovietiche né colpi di Stato.

La mostra su Budapest ’56 di Lessing si conclude con le immagini realizzate nelle settimane successive alla caduta del Muro di Berlino. Ritraendo gli ex protagonisti invecchiati e sorpresi dagli eventi e ormai con alle spalle un passato di emarginazione e un presente che inesorabilmente li cataloga come «ex» viventi – has been -, la conclusione è ingiustamente malinconica. Certo i protagonisti del ’56 non possono ambire a essere i protagonisti dell’89; vero è che però il ’56 ungherese rappresentò grazie a loro da un lato l’inizio di una sinistra europea non più marxista e dall’altro, più in generale, rappresentò l’irrompere di progressivi spazi democratici.

La panoramica delle immagini di Lessing ci restituisce la complessità e la vitalità di un movimento di liberazione che contraddice la lettura classista proprio nel suo richiamarsi ai moti del 1848 animati non da rivoluzionarismo, ma da patriottismo. L’ottobre-novembre ungherese si richiama esplicitamente infatti a Petòfi — già nella denominazione del «circolo» (oggetto degli strali di Togliatti) in cui si riunivano studenti, uomini di cultura e sindacalisti -, alla lotta per l’indipendenza per difendere il regime costituzionale dapprima accordato e poi rifiutato dall’Imperatore, e che fu soffocata dall’intervento dell’esercito russo in aiuto delle truppe austriache contro gli insorti ungheresi e — contemporaneamente nel 1848 — dei rivoltosi polacchi.

Quella dell’insurrezione antisovietica di Budapest è appunto l’espressione dell’«altro Novecento», del Novecento antitotalitario. Troppo spesso il XX secolo dopo la caduta del comunismo, soprattutto a opera dell’intellettualità postcomunista di sinistra, viene letto quasi fatalisticamente come il secolo della «guerra fredda», come ha fatto Erich J. Hobsbawm nel suo Il Secolo breve, e cioè come scontro tra capitalismo reazionario e movimento operaio, in cui si sono contrapposti comunismo e nazismo.

Una contrapposizione amara, ma descritta come ineluttabile, in cui la scelta imposta era tra fascismo e antifascismo, per cui alla fine il comunismo sarebbe da considerare il male minore, il contenitore della gente per bene in quanto unica alternativa concreta alla reazione e alla repressione.

I fatti di Ungheria smontano questa tesi filistea – fatalista, consolatoria e autoassolutoria – riproponendo la vera vitalità ed eredità duratura del Novecento, e cioè la sua cultura e identità fortemente antitotalitaria nel segno della centralità della persona, dei diritti civili, della dignità della vita quotidiana. Contro l’idolatria di una Storia che avanza positivamente anche al prezzo di tragedie individuali, c’è stato un «altro Novecento» che in tutto il panorama delle attività culturali ha al contrario visto come centrale la persona nella sua vita ordinaria.

La «grandiosità della vita quotidiana» è al centro non solo della vita religiosa, ma dell’intera cultura, dall’arte alla scienza, dall’antropologia alla nuova storiografia della scuola degli Annales, dalla Psicopatologia della vita quotidiana di Freud al 16 giugno del 1904, un giorno qualsiasi, della Dublino di Joyce.

Il Novecento come «secolo dei totalitarismi» in cui non c’era altro da scegliere se non tra Hitler e il sindacalismo comunista è una leggenda dura a morire, ma che ogni fotografia di Lessing azzera mostrandoci una variegata collettività in lotta contro le «idee assassine» (come le ha definite Robert Conquest) del materialismo storico al potere.

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