Il «mito dell’Onu» e l’ideologia del multilateralismo

caschi bluStudi Cattolici n.544 aprile 2007

II «mito dell’Onu tende ad assegnare alla massima organizzazione internazionale un ruolo che ha dimostrato di non poter svolgere, cioè quello di garante della pace. Chi si appella a questo «mito», lo fa – più o meno consapevolmente – in funzione neutralistica e sulla base di un’incompleta valutazione dei dati reali dei problemi internazionali. Renzo Foa è condirettore della rivista Liberal ed editorialista del Giornale. Ha da poco pubblicato il libro In cattiva compagnia (Liberai edizioni).

di Renzo Foa

Ogni tanto spuntano dal nostro passato più recente dei promemoria su quelli che potremmo considerare «i crimini del multilateralismo». Non uso questa definizione per una semplicistica contrapposizione alla visione che scarica sull’«unilateralismo americano» la responsabilità del disordine mediorientale e globale. Non è l’argomento di una rappresaglia.

Più concretamente, quando si parla di Srebrenica, per esempio, come è successo in occasione della controversa sentenza della Corte di giustizia dell’Aja, è difficile non pensare in primo luogo all’abdicazione delle Nazioni Unite.

Così come, per associazione di idee, il genocidio ruandese evoca quel «fallimento dell’umanitario» di cui ha parlato il generale Romèo Dallaire. Ma quel che colpisce di più è la continuità. Il Darfur, per esempio, resta il simbolo dell’incapacità della comunità internazionale, Onu, Unione europea, Unione africana e così via, di essere davvero uno strumento di pace. Se ne può discutere finché si vuole — la letteratura è vastissima – ma esiste un profondo divario fra la realtà, a essere più precisi, fra le tragedie reali e le mitologie politiche e culturali.

Bipolarismo & dopo

In Italia il «mito dell’Onu» accompagna interamente la storia della Repubblica. Rappresentò all’inizio la meta da raggiungere per cancellare definitivamente, sul piano internazionale, l’immagine del Paese sconfitto nella seconda guerra mondiale e per essere accettati a pieno titolo nella comunità delle nazioni. Fu poi, nell’era del bipolarismo consolidato tra Stati Uniti e Unione Sovietica, una sorta di camera di compensazione, anche in funzione di politica interna: basti ricordare la stagione del «neutralismo» socialista di Pietro Nenni o quella del protagonismo internazionale di Amintore Fanfani.

Era la sede in cui si esprimevano agevolmente le distinzioni di culture e di visioni, ora della Dc, ora del Psi, ora del Pci, ma pur sempre nell’ambito di scelte di collocazione internazionale nette e indiscutibili. Il punto di partenza, che lo stesso Enrico Berlinguer riconobbe alla metà degli anni ’70, era comunque la Nato, era comunque l’alleanza con gli Stati Uniti. Le differenziazioni cominciavano dopo, non venivano rimessi in discussione gli assunti fondamentali di un’appartenenza.

L’impazzimento è successivo. Segue il 1989, è provocato dall’incapacità della gran parte della sinistra di riempire il vuoto aperto dall’implosione del comunismo. Non penso solo alla transizione incompiuta iniziata allora dal Pci e al proliferare di suggestioni estremiste. Penso alle culture socialiste, rimaste senza rappresentanza con «mani pulite» e disperse in tanti rivoli. Penso a una vasta area cattolica, diasporizzata dopo l’estinzione della Dc.

Si tratta di una parte importante dell’Italia, forse più della metà, che di fronte a una crisi di proporzione storica destinata a mettere in discussione valori, punti di riferimento e visioni, preferisce rifugiarsi in mitologie neutrali.

Due Occidenti contrapposti?

In questo 2007 possiamo vedere in modo nitido e compiuto l’esito di questa metamorfosi. L’Unione prodiana traduce in politica di governo queste mitologie. La parola «multilateralismo» cessa di appartenere al tradizionale dizionario della geopolitica e si trasforma direttamente in una leva per affermare l’assunto dell’esistenza di «due Occidenti», anche in contrapposizione tra loro. L’europeismo, indebolito dalla contraddizione irrisolta tra il basso quoziente di unità politica e l’alto tasso di integrazione economica, viene invece esibito come un ponte nelle trasformazioni della globalizzazione.

Il «dialogo» da metodo della diplomazia e della politica viene indicato come una panacea dei mali del mondo, anche quando visibilmente non lo è. Il «mito dell’Onu» è il raccoglitore di tutte queste fragilità. L’Onu viene presentata non per quel che è, ma per quel che dovrebbe essere, cioè il regolatore dello status quo planetario, dopo la fine dell’«equilibrio della deterrenza» mantenuto fino al 1990 dagli arsenali nucleari di Stati Uniti e Unione Sovietica.

L’Onu, caricato di un ruolo che non può avere, quello di garante della pace. L’Onu investito di una missione impossibile, essere camera di compensazione di interessi contrapposti e punto di incontro fra culture. In altre parole, lo strumento di governo del mondo, la sede delle autorizzazioni e dei divieti, la stanza dei bottoni di un Welfare planetario, la camera di rappresentanza degli Stati nazione, con l’aggiunta di una «società civile» delegata alle Ong e gestita attraverso le agenzie specializzate del Palazzo di vetro. Con l’ulteriore aggiunta delle istituzioni regionali. Il tutto definito da un diritto internazionale che insegue, anziché anticipare e prevenire, cambiamenti e trasformazioni, con il loro carico di conflitti.

Il «mito dell’Onu» ha assunto forza, in particolare, dopo l’11 settembre. È diventata la parola d’ordine della non-risposta militare all’attacco del fondamentalismo islamista. Dell’equazione terrorismo-guerra. Della rinuncia a considerare centrale la parola «libertà». Dell’affermare un’idea di pace che prescinde dal rispetto dei diritti dell’uomo, dalla democrazia politica, dal riconoscimento delle differenze. È l’esaltazione di un concetto di neutralità fra valori. È la traduzione dell’accettazione dello status quo planetario.

Le culture di sinistra, lungo tutto l’arco del Novecento, si sono contraddistinte per una forte carica internazionalista e interventista. Oggi approdano a forme inedite di isolazionismo. Restano culture deboli, dominate dall’ossessione del ritiro. Hanno però tratto sostegno dalla difficoltà in cui si sono imbattute le strategie e le tattiche con cui è stata condotta l’azione di contrasto al fondamentalismo islamista e alla rete terroristica.

Gli interventi in Afghanistan e in Iraq non hanno avuto l’esito calcolato in partenza. La minaccia iraniana e l’accerchiamento in cui è stretto Israele non hanno soluzioni facili, né sul piano negoziale né su quello militare. La vera e propria «guerra civile» in corso nel mondo musulmano è diventata sempre più il connotato prevalente della «guerra planetaria» di cui ha dovuto farsi carico l’amministrazione Bush, senza un apparente esito a breve termine e con la proposta del tema della crisi dell’«unilateralismo americano».

«Una fabbrica di disastri»

Lungo le linee di questa incertezza, ha’ assunto nuova forza il «mito dell’Onu», che in Italia si è tradotto nell’azione di governo dell’Unione e il cui punto principale, sul piano operativo, consiste nella missione in corso nel Libano meridionale e, sul piano politico, nel tentativo di cancellare dal dibattito interno le culture dell’interventismo, della responsabilità globale, del ritorno al riferimento originario delle stesse Nazioni Unite, così come le aveva concepite Roosevelt, cioè l’alleanza della libertà.

È una visione che può essere definita neutralista. Lo è concretamente, quando diventa azione sul terreno. Per esempio c’è da chiederselo in modo esplicito quando la separazione tra Hezbollah e Israele viene svolta come una funzione notarile che non prevede il compito di impedire che il sud del Libano si trasformi di nuovo in un arsenale e, soprattutto, di sostenere gli equilibri politici a Beirut, contestati dai fondamentalisti. Ma lo è soprattutto per quanto riguarda la visione dei conflitti aperti nel mondo, in primo luogo quello che ha come bersaglio l’Occidente.

In questa visione è sempre più assente l’idea della difesa dei valori su cui si è fondata, dal 1945 in poi, la costruzione del maggiore spazio di benessere, di rispetto dei diritti e di sviluppo civile della storia dell’umanità, che è «il Nord del mondo». Valori cresciuti grazie alla deterrenza nei decenni del bipolarismo Usa-Urss, ma anche grazie ai due parametri fissati nel Novecento, quelli di Auschwitz e di Hiroshima.

Qui sta il vuoto nelle culture politiche delle sinistre italiane, definite attraverso il «mito dell’Onu» e l’ideologia del «multilateralismo». Possiamo anche non tener conto di una storia recente che ci dice che le Nazioni Unite sono soprattutto «una fabbrica di disastri», quando non di veri e propri crimini. Ma il punto centrale riguarda il presente e il futuro, ovvero il rischio di commettere un errore capitale: non saper leggere la natura del pericolo fondamentalista e scommettere sull’appeasement e su uno status quo impossibile.