Abilissima strategia Pechino seduce l’Africa

Cina_AfricaAvvenire, 4 febbraio 2007

Il presidente cinese per la terza volta nel Continente nero

Giulio Albanese

È ormai chiaro che l’Impero del Drago è partito senza scrupoli alla conquista dell’Africa, di quel continente che per secoli è stato la metafora stessa del colonialismo europeo. Il tour africano del presidente Hu Jintao è in effetti la conferma eclatante dell’indirizzo politico assunto da Pechino nel corso del recente vertice sino-africano, svoltosi nella capitale cinese lo scorso novembre.

Petrolio e rilancio degli scambi commerciali sono in cima alla fitta agenda del presidente cinese, per la terza missione nel continente dal suo insediamento nel 2003. Hu sta visitando l’Africa – otto Paesi in dodici giorni – con delle credenziali di tutto rispetto. Anzitutto va ricordato che tre mesi fa, durante il Forum di cooperazione sino-africano, aveva promesso che gli aiuti al continente sarebbero raddoppiati e non è un caso che alla vigilia della sua partenza abbia annunciato da Pechino l’impegno del proprio governo ad elargire tre miliardi di dollari di prestiti a condizioni di favore a vari paesi africani.

D’altronde la diplomazia cinese è ormai convinta di non avere concorrenti sulla piazza africana: il dato acquisito dell’interscambio commerciale con il continente, è bene rammentarlo, ha raggiunto i 55,5 miliardi di dollari nel 2006, il che significa che in cinque anni si sono più che quintuplicati. In questa prospettiva va rilevato che l’incessante sviluppo economico della Cina, con un prodotto interno lordo in crescita esponenziale, non significa solo concorrenza spietata per le imprese occidentali, ma anche l’espandersi di strategie geopolitiche nei confronti di un continente come l’Africa straordinariamente ricco di risorse minerarie, petrolio in primis.

Da rilevare che Pechino, essendo riuscito a realizzare un’alchimia fino a pochi anni fa impensabile – una sorta di sintesi tra capitalismo liberale e socialismo reale – offre ai governi africani, a differenza dei paesi occidentali, quella che il consigliere di Stato Tang Jiaxuan ha definito un binomio vincente: «l’uguaglianza e la mutua non interferenza». Pechino insomma propone un rapporto «paritetico» incentrato sul principio, tanto caro alla vecchia Organizzazione per l’Unità Africana (Oua), della non interferenza nei rispettivi affari interni.

Naturalmente i cinesi pongono le loro condizioni, prima tra tutte quella che gli alleati non intrattengano relazioni diplomatiche con la provincia ribelle di Taiwan; chiedono inoltre pieno sostegno alla loro delegazione in sede Onu. È chiaro che la politica di cui in questi giorni si fa araldo il presidente Hu preoccupa non poco le organizzazioni impegnate nella difesa dei diritti umani e la società civile più in generale perché non solo legittima certi regimi autoritari, ma acuisce a dismisura la corruzione delle classi dirigenti africane.

Ad esempio, le polemiche su un possibile “neocolonialismo” cinese imperversano in Sud Africa dove i sindacati si sono lamentati dell’effetto “devastante” delle importazioni di Pechino. Bisognerà vedere se alla prova dei fatti questa «diplomazia discreta», come l’hanno definita gli analisti occidentali, porterà i suoi frutti. Il rischio è quello dell’affermazione di una real politik che mistifichi l’agenda dei diritti umani in nome soprattutto del petrolio.

Va ricordato che il Sudan, proprio grazie agli stretti rapporti con il suo partner asiatico, ha aumentato l’estrazione giornaliera di greggio raggiungendo i 330mila barili, diventando il quarto fornitore di petrolio per la Cina, con un interscambio tra i due Paesi, durante i primi 11 mesi del 2006, di quasi 3 miliardi di dollari. Di questo passo, inutile nasconderselo, l’Africa cambierà presto colore: non sarà più nera ma gialla.