Dico: viva il pubblicano, abbasso il fariseo

BerlusconiDa “Libero” 21 febbraio 2007

di Antonio Socci

E’ giusto fare l’elogio degli “incoerenti”. Cioè di quei politici che da giorni sono bersagliati con sberleffi e insulti perché sono contro i Dico pur avendo una situazione familiare irregolare. Secondo me – e, come vedremo, secondo il pensiero cattolico – la loro “contraddizione” non è un motivo di “poca credibilità”, ma l’esatto contrario: è un argomento di maggiore credibilità, è una prova di maggiore serietà e responsabilità. Meritano ancora più stima di un politico che si schierasse contro i Dico avendo una situazione familiare perfettamente regolare (dal punto di vista cattolico).

Mi spiego. Si sente dire e si legge: i leader del centrodestra sono tutti separati, divorziati e risposati, come fanno a schierarsi contro i Dico e a dichiararsi paladini del valore della famiglia? Questa critica, politica e morale, è superficiale, totalmente sbagliata. E lo dico avendo “spazzolato” varie volte, su altri temi, i leader del centrodestra.

Anzitutto il valore sociale e civile della famiglia, riconosciuto dall’articolo 29 della Costituzione, riguarda tutte le famiglie, anche quelle formate con matrimonio civile o dopo un divorzio. Quindi un divorziato può riconoscersi in esso. In secondo luogo chi è eventualmente convivente, in una coppia di fatto, e si schiera contro i Dico mi pare ancora più credibile perché va contro un suo interesse immediato (casomai mi parrebbe conflitto di interessi il contrario). Dimostra grande senso di responsabilità quel politico che legifera perseguendo il bene del Paese anche andando contro il proprio.

In terzo luogo prova che chiunque, in qualunque situazione personale si trovi, può riconoscere l’assurdità giuridica dei Dico che danno il sigillo statale alla “famiglia gay” per garantire certi diritti individuali che si potevano già ottenere attraverso il Codice civile. Ma c’è dell’altro. Mi chiedo: per un cittadino (cattolico o laico che sia) è meglio essere governato da uno statista che fa leggi utili al Paese, segnatamente alla famiglia, pur avendo privatamente una situazione familiare complicata, oppure da uno statista che ha una famiglia da “Mulino bianco”, ma fa politiche devastanti contro le famiglie altrui e contro il Paese?

Romano Prodi – per dire – esibisce una famiglia idilliaca, ma come Capo del governo vara una Finanziaria per la quale – come recitava ieri “Libero” – “più la famiglia è numerosa, maggiore è l’aumento dell’Irpef”. Cosicché le famiglie che già si accollano il peso del futuro del Paese (e il futuro delle nostre pensioni) non solo non vengono aiutate, ma sono punite. Una vera concezione laica della politica esige che lo statista venga giudicato non per la propria vita privata, ma per le proprie scelte pubbliche. Un ministro non deve essere un maestro di vita, ma un buon amministratore e un buono statista.

Da uno statista si deve esigere che rispetti gli impegni presi con gli elettori: questa è la moralità della politica. E Prodi sta facendo l’esatto contrario. Peraltro la Chiesa ha sempre giudicato i politici per le loro scelte in relazione al bene comune e alla “libertas Ecclesiae”, non in base ai loro peccati personali dei quali si occupa nel confessionale. La Chiesa nella sua saggezza millenaria, sa anche che non esistono politici senza peccato, perché non esistono uomini senza peccato.

La Chiesa conosce bene l’uomo perché lo guarda con gli occhi di Cristo, il quale, duemila anni fa, di fronte a una donna scoperta in adulterio che la folla stava per lapidare, lanciò una sfida: “Chi è senza peccato scagli la prima pietra”. Dopo venti secoli siamo ancora in attesa di qualcuno che tiri quel sasso. E mi pare molto difficile che possano essere i politici del centrosinistra. Lo ripeto: difendo gli “incoerenti” del centrodestra, pur avendoli “mazziati” su altri aspetti della loro politica. La loro opposizione ai Dico, avendo alle spalle famiglie sfasciate, è più credibile non meno credibile.

Del resto – anche da un punto di vista morale – per un cristiano è doveroso fare l’elogio dei “pubblici peccatori”, che si riconoscono poveracci, e diffidare delle “persone perbene” che ostentano le proprie virtù private. Per un motivo molto semplice: perché così ha fatto Gesù. Sta scritto molto chiaramente nel Vangelo, è una pagina famosa e bellissima: “Gesù disse ancora questa parabola per alcuni che presumevano di esser giusti e disprezzavano gli altri: ‘Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano. Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: O Dio, ti ringrazio che non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano.

Digiuno due volte la settimana e pago le decime di quanto possiedo. Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: O Dio, abbi pietà di me peccatore. Io vi dico: questi tornò a casa sua giustificato, a differenza dell’altro, perché chi si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato’ ” (Luca 18, 10-14).

Peraltro la coscienza del peccato è un segno che l’anima non è morta, che è viva. Sono proprio i santi ad avvertire con più lucida drammaticità il proprio male. San Francesco si considerava il peggiore dei peccatori e questo non gli impediva di parlare di Cristo. A chi gli chiedeva perché così tanti si convertivano, sentendolo predicare, rispondeva: “li occhi santissimi di Dio non hanno veduto fra i peccatori nessuno più vile, né più insufficiente, né più grande peccatore di me, e però a fare quella operazione meravigliosa la quale Egli intende di fare, non ha trovato più vile creatura sopra la terra… E perciò ha eletto me per confondere la nobiltà e la grandigia e la fortezza e bellezza e sapienza del mondo, acciocché si conosca ch’ogni virtù e ogni bene è da Lui, e non dalla creatura e nessuno si possa gloriare nel cospetto suo”.

Dice un personaggio di Bruce Marshall che “nel Medioevo la gente era cristiana anche nel peccato: il timore di essere accusata di ipocrisia non la faceva cadere nell’errore di credere nella propria virtù”. Oggi invece, aggiungeva Marshall, “quasi tutti pensano che i loro peccati li abbiano privati del diritto di credere”. E questo è il grande errore. Nasce da qui anche la critica moralista che si abbatte sul clero. E’ una storia antica. Eppure i sacramenti restano egualmente efficaci anche amministrati da sacerdoti indegni.

Nelle “Osservazioni sulla morale cattolica”, Alessandro Manzoni scriveva: “è necessario che molti, che tutti predichino una morale superiore ai loro fatti. Il ministero fa che uomini deboli e che in fatto cedono talvolta alle passioni, predichino una morale austera e perfetta. Nessuno può tacciarli di ipocrisia, perché parlano per missione e per convincimento, e confessano implicitamente e talvolta esplicitamente d’essere lontani dalla perfezione che insegnano Accade purtroppo talvolta che la predicazione discende al livello dei costumi, ma questo è un inconveniente”.

La vera purezza consiste nel restare certi ed entusiasti della Verità a prescindere da come la si vive, senza scandalizzarsi dei peccati propri o altrui. L’entusiasmo con cui gli amici di Gesù parlavano di lui ai quattro venti non era affatto delegittimato dai loro limiti, dalle loro paure e dai loro peccati. Nel “Processo a Gesù” di Diego Fabbri, san Pietro parla con appassionata commozione di Gesù e quando gli rinfacciano di averlo tradito, l’apostolo risponde: “se non sai che si può amare e tradire, che uomo sei?”. L’uomo autentico ama il Vero più di se stesso e non riduce la Verità alla misura dei propri limiti. Questo è il cattolicesimo.