Zanussi: il mio cinema e la morte

Krzysztof Zanussi

Krzysztof Zanussi

tratto dalla rivista Ciemme n.151

Da “Morte di un padre provinciale” a “Persona non grata” le riflessioni di un grande maestro su un tema oggi censurato

Krzysztof Zanussi

Mi chiedete di parlarvi del tema della morte, di come lo percepisco, di come ho pro­vato a esprimerlo e dell’evoluzione presente a questo riguardo nei miei film. Credo di non essere nella posizione migliore per rispondere, perché non sono un osservatore attento del mio lavoro. Noi artisti siamo così egocentrici che, per ragioni di igiene morale, dobbiamo fuggire dal passato, guardare il futuro e mai dietro le spalle. Non so che cosa ho fatto, non lo ricordo, voglio dimenticare tutto, iniziare da zero e fare il prossimo film. Perciò non posso seguire la mia evoluzione.

C’è però qualcosa che posso condividere con voi perché, data l’età, posseggo un elemento autobiografico forte, del tutto estraneo alle nuove generazioni. Io sono stato infatti un bambino di guerra, e mi sono trovato, ancora molto giovane, in contatto stretto con la morte. C’è qualcosa di paradossale in questa esperienza. Vi racconto un episodio.

Dopo il fallimento dell’insurrezione di Varsavia, nel 1944. ci fu un rastrellamento e, con mia madre, sono stato preso per essere condotto in un campo di concentramento tedesco. Mia madre, che era una persona molto coraggiosa, mi buttò dal treno in corsa e poi saltò lei stessa. Ecco, voi mi vedete qui, ma potrei non esserci. E la domanda rimane sempre viva in me: perché io sono sopravvissuto?

Ma la cosa più aneddotica che ricordo, in quella Varsavia rasa al suolo, completamente distrutta, è il bombardamento col napalm di una birreria, in cui c’erano dei grandi cavalli per il trasporto della birra. Quei cavalli, colpiti dal napalm, correvano coperti di fuoco, mentre noi, in fila scortati dai nazisti, andavamo alla stazione. La corsa dei cavalli in fiamme è rimasta in me come l’immagine più terribile della guerra. Molti anni dopo vidi la celebre Giraffa infuocata di Salvador Dalì e ne fui scarsamente toccato: la giraffa in fiamme era una cosa poco seria, il cavallo in fiamme, quello sì, per me era veramente terribile!

Un cavallo visto dalla prospettiva di un bambino è una cosa enorme, un centauro pazzo di terrore che non capisce quello che sta accadendo e non può spegnere il fuoco, perché il napalm non si può estinguere. Questo ricordo un po’ spettacolare mi ha segnato più di ogni altro. Leggendo Freud, ho capito che le sue intuizioni relative al materiale onirico sono commisurate a un certo periodo storico: i miei incubi sono completamente diversi, non assomigliano a nulla di quanto egli ha descritto, forse perché la generazione alla quale appartengo ha vissuto esperienze diverse.

È vero che in tutti i miei film il motivo della morte è presente. Poiché è una storia piuttosto divertente, posso raccontare come ho vinto il mio primo Leone, a Venezia. Si trattava del Leone d’argento per il cortometraggio, ottenuto grazie al film di diploma, per la scuola di cinema di Lódz, girato nel 1966. Alla scuola ebbi qualche problema perché volevo fare cinema di testa mia, fui perfino espulso per un certo periodo, poi tornai e, al momento di girare il film per diplomarmi, compresi che poi sarei stato libero, che la scuola non avrebbe più potuto influenzare la mia vita. Così mi misi al lavoro con uno scopo molto semplice e immediato, in fondo privo di grande importanza – come spesso accade nella vita.

C’era un problema in particolare, un problema di natura tecnica, che volevo risolvere. Cerco di spiegarvi. Il mio lavoro precedente non era piaciuto per niente ai docenti della scuola. Si trattava di un film in cui cercavo di imitare la Nouvelle vague. Ero andato in Francia come studente e avevo visto per la prima volta i miei futuri grandi colleghi: Claude Chabrol, Jean-Lue Godard, Francois Truffaut. Una volta ritornato, avevo fatto un film con camera a mano, lavorando sull’improvvisazione della gente. Certo come lavoro scolastico era un po’ provocatorio, infatti i membri della scuola di Lódz ne furono molto irritati.

Mi dissero che il lavoro non era professionale e che alla scuola non avevo imparato nulla. «Lei viene dal cinema amatoriale e vuole tornarci, per cui se ne vada dalla scuola, dal momento che non sarà mai un professionista!» . Mi misero di fronte all’alternativa: lasciare la scuola o ripetere l’anno. Era una punizione severa, forse ingiusta, ma c’era un elemento di verità nella loro critica: il suono. Non esisteva ancora, infatti, il sonoro in presa diretta e doppiare i dialoghi improvvisati è una cosa impossibile – oltre che bruttissima. In breve: il sonoro del mio film era un improponibile fracasso.

Ecco dunque il problema che avevo per presentare il nuovo lavoro. Come fare un film d’impatto, dal momento che volevo realizzarlo in modo documentario e non potevo registrare i dialoghi? Ci voleva un luogo dove non si parlava. Così mi venne in mente un monastero. Realizzai allora un film di mezz’ora, senza una sola parola perché i monaci restano in silenzio. Il protagonista è uno studente impegnato a valutare il patrimonio artistico del convento, che deve essere sottoposto a restauro. È un laico, pieno di vita, che si sente soffocare in quell’ambiente silenzioso, anche se viene attratto dalla figura di un vecchio monaco. Quando questi si trova sul letto di morte, il giovane spera di cogliere un messaggio, una parola che rompa il silenzio. Ma il frate spira senza riuscire a parlare. Cosa volesse dirgli, resta un mistero.

A scuola il mio professore, uomo molto intelligente, vedendo il film finito, mi disse: «Ci saranno dei guai!». In effetti, per le autorità comuniste, un film ambientato in un convento era inaccettabile nel 1966. Allora, per prima cosa, il professore mi chiese di cambiare il titolo previsto, che era La morte di un abate. Egli disse: «No, “abate” accende la spia rossa della censura sulla scrivania di qualsiasi funzionario. Evoca immediatamente la religione, dunque bisogna cambiarlo». «Allora mettiamo “monaco”», risposi. Ma era ancora peggio…

Cercando possibili alternative, scoprii che nel monastero esisteva una funzione, quella del padre provinciale, praticamente sconosciuta al mondo laico. Era quello che serviva. Il film in italiano si intitola La morte di un padre provinciale, ma il titolo originale, Smierc Pmwincjala, significa semplicemente “morte di un provinciale” e, per gli impiegati del partito, ciò non significava nulla. Pensarono a un uomo di provincia, senza considerare che si tratta anche un titolo ecclesiastico: in questo modo il film passò la censura. Il professore mi diede poi un ottimo suggerimento: «Visto che il film potrebbe causare problemi – mi disse – mandiamolo subito a Mosca!».

A Mosca si svolgeva un concorso di opere scolastiche, finanziato dall’Organizzazione leninista Sovietica. Nel 1967, vi partecipai dunque con Smierc Prowincjala. Una seconda copia fu mandata in Germania per il festival di Mannheim. Così, nel giro di una settimana, ricevetti due premi: un riconoscimento ecumenico a Mannheim, per il valore spirituale del film, e un riconoscimento per il suo messaggio ateo, a Mosca. Come fu possibile? Semplicemente perché non ci sono parole e l’immagine può essere interpretata come si vuole. Il premio di Mosca era molto importante e fui contento di averlo ricevuto. Per qualche tempo, mi avrebbe garantito un buon alibi.

Anni dopo, chiesi ai membri della Scuola Superiore del Cinema di Mosca (dove sono attualmente professore e dottore honoris causa) se ricordassero la motivazione che li aveva indotti a premiarmi e risposero: «II messaggio era lampante. La morte del vecchio monaco rappresenta la morte della religione, il giovane invece è vivo, non è credente e così tutto si spiega: è un film ateo». Con questa spiegazione riuscii ad accettare l’assurdità del mondo. Da allora ho sempre avuto modo di vedere che l’interpretazione, soprattutto quando c’è di mezzo un interesse ideologico, diventa incontrollabile: la gente cerca ciò che vuole, ciò che conosce già, e se lo trova, va tutto bene.

Il tema della morte è una costante nei miei film più importanti. Penso per esempio a La spirale (1978), un film che è in qualche modo una riduzione all’assurdo: la storia di un uomo, malato terminale, che vuole suicidarsi per compiere un gesto di libertà. Egli rifiuta la condanna che implica la sua malattia e, affrettando i tempi della sua scomparsa, vuole in qualche modo esprimere una scelta. È un film che chiama in causa il nostro modo di essere. Non c’è alcun riferimento a Dio – non era possibile all’epoca – ma credo che questa assenza sia pregna di metafisica.

In generale, il tema della morte attraversa la mia opera perché sono costretto a pensare che la mia vita ha un termine, mentre la cultura odierna tende a nascondere la nostra mortalità. Questo fatto mi pare rappresenti una mancanza di coraggio da parte dell’uomo moderno, che si protegge con tutti i mezzi, con la tecnologia e le ricchezze, per nascondere la realtà.

Avendo studiato per alcuni anni la fisica, mi capita di considerare il funzionamento dei nostri personal computer, e noto come i programmi che utilizziamo ci mettono in condizione di eludere qualunque intervento irreversibile. L’irreversibilità è un attributo della morte, non si può fare un passo indietro. Nella piattaforma di Windows, invece, nulla è decisivo, si può sempre tornare da capo. Il computer è un’educazione permanente all’irresponsabilità. Quando si fa il montaggio cinematografico alla vecchia maniera, su celluloide, si può sbagliare il taglio, ma rimediare richiede tempo, costa qualcosa. Il computer suggerisce che niente costa, che tutto è libero e le decisioni possono sempre essere rivedute.

Ebbene, nella vita non è così. Evidentemente non si tratta di fare un processo a Microsoft per questo, il punto è un altro. Si tratta di capire cosa nasconde un certo modo di operare, capire e accettare cosa c’è dietro questi processi.