C’è cibo per tutti. Senza rinunce dell’Occidente

cibo_AfricaIl Timone n.143 maggio 2015

Ci dicono che dovremmo ridurre i consumi e fare beneficenza con quanto risparmiato. Ma la produzione alimentare globale è in grado di soddisfare il fabbisogno di tutta l’umanità. Semmai, lo spreco annuo è di 1,3 miliardi di tonnellate di prodotti commestibili. Ma non serve regalare il pesce, bisogna insegnare a pescare

di Anna Bono

La preoccupazione che la Terra non fosse più in grado di produrre cibo a sufficienza per una popolazione moltiplicatasi troppo e in costante aumento ha pervaso gran parte della seconda metà del XX secolo, allorché la crescita demografica sembrava il problema forse più grave a cui l’umanità dovesse far fronte nei decenni a venire.

Il mito della bomba demografica smontato

L’evidenza ha gradualmente ridimensionato l’allarme, che tuttavia viene talvolta rilanciato, per motivi ideo­logici o semplicemente per mancanza di conoscenze sulla questione. Dal 1990 ad oggi il numero di persone che non mangiano a sufficienza è diminuito di 209 milioni, scendendo a 805 milioni. È pur sempre un numero enorme ed una questione gravissima, ma si tratta di un notevole progresso, di cui si capisce meglio la portata se si guarda all’incremento demografico verificatosi nel frattempo: gli abitanti del pianeta nel 1990 erano infatti 5,3 miliardi e adesso sono 7,3 miliardi, il che porta in termini relativi il numero di persone affamate dal 18,7% all’ 11,3%.

La produzione alimentare globale, in realtà, è tale per quantità e varietà da poter soddisfare il fabbisogno di tutta l’umanità, adesso e nei prossimi anni almeno. Anche senza consultare grafici e scorrere pagine di cifre, a dimostrarlo basta la controprova fornita dai dati della più recente ricerca sullo spreco di cibo nel mondo, Perdite e sprechi alimentari globali, svolta nel 2011 dall’Istituto svedese per l’alimentazione e la biotecnologia per conto della Fao.

La ricerca ha rivelato che ogni anno vanno sprecate 1,3 miliardi di tonnellate di prodotti commestibili – 670.000 milioni nei paesi industrializzati e 630.000 in quelli in via di sviluppo – equivalenti a un terzo della produzione mondiale. Secondo gli autori del Protocollo di Milano sull’alimentazione e la nutrizione, elaborato dal Barilla Center for Food and Nutrition e presentato nel 2013 in vista dell’Expo Milano 2015, si tratta di un ammontare pari a quattro volte la quantità di cibo necessaria a nutrire tutte le persone – all’epoca 868 milioni – che ancora non mangiano a sufficienza.

Il problema è il divario nella capacità produttiva

Non perché manchi il cibo, quindi, c’è chi patisce la fame. Piuttosto il problema, come indicano altri dati, sta in un forte divario nella capacità produttiva delle varie aree geografiche. A livello mondiale, dal 1950 i raccolti alimentari sono complessivamente triplicati e, seppur meno che in passato, hanno continuato a crescere anche negli ultimi anni, garantendo, come si è detto, una quantità di cibo di gran lunga eccedente rispetto alla domanda e alle necessità.

Ma questi progressi non si devono a un incremento uniforme della produzione, bensì ai risultati straordinari raggiunti in alcune regioni del pianeta in cui la produzione supera ampiamente il fabbisogno. In compenso, ci sono regioni in cui la produzione agricola non basta a garantire la sopravvivenza di chi ci abita.

Le attività più produttive sono quelle praticate negli stati industrializzati dove gli agricoltori si avvalgono di tecnologie avanzate: meccanizzazione del lavoro, impianti di irrigazione, fertilizzanti, antiparassitari… Lì, la percentuale di persone sottoalimentate è costante da decenni intorno al 5%, molto al di sotto di quella mondiale.

Anche in alcuni stati emergenti la progressiva acquisizione di tecnologie moderne, ad esempio dove è stata attuata la “rivoluzione verde”, ha consentito significativi incrementi produttivi che si riflettono nel calo della percentuale di persone affamate: dal 23,7% al 12,7% in Asia e dal 15,3% al 6,1% nell’America Latina e nell’area caraibica. Invece, nei paesi in via di sviluppo i progressi sono stati e continuano a essere lenti e irregolari, con casi e periodi di calo produttivo.

Quei paesi ospitano la stragrande maggioranza – 709 milioni – delle persone denutrite, pari al 13,5% della loro popolazione: una percentuale che sale al 20,5% in Africa e di più ancora nelle regioni subsahariane dove tuttora più di una persona su quattro è sottoalimentata.

Nel rapporto della Fao sullo spreco di cibo si legge che la produzione alimentare dell’Africa subsahariana ammonta a circa 230 milioni di tonnellate, poco più del cibo che nei paesi industrializzati i consumatori acquistano e poi gettano via, stimato intorno a 222 milioni di tonnellate. In termini di spreco, 222 milioni di tonnellate sono una cifra enorme. Ma, in termini di produzione, quella di quasi un intero continente abitato da un miliardo di persone, e tanto più se rapportata alla produzione mondiale, 230 milioni di tonnellate sono una cifra incredibilmente bassa.

La soluzione non è la beneficienza

Questi dati ci dicono che la lotta alla fame si decide soprattutto in Africa e confermano che va combattuta intervenendo sugli squilibri nella produzione più che su quelli nei consumi. Quest’ultima sarebbe una considerazione ovvia se ideologie di successo non avessero dirottato per decenni l’attenzione proprio dalla produzione ai consumi, cioè affermando che gli occidentali dovrebbero ridurre i loro consumi e fare beneficenza con quanto risparmiato.

Ma quei 222 milioni di tonnellate di generi alimentari gettati nella pattumiera nei paesi industrializzati, ad esempio, se portati in Africa, quasi raddoppierebbero la quantità di cibo disponibile del continente e già questo basterebbe per nutrire tutti gli africani.

Quante volte ci è stato detto che «basterebbe rinunciare a una tazzina di caffè al giorno per salvare un bambino africano»: una rinuncia da poco, un minimo atto, oltre tutto doveroso se fosse vero – ma non lo è – che nei paesi in via di sviluppo centinaia di milioni di persone soffrono la fame perché sono depredate, impoverite, sfruttate dai paesi ricchi, nei quali – secondo l’accusa – confluiscono l’80% delle risorse del pianeta per essere consumate e godute dal 20% della popolazione mondiale: in realtà quel 20% di popolazione produce l’80% delle risorse globali.

L’esempio della tazzina di caffè illustra il limite di un’ottica assistenziale, redistributiva, che immagina di sanare il problema della fame riducendo consumi e sprechi nei paesi industrializzati e moltiplicando gli aiuti a quelli in via di sviluppo.

Le campagne per la “rinuncia” finiscono per affamare di più

Mentre, infatti, con il denaro risparmiato bevendo una tazzina di caffè in meno, si salva un bambino di un paese in via di sviluppo, altri se ne mettono in pericolo, magari proprio in quello stesso paese, che i genitori riescono a sfamare grazie al fatto di lavorare nelle piantagioni di caffè e di zucchero e ai quali un calo nella domanda internazionale di quei prodotti potrebbe far perdere il lavoro.

Nè si può dire sconfitta o ridotta la fame se è grazie ad apporti esterni – aiuti umanitari, rimesse di emigranti – che migliorano le condizioni di vita di una popolazione, a meno che ad essi si associ un processo di crescita economica e di sviluppo umano.

In una diversa prospettiva, la fame si combatte, seguendo modelli di provata efficacia, con la crescita economica, l’aumento dell’occupazione, la moltiplicazione delle attività produttive, l’industrializzazione, l’ampliamento dei settori economici moderni: affinché un numero crescente di persone e di famiglie diventino autosufficienti, sempre più capaci di provvedere da sole ai propri bisogni, e i governi dispongano di bilanci sufficienti a fornire servizi e infrastrutture.

Il progetto è ben sintetizzato dalla nota frase di Muhammad Yunus, l’economista bengalese inventore del microcredito, premio Nobel per la pace 2006: «non serve regalare il pesce, bisogna insegnare a pescare»

Le potenzialità dell’Africa

In Africa, dove si gioca la battaglia più importante, le premesse sembrerebbero ottime. Il continente dispone di risorse umane e naturali straordinarie. Con quasi 200 milioni di persone di età compresa tra 15 e 24 anni, ha la popolazione più giovane del mondo. Il 42% dei giovani tra 20 e 24 anni ha ricevuto un’istruzione secondaria: si tratta di un capitale umano immenso se messo a frutto e orientato verso i settori economici produttivi.

Ma i dati possono trarre in inganno. Le statistiche relative alla scolarizzazione registrano il numero di iscrizioni. Altra cosa è l’effettiva frequenza scolastica da parte degli allievi e la preparazione che ricevono tenuto conto della composizione delle classi (60 studenti è grosso modo la media e non sono insolite classi anche di 150 allievi) e del fatto che persino la presenza costante degli insegnanti non sempre è garantita. In Mozambico, ad esempio, dati recenti indicano che la frequenza alle scuole primarie cresce in media dell’8% all’anno: dal 2003 al 2010 il numero di alunni è passato da 3,3 a 5,3 milioni. Ma in media le lezioni si svolgono soltanto per 30 giorni sui 193 dell’anno scolastico.

Carente a dir poco, in quasi tutto il continente, è anche il settore sanitario, così importante per garantire generazioni di giovani indipendenti, in grado di assumere ruoli sociali ed economici. L’epidemia di ebola ne ha evidenziato i limiti d’altra parte ben noti, nonostante oltre mezzo secolo di cooperazione internazionale che molto ha fatto per supplire ai mancati interventi statali.

Quanto alle risorse naturali, davvero immense, da potenziale volano di sviluppo quali sono, in Africa spesso diventano una “maledizione” – quanti gli esempi, dal rame ai diamanti, dal petrolio all’uranio -, perché scatenano lotte cruente, che degenerano facilmente in guerre civili su base tribale, per il controllo delle istituzioni politiche che il malgoverno e la sfrenata, endemica corruzione trasformano in meri mezzi per accedere alle ricchezze nazionali e usarle come fossero proprietà personale di chi di volta in volta detiene il potere.

Allora il grosso del profitto derivante dall'”aver imparato a pescare” si perde in sprechi, dirottato in conti bancari privati, spesso in deliranti ostentazioni di lusso, di status, a beneficio di pochi: il vero sfruttamento, la vera economia di rapina che impoverisce, vanificando i progetti pensati per sradicare definitivamente la povertà, è quella. Anche insegnare a pescare il pesce in queste condizioni diventa inutile.

Per saperne di più…

FAO, The State of Food Insecurity in the World 2014.

Dambisa Moyo, La carità che uccide, Rizzoli 2010.

Muhammad Yunus, Un mondo senza povertà, Feltrinelli 2008.

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