Cibo “buttato”

cibo buttatoLa Roccia n.3 maggio-giugno 2015

Una pratica diffusa non solo in Occidente, ma addirittura nei Paesi poveri in via di sviluppo. Cifre incredibili ma indicative di qualcosa che forse potremmo correggere.

 di Anna Bono

«Sprecare il cibo equivale a rubare al tavolo dei poveri e degli affamati». Con queste parole, pronunciate il 5 giugno 2013 in occasione della giornata mondiale dell’ambiente, papa Francesco commentava i più recenti dati relativi allo spreco di cibo nel mondo: «Un fenomeno – aveva aggiunto il Pontefice – tanto più spregevole se si considera che purtroppo sulla Terra molte persone e molte famiglie patiscono fame e malnutrizione».

Che non tutto il cibo prodotto venga consumato è un fatto universalmente noto, ma non tutti forse si rendono conto dell’entità effettiva dello spreco. I dati e le cifre più completi sul fenomeno risalgono al 2011. L’anno precedente l’Istituto svedese per l’ali­mentazione e la biotecnologia di Goteborg era stato incaricato dalla FAO, l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura, di svolgere una ricerca sullo spreco di cibo nel mondo. I risultati dell’indagine sono stati pubblicati in un rapporto intitolato “Perdite e sprechi alimentari globali”, presentato in occasione del congresso internazionale Save the food! (Risparmia il cibo!), organizzato dalla FAO e dalla Interpack 2011 e svoltosi nel maggio del 2011 a Dusseldorf, in Germania.

1/3 dei cibo viene sprecato

Si stenta a crederlo: ogni anno circa un terzo del cibo prodotto per il consumo umano va sprecato. Si tratta di circa 1,3 miliardi di tonnellate di derrate, perse in una delle fasi che costituiscono la catena alimentare, dalla coltivazione (e allevamento) al consumo. La ricerca è stata condotta distinguendo prodotti di origine vegetale e animale (ulteriormente divisi: cereali, frutta e verdura, latticini, carne, pesce…) e individuando nella catena alimentare cinque fasi: la produzione agricola, l’insieme costituito da raccolto, trasporto e immagazzinamento, la lavorazione, la distribuzione e il consumo.

I ricercatori hanno inoltre operato una distinzione classificando come “perdita di cibo” tutto ciò che di commestibile va perduto durante la produzione, il raccolto, le fasi immediatamente successive al raccolto e la lavorazione, e come “spreco di cibo” gli alimenti gettati nella fase della vendita al dettaglio e durante gli stadi finali del consumo, a causa delle scelte e dei comportamenti di commercianti e consumatori.

Anche i poveri sprecano

Infine sono state individuate nove aree geografiche, calcolando per ciascuna perdite e sprechi. È grazie a quest’ultima organizzazione dei dati che è emersa una realtà ina­spettata. Sembrerebbe ovvio che quello del cibo sciupato – sia esso perso o sprecato – sia un fenomeno che si verifica solo o quasi unicamente nei Paesi industrializzati, nei quali il cibo abbonda e la produzione alimentare è tale da superare talvolta la domanda, al punto che interi raccolti vengono distrutti invece di essere immessi sul mercato.

Invece succede anche nei Paesi in via di sviluppo e in proporzioni enormi. Il totale di 1,3 miliardi di tonnellate si divide infatti come segue: circa 670.000 tonnellate dissipate nei Paesi industrializzati e 630.000 nei Paesi in via di sviluppo. Sensibilmente diverso, però, è il peso di perdite e sprechi.

Nei Paesi industrializzati gli sprechi, nel corso della commercializzazione e dopo l’acquisto da parte dei consumatori, incidono per il 60% e le perdite, nelle fasi prece­denti, per il 40%. Nei Paesi in via di sviluppo la situazione si capovolge: le perdite, dalla produzione alla lavorazione, ammontano al 60% e gli sprechi imputabili al commercio al dettaglio e al consumo finale contano per il 40%.

Nei Paesi industrializzati, come si è detto, succede che la produzione superi il fabbisogno: una parte dei raccolti allora viene distrutta oppure venduta come cibo per animali. Un altro fattore che determina perdite di cibo è dato dagli standard di qualità: i prodotti che non li soddisfano – per peso, dimensione, forma o perché durante la lavorazione e il trasporto hanno subito danni – non raggiungono i mercati. Le rigorose date di scadenza inoltre comportano altre rilevanti perdite.

Quanto agli sprechi, si devono sostanzialmente al fatto che la maggior parte delle persone si possono permettere, per reddito, e considerano lecito, per educazione e formazione, acquistare cibo in quantità e varietà superiori al fabbisogno effettivo. Al contrario, nei Paesi in via di sviluppo larghi strati di popolazione non si possono permettere di buttare via niente, tanto meno il cibo. Ne acquistano piccole quantità, spesso solo lo stretto necessario per il consumo quotidiano, e le utilizzano tutte.

In compenso, grandissime quantità di prodotti vanno perdute per cause diverse: impiego di tecnologie inadeguate, sia nella fase della produzione che in quella della lavorazione dei prodotti, scarsità di insetticidi e concimi, di silos, granai e magazzini in grado di proteggere i raccolti da insetti, parassiti e agenti atmosferici, infrastrutture – strade, ferrovie – inadeguate, che non consentono un rapido e regolare trasporto dei generi alimentari, difetti, sempre per mancanza di tecnologie moderne, nella confezione e nell’imballaggio, che ne compromettono la conservazione, costringendo a disfarsene, a meno che fame e ignoranza del pericolo, non inducano a mangiarli ugualmente, rischiando intossicazioni, avvelenamenti e malattie.

A questi fattori di perdita si aggiungono, in molti Stati, soprattutto africani, i danni derivanti dai conflitti armati che costringono milioni di persone ad abbandonare raccolti e bestiame di cui nessuno più si cura. Altri beni alimentari vanno perduti nella distruzione di negozi, magazzini, case e raccolti, dati alle fiamme e devastati.

Tanto ingenti quantità di cibo inutilizzato, oltre a porre inevitabili interrogativi morali, comportano danni economici, dispendi superflui di energia, di risorse umane e naturali – acqua, terreni fertili, carburanti… – e costi notevoli in termini di smaltimento dei rifiuti (non solo derrate alimentari, ma anche confezioni, imballaggi…). Oltre a ciò, nei Paesi poveri, in via di sviluppo, accrescono povertà, malattie e conflittualità so­ciale, aggravando i problemi di sopravvivenza di centinaia di milioni di persone.

LE CIFRE DELLO SPRECO

Nei Paesi industrializzati lo spreco di cibo imputabile all’incuria dei consumatori è quasi pari alla quantità totale netta di cibo prodotto nell’Africa subsahariana: rispettivamente 222 e 230 milioni di tonnellate.

Il cibo sprecato al consumo, dopo l’acquisto al dettaglio, in Africa subsahariana e in Asia meridionale e sudo-rientale va da sei a undici chilogrammi all’anno per persona, mentre in Europa e in America Settentrionale oscilla tra 95 e 115 chilogrammi.

In Africa subsahariana e in Asia meridionale e sudorientale la produzione di cibo annua è di 460 chilogrammi per persona, 120-170 dei quali vanno perduti.

In Europa e in America Settentrionale la produzione di cibo annua per persona è di 900 chilogrammi, con una perdita di 280-300 chilogrammi.

Nell’Unione Europea, secondo stime aggiornate al 2014, sono più di 100 milioni le tonnellate di cibo inutilizzato ogni anno.

Se nulla verrà fatto per rimediare, nel 2020 saranno circa 126 milioni di tonnellate.