Le radici del Sessantotto italiano

anni_60Studi Cattolici n.551 gennaio 2007

Resoconto del convegno su «Milano e l’italia dal centrismo al Sessantotto. La preparazione di una rivoluzione nella cultura e nel costume» che si e tenuto il 30 novembre e il 1 dicembre 2006 alla Cattolica

di Giuseppe Brienza

Un altro «ventennio» si profila nella storiografia politica e culturale dell’Italia del Novecento. Si tratta di quello clic, nonostante il «centrismo» degasperiano, viene fatto partire dal dopo-elezioni del 18 aprile 1948 ed è caratterizzato in misura crescente dall’instillarsi nella società italiana di tali e tanti fattori di

secolarizzazione e laicismo che alla fine non potranno che esplodere nella rivoluzione culturale del Sessantotto con conseguenze che durano ancora oggi. A sostenere questa tesi sono stati studiosi di varie discipline nel convegno su «Milano e l’Italia dal centrismo al Sessantotto. La preparazione di una rivoluzione nella cultura e nel costume», organizzato dall’Istituto storico dell’Insorgenza e per l’Identità nazionale (Isiin), in collaborazione con l’Università Cattolica del Sacro Cuore e con l’Università degli Studi di Milano, che si e tenuto il 30 novembre e il 1 dicembre 2006 nella sede dell’Ateneo fondato da padre Agostino Gemelli.

Due sono le chiavi interpretative di molti degli interventi (in totale venti) che si sono succeduti nelle quattro sessioni in cui è stato articolato il convegno (gli Atti saranno pubblicati dalle edizioni Ares nel corso di quest’anno). La prima si rinviene nella parola stessa scelta per il titolo: «preparazione». Il Sessantotto, in Italia come altrove, e analogamente a tutti i processi rivoluzionari moderni, non va infatti interpretato come un’esplosione estemporanea, ma è piuttosto il frutto di un lungo, a tratti quasi impercettibile ma comunque profondo, processo di «seminagione», nel nostro Paese operato dalle forze laiciste, d’impronta massonica, socialista o vetero femminista, spalleggiate, promosse o solo appoggiate (a seconda dei casi) dal Partito comunista italiano.

La seconda chiave di lettura è strettamente legata alla prima. Al fine di identificare i fattori più efficaci all’origine dei nostri sconvolgimenti pre e post sessantottini, si è sostenuto infatti durante il convegno, occorrerebbe cercare anche in «motori endogeni», oltre a quelli internazionalmente provenienti dalle università americane, dal maggio francese, ccc.

Uno dei maggiori fattori di «attecchimento» del ’68 nel nostro Paese, quindi, come ha sottolineato nel suo intervento Giovanni Orsina (cfr «Le associazioni studentesche negli anni Cinquanta e Sessanta») andrebbe individuato «non solo ai margini o nell’inadeguatezza del sistema politico repubblicano, ma anche nel suo cuore ideologico – l’anima radicale che esso acquisisce fin dalle sue origini nella lotta di liberazione e nella Costituente, e il riemergere di quell’anima all’indomani della “parentesi” centrista e in concomitanza con la genesi del centro-sinistra».

Mutamenti culturali & di costume

«La secolarizzazione è la protagonista di quegli anni», ha commentato nella sua relazione intro-duttiva Marco Invernizzi. presidente dell’Isiin. «Con il Sessan-totto si renderà palese, ma le sue radici affondano nel ventennio precedente alla contestazione». Uno degli aspetti più interessanti del convegno, e stato quindi quello di analizzare i mutamenti culturali e di costume intervenuti fra il 1948 e il ’68, e ciò nell’ambito dei nascenti mezzi di comunicazione di massa (si vedano gli interventi: «L’influenza del “quarto potere” nei cambiamenti di costume», di Aldo Alessandro Mola; «Pregi e limiti del progetto culturale della Rai delle origini», di Armando Fumagalli; «Chiesa, cattolici e comunicazioni sociali», di Francesco Bonini), della vita «interna» ed «esterna» delle comunità familiari italiane, che stava andando incontro a profondi mutamenti (cfr la mia relazione su «Le origini della disgregazione della famiglia italiana negli anni ‘60» e quella di Roberto Marchesini su «Origini e primi sviluppi della rivoluzione sessuale»), e infine nelle dinamiche di quel mondo cattolico che, già investito da fremiti di rinnovamento, faceva presagire anche incipienti crisi (ne hanno parlato: Luca Pignataro, «La vita interna al mondo cattolico. Le crisi nell’Aci negli anni Cinquanta», Maria Bocci, «Un problema di identità? Alle origini della contestazione studentesca in Università Cattolica», e infine mons. Ennio Apccili, «L’insegnamento di Giovanni Battista Montini: il Concilio Vaticano II dalla cattedra di sant’Ambrosio a quella di San Pietro»).

L’Italia e i Paesi occidentali si caratterizzano sempre più durante questo «ventennio» per un modo di vivere contrassegnato dal secolarismo e da quel fenomeno che il magistero della Chiesa chiamerà «materialismo pratico», per distinguerlo dal materialismo teorico e «scientifico» proprio della dottrina marxista. «Più che la secolarizzazione», ha spiegato Invernizzi, «allora è venuto fuori il secolarismo: la convinzione che la religione sia un fatto rigorosamente privalo e non debba avere nessuna attinenza con la vita pubblica. Si è passali così da un supposto e in qualche caso reale clericalismo a un laicismo radicale. È stata questa la vera rivoluzione culturale che ha cambiato i connotati di una generazione: vivere prescindendo dall’esistenza di Dio. Agire come se Dio non ci fosse. O se c’è, è un fatto mio personale: Dio non c’entra quando taccio politica, quando insegno, quando decido che tipo di educazione dare ai miei figli».

Il diffondersi del laicismo nel mondo cattolico determina nei primi anni ‘60 una decisa reazione dei vescovi italiani. A questo proposito sarebbe di grande utilità, non solo storica, la lettura e l’analisi del documento della Conferenza episcopale italiana sul laicismo, pubblicalo il 25 marzo 1960 come «Lettera collettiva» su spinta dell’allora presidente cardinal Giuseppe Siri, intitolato: Il laicismo. Lettera dell’episcopato italiano al clero (è oggi reperibile nell’Enchiridion della Conferenza Episcopale Italiana. Decreti, dichiarazioni, documenti pastorali per la Chiesa italiana, vol. I. 1954-1972, Edizioni Dehoniane. Bologna 1985, pp. 76-95).

Ne ha offerto una acuta presentazione Francesco Pappalardo (efr «L’analisi del laicismo in una pastorale dei vescovi italiani del 1960»), sottolineando la lucida descrizione della mentalità corrente dell’Italia del «boom economico» offerta dai vescovi italiani, che ne denunciano la «concessione a un edonismo sempre più esasperato; la sopravvalutazione esclusiva dei valori economici; il contagioso relativismo morale che affascina specialmente le giovani generazioni; l’esteriorizzazione della vita cosi sbandata, che quasi spegne nell’anima la possibilità della riflessione sulle realtà più serie e decreta un assurdo trionfo alle realtà più effimere e banali».

Il laicismo ha finito negli anni a noi più vicini per condizionare perfino la lettura storica di questo periodo. Sul banco degli imputati ci sono soprattutto le storiografie di stampo «gramsciano-marxista», egemoni fino al 1989, caratterizzate tutte grosso modo dall’idea secondo cui l’Italia possa progredire civilmente e culturalmente solo nella misura in cui si liberi definitivamente delle sue radici cristiane.

Non è un caso se la più diffusa opera del maggiore artefice di queste lettura laico-illuministica della storia e società italiana, Norberto Bobbio, appaia proprio nel 1968. per poi essere più volte aggiornata e ristampata, sempre per l’editore Garzanti. Mi riferisco al Profilo ideologico deli ‘900. in cui il filosofo torinese, come ha rilevato Roberto de Mattei («II dopoguerra in Italia nell’analisi di Augusto De! Noce e di Norberto Bobbio»), rimane «prigioniero di una visione immanentista della storia che faceva coincidere il progresso con la secolarizzazione. Non si può negare certo la passione civile e la tensione elica di Bobbio e probabilmente lui stesso non si riconosceva nell’Italia di Tangentopoli. nell’Italia relativista ed edonista degli ultimi anni. Però le posizioni neo-i luministiche di Bobbio hanno contribuito alla dissoluzione della morale. Perché il secolarismo, decretando il tramonto dei valori trascendenti, apre le porte al relativismo».

Virus in incubazione

Se per Bobbio ogni totalitarismo aveva il suo nucleo essenziale nell’idea di una verità oggettiva e assoluta, per l’altro grande protagonista (anche se emarginato prima, durante e dopo il ’68) della filosofìa italiana del dopoguerra. Augusto Del Noce, esso risiede piuttosto nella pretesa relativistica di dissolvere ogni valore e di sostituire così all’ordine oggettivo e naturale delle cose un pseudo-ordine utopistico e rivoluzionario. Censurato dalla cultura «granisciano-azionista».

Del Noce è stato ostracizzato a lungo anche dalla gran parte della classe dirigente cattolica, potendo affermarsi solo fra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta come la figura più lucida e controcorrente della cultura italiana. Fu lui a denunciare per esempio, ha ricordato Invernizzi. come già durante la Resistenza ma soprattutto dopo, nel mondo cattolico «progressista» s’iniziassero a «incubare» virus di cui si sarebbero rilevate inesorabilmente le conseguenze nocive per l’intera società italiana. Come per esempio l’errore specificamente riguardante la vita morale consistente nel contrapporre le virtù cosiddette passive (castità, purezza, temperanza) a quelle attive, che verranno unicamente privilegiate, sebbene in modo parziale.

Come ha ricordato nel suo intervento Invernizzi, significativo è al riguardo l’episodio riportato da Del Noce a proposito di un volantino distribuito negli anni ’60 a Parigi dai cattolici di sinistra del periodico Témoignage Chrétìen contro una manifestazione anti-pornografia, «volantino dove si scriveva d’inutili battaglie contro la pornografia che avrebbero dovuto piuttosto essere sostituite con iniziative contro la guerra nel Vietnam, a favore degli scioperi allora in corso, ecc.».

Il movimento, la cultura antagonista, lo scontro con l’ordine costituito, l’utopia, la rivoluzione sessuale, non nacquero dunque nell’anno magico, il ’68, ma furono presenti in uno stadio ancora non compiuto già molti anni prima. I fautori del tentativo di creare un mondo nuovo con le sole forze dell’uomo e per le vie brevi non poterono o vollero allora nemmeno tentare di intravedere quali drammatici esiti avrebbe potuto avere la parabola di un’esistenza vissuta all’insegna di slogan come «né padri, né padroni», «fantasia al potere» o «vietato vietare».

Alla fine della loro parabola però, quando il «pre-’68» sarà divenuto «’68», e poi rivoluzione politica e poi, ancora, lotta armata e poi anche questa sarà sconfitta, come ha rilevato nella sua relazione conclusiva il direttore dell’Isiin Oscar Sanguinetti, «le “agenzie della modernizzazione” cambieranno registro e la parte migliore, quella più idealista, di una generazione, la mia, tranne qualche sporadica inversione di marcia, sceglierà il suicidio o imboccherà il tunnel della droga. Oppure rientrerà nei ranghi, diventando, da hippy, yuppy, da “figlio dei fiori” a cinico arrivista, accettando cioè finalmente – ma con l’amaro in bocca di una profonda disillusione – il sistema. E confermando così la lucida prognosi di Augusto Del Noce sugli esiti ultimamente “borghesi” e nichilistici della rivoluzione comunista».