Colonialismo rosso

Frelimodal sito: ragionpolitica.it 14 dicembre 2006

di Stefano Magni

Non è affatto vero che il colonialismo nel Continente Nero finì con la partenza delle ultime truppe europee, né si può affermare che all’imperialismo ufficiale ne subentrò un altro, più subdolo, costituito dalle multinazionali. Le multinazionali in sé non sono dotate di risorse di violenza, devono dipendere da accordi con i governi locali e obbedire alle leggi locali. Il nuovo colonialismo che sottomise parte dell’Africa dopo la partenza degli europei fu di tutt’altra provenienza: venne dall’Unione Sovietica.

La condanna dell’ex dittatore etiope Menghistu per genocidio (100.000 vittime del regime riconosciute dal tribunale che lo ha condannato, 725.000 secondo i calcoli del politologo Rudolph Rummel) dovrebbe aprire gli occhi su questo fenomeno storico. Menghistu non fu altro che un ferocissimo viceré al servizio di Mosca. Solo grazie all’aiuto militare sovietico riuscì a consolidare il suo potere tra il 1974 e il 1977 su un impero africano, l’Etiopia, che aveva sempre vantato la sua indipendenza dal colonialismo (a parte la piccola parentesi di dominio italiano dal 1936 al 1940).

Nel marzo 1977, quando i sovietici decisero di «adottare» come alleato l’Etiopia contro la ex alleata Somalia, inviarono al «negus rosso» Menghistu aiuti militari per un valore complessivo di un miliardo di dollari: carri armati, aerei, elicotteri d’assalto, mezzi corazzati per il trasporto truppe e soprattutto 1500 ufficiali ed esperti come consiglieri e 15.000 soldati cubani armati ed equipaggiati in Urss.

Entro la fine del 1978 l’esercito etiope era, di fatto, una succursale delle forze armate sovietiche. In Etiopia affluirono anche altre categorie di «esperti»: agenti della Stasi e del Kgb che organizzarono i servizi di sicurezza del nuovo regime. Quel che avvenne in Etiopia, dal 1977 sino alla fine del regime di Menghistu nel 1991, è solo una progressiva sovietizzazione del Paese.

Furono uccisi senza processo i dissidenti e i comunisti non allineati dei movimenti Prpe e Meison, abbattuti sul posto dagli squadroni della morte o condannati in seguito a processi farsa che ricordano da vicino i più famosi processi staliniani. E furono usate le armi staliniane della carestia indotta e dei trasferimenti massicci della popolazione da regioni meno controllate dal regime ad altre più direttamente sotto controllo. Il potere di Menghistu era contro tutto il suo popolo.

Era talmente dipendente dalla protezione sovietica che sopravvisse solo poco più di un anno alla partenza degli ultimi «consiglieri militari» di Mosca: nel marzo del 1990 fu annunciata la cessazione degli aiuti militari e il 21 maggio del 1991 Menghistu già doveva fuggire alla volta dello Zimbabwe, dove viene ospitato tuttora dal presidente/dittatore Robert Mugabe.

Quello di Menghistu non fu l’unico caso di neocolonialismo sovietico in Africa. Anche in Angola, il regime fu creato a immagine e somiglianza dell’Unione Sovietica. E sostenuto da un corpo di spedizione cubano trasferito nel Paese solo grazie allo sforzo logistico sovietico: si partì con 2000 uomini nel novembre del 1975 e si arrivò a superare i 15.000 già nell’aprile del 1976. Anche in quel caso la presenza militare sovietico-cubana fu motivata da una guerra: la guerra contro la Namibia, che allora era ancora un protettorato sudafricano.

Ma la presenza delle truppe cubane e dei consiglieri sovietici permise al regime di compiere una spietata repressione contro le rivolte contadine e anche contro i «deviazionisti» interni alla stessa classe dirigente del partito filo-sovietico, l’Mpla. Il regime comunista angolano, nel 2002, ha sconfitto l’Unita, l’ultimo dei nemici interni rimasti. È tuttora in piedi e non è stata fatta giustizia di questi crimini, né si conosce ancora l’entità del massacro. Rudolph Rummel ha calcolato il numero delle sue vittime in circa 125.000 fra uomini, donne e bambini.

Un discorso simile può essere fatto anche per il regime comunista del Mozambico, appoggiato sia da Mosca che da Pechino. Fu anch’esso creato a immagine e somiglianza dei regimi comunisti e fu caratterizzato dalla sua politica di «villaggizzazione» dei contadini: il loro trasferimento in aree controllate, non solo per una questione di sicurezza, ma anche per formare l’«uomo nuovo». Anche il Mozambico usò l’arma alimentare per reprimere la popolazione e pose un rigido controllo sugli aiuti umanitari che affluivano dall’Occidente. Le vittime della sua carestia ammontano a circa 600.000.

Sono tutti episodi di violenza, corruzione, repressione, guerra che non fanno parte della nostra coscienza collettiva, ancora intrisa dei sensi di colpa per l’imperialismo europeo e a caccia di nuovi colpevoli negli ambienti capitalisti. Si accusano le multinazionali di sfruttare le risorse del Continente Nero e si dimenticano le centinaia di migliaia di vittime fatte, in tempi recentissimi, dagli ultimi veri colonialisti sovietici. Anzi, oltre al danno la beffa: i regimi afro-comunisti sono sempre riusciti a spacciare le loro brutalità per emergenze umanitarie, ad attirare aiuti alimentari, a suscitare nelle opinioni pubbliche occidentali compassione e non indignazione.